Note su liberalismo e democrazia. Tra passato e futuro (II)

Collegamento a “I fondamenti”    Prima parte

II

Liberalismo e democrazia

Tocqueville comprese che liberalismo e democrazia stavano convergendo e quasi confluendo – anche se ciò avrebbe pure ingenerato gravi problemi di libertà per i singoli in quanto singoli – studiando in presa diretta, in un lungo viaggio di studio, gli Stati Uniti d’America. Riflettendovi, però, aveva sempre presenti i problemi e la cultura della sua Francia e della vecchia Europa, come emerge dal grande libro che ne ricavò e che lo rese a giusta ragione famoso: La democrazia in America (I,1835 e II,1840). Il nobile ribelle “liberale” Alexis de Tocqueville giunse ben presto ad accettare la democrazia, pur non amandola. Ma nell’America vedeva il futuro dell’Europa. E per ciò nella democrazia vedeva la forza di un destino storico ineluttabile, con i suoi lati luminosi e con i suoi lati oscuri: luci di una libertà che era destinata a socializzarsi, in un ambito come l’America, in cui pure i singoli tendevano ad affermarsi senza attendere affatto l’aiuto dello Stato; ombre di un “dispotismo della maggioranza”, che, con la sua enorme spinta a conformarsi poteva soffocare nelle sue spire, anche senza aperto autoritarismo, ogni voce fuori dal coro, ingenerando un conformismo mai visto al mondo[1]. Già risuonavano accenti come quelli dell’Uomo a una dimensione (1964) di Marcuse[2], quando l’America era ancora un immenso Paese ben poco popolato. Comunque nel liberalismo, americano e non, la libertà dell’individuo – all’ombra di uno Stato con poteri divisi e bilanciati – era il punto chiave. Quella libertà, nonostante la spinta uguagliatrice conformista, a Tocqueville appariva garantita, in America, dal gran numero di associazioni, religiose e non, dal basso, che a suo dire controbilanciavano la stessa spinta al conformismo, custodendo il valore supremo del liberalismo: la libertà dell’individuo. Per Tocqueville tale libertà del singolo in quanto singolo era così importante che – diceva in una pagina del suo secondo opus, L’antico regime e la rivoluzione, del 1856[3] – se uno per apprezzarla ha bisogno che gli si spieghi “a cosa serve” è “già fatto per servire”. Chiunque giustifichi l’autoritarismo politico dovrebbe meditare su ciò.

In Europa occidentale, però, la grande simbiosi tra liberalismo e democrazia comincia nel 1848. In Francia, dopo l’instaurazione della Repubblica basata sul suffragio universale (allora ovunque solo maschile, quando iniziava appena). I liberali capiscono di doversi aprire alla questione sociale, che allora era soprattutto questione operaia: tanto che proprio Tocqueville, nel Discorso sul diritto al lavoro pronunciato all’Assemblea Costituente, a Parigi, il 12 settembre 1848, parlava con favore di rivoluzione “cristiana e democratica”, aprendo ai cattolici in chiave liberaldemocratica e antisocialista. In effetti va pure riconosciuto l’apporto dei cattolici al liberalismo di ogni fase. Infatti è vero che la chiesa cattolica è stata per secoli strettamente legata all’assolutismo. Anche nel Risorgimento, per difendere il potere temporale, finì per schierarsi su posizioni reazionarie, culminate nel Concilio Vaticano I. Solo a partire dall’encicica Rerum novarum di Leone XIII del 1891 cominciò ad aprirsi a posizioni socialmente avanzate, culminate nel 1919 nella fondazione del Partito Popolare da parte di don Sturzo, cui per anni andò la simpatia di tutto il mondo cattolico. Anche se tra il 1921 e il 1938, sino alle leggi razziali e al legame con Hitler, la chiesa fu vicina al fascismo. Ma la tendenza del cattolicesimo politico non fu mai univoca. In quell’area, anche durante il Risorgimento, si sono espresse pure tendenze liberali avanzate, sol che si pensi alla corrente cattolico liberale, di cui Alessandro Manzoni, come Raffaello Lambruschini e altri, sono stati espressione o, nel XX secolo, al popolarismo e alla Democrazia Cristiana. De Gasperi stesso va visto anche come un grande cattolico liberale trentino, democratico e socialmente aperto[4]. Analogo discorso vale certo, in ambito via via più riformista, per Aldo Moro, statista autenticamente democratico assassinato dalle Brigate Rosse. E il ruolo del sindacalismo cattolico, della CISL, anche nell’autunno caldo del 1969-1970, è stato di prim’ordine. Il tutto è tanto più vero negli ultimi anni, dal concilio Vaticano II in poi, in cui la chiesa cattolica, specie durante il pontificato di Francesco, ha assunto un ruolo d’avanguardia nella difesa della povera gente di ogni razza e colore.

Tra Liberalismo e Socialismo

Comunque, osservando i fenomeni che c’interessano – incentrati sul rapporto tra liberalismo e democrazia – su un piano macrostorico, si può notare che via via il liberalismo durante il XX secolo si sdoppia. C’è e ci sarà un liberalismo conservatore, tendenzialmente antidemocratico, fermo al suffragio censitario e ad un’economia senza interventismo statale, che anche in Italia va da Cavour alla destra storica erede della tendenza; e c’è e ci sarà un liberalismo sempre più democratico sociale, come quello di John Stuart Mill nell’Inghilterra del XIX secolo e, in Italia, nel XX secolo, di Giovanni Giolitti. Mill era praticamente fautore di un rapporto emulativo tra l’economia privatistica, che avrebbe comunque dovuto prevalere, e l’economia pubblica, come tra scuola privata e scuola pubblica. Con tale posizione siamo quasi ai confini tra liberalismo e socialdemocrazia riformista[5] (tendenze incompatibili per Constant, ma anche per Tocqueville).

Questa posizione liberale-sociale tende subito a quello che verrà chiamato Welfare State, nel senso che già le posizioni dei vari Louis Blanc o Ledru Rollin nel 1848 francese sugli ateliers nationaux, per quanto troppo inferiori alle drammatiche necessità sociali imposte da una crisi economica e dalla miseria degli operai disoccupati del tempo, erano già tentativi di realizzare un liberalismo democratico e sociale. Più oltre emergerà un socialismo “liberale” e un liberalismo “socialista”, sviluppatisi in Italia, tra le due guerre mondiali: dalla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti del 1920-1922 al liberalsocialismo di “Giustizia e Libertà” dei fratelli Carlo e Nello Rosselli[6], ma pure di Vittorio Foa, intorno al 1929-1930, ma poi anche nella Resistenza, nel Partito d’Azione e nelle fondamentali teorizzazioni di Norberto Bobbio. Il keynesismo, come pure il New Deal di Roosevelt, stanno in tale ambito, tendente a realizzare un Welfare State, ossia a ridurre e possibilmente superare la povertà tramite un parziale, ma ampio, intervento riequilibratore dello Stato, in un contesto politico istituzionale e culturale liberale, e capitalistico in economia. Persino la ripresa del federalismo europeo, tramite il Manifesto di Ventotene (1941) di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi – fondamento ideale politico del federalismo europeo – sta in tale contesto liberale democratico e sociale[7]. Tutto quel che chiamiamo Welfare State è stato ed è una forma di liberalismo democratico e sociale. E non conta molto, in termini storico generali come dottrinari, che a “farlo” siano stati non tanto i liberali quanto i cristiano democratici e i socialdemocratici. Questa è stata la linea vincente nell’evoluzione della democrazia e del capitalismo in Europa occidentale.

I nemici del liberalismo democratico

Va tuttavia detto che ci sono almeno tre posizioni “illiberali” storicamente significative, cui qui accenno solo perché al centro ho posto il nesso tra liberalismo e democrazia dalle origini a oggi.

In primo luogo c’è stata una tendenza a restaurare l’ordine nobiliare-clericale, o almeno il dispotismo illuminato travolto dalla Rivoluzione francese e dal bonapartismo dal 1789 al 1815. Com’è noto tale tendenza è chiamata reazionaria, in quanto tendeva a far tornare indietro la storia all’ancien régime, com’era particolarmente nei voti dell’Austria di Metternich e della Russia zarista di Alessandro I, che idealizzavano l’alleanza tra il trono e l’altare propria dell’assolutismo. Sembrerebbe un indirizzo privo d’interesse, ma posso assicurare che se uno vada a leggere opere e scritti del suo maggior teorico, Joseph de Maistre, sarà colpito dalla ricchezza di riflessione teorico politica e religiosa di questi nostalgici di un passato impossibile da resuscitare. Taluno, in pieno XX secolo, ha pensato che ciò sia “resuscitabile” nel quadro di una visione non lineare, ma ciclica, della storia, presente pure nel capolavoro di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente (1918)[8], che pure tendeva ad una sorta di socialismo prussiano. Il riferimento va al “pensatore” italiano Julius Evola. Per lui, che ha per primo, tardivamente, tradotto e curato il capolavoro di Spengler in italiano, la visuale ciclica – che condivideva – consentiva di vedere il Moderno, in specie dal 1789 alla liberaldemocrazia e al socialismo e comunismo, come un’epoca oscura, di nuova barbarie, dopo la quale il sognato assolutismo in stile sacro romano impero o “naturalmente” dispotico avrebbe dovuto risorgere, come torna la primavera dopo l’inverno.[9] (Invece niente “torna”).

Posizioni del genere perdono proprio quello che consentì alla reazione fascista, in Italia (con Mussolini) e in Germania (con Hitler), come in Argentina (con Peron), di avere una solida base di massa (o, come diceva Togliatti nel 1935 nelle sue Lezioni sul fascismo[10], rivolte ai quadri comunisti a Mosca, di essere sì un movimento reazionario, ma “con basi di massa”, cioè capace di coinvolgere grandi masse osannanti, necessarie a farlo durare), e senza le quali conterebbe come il due di briscola. In sostanza ogni fascismo o movimento del genere “vero” e “importante”, per quanto sempre liberticida, nell’età contemporanea è sempre – per così dire – tre quarti “nero” e un quarto “rosso”. Questa questione (della necessità di dare un tratto popolare alla reazione), era stata ben compresa sin dal 1849 – come si vede nel suo Discorso sulla dittatura – dal reazionario spagnolo Juan Donoso Cortès, decisivo per il notevole politologo, nazista e post-nazista, Carl Schmitt. Donoso Cortès già contrapponeva non più re assoluti e democrazia, ma due forme di dittatura: quella della “spada” (conservatrice) e quella detta del “pugnale” (popolare).[11]

Ciò è utile non solo per capire il nuovo bonapartismo di Napolene III dal 1849 al 1870, ma anche e soprattutto le dittature fasciste del XX secolo, che cercano di attrarre – mescolando un forte nazionalismo xenofobo, e il bisogno del “Duce” in periodi di grande crisi, con un limitato, ma effettivo, riformismo sociale – le grandi masse. In sostanza il fascismo emerge sempre, magari dopo travagliati inizi, come un nazionalismo imperialistico che però, per vincere – e anche per poter compattare le forze nazionali in vista di conflitti interstatali sperati espansionistici – ha sempre bisogno di una quota significativa di riformismo sociale. (Storicamente la tendenza espansionista o imperialista, in Italia come in Germania, ha poi determinato il crollo di regimi dittatoriali del genere)[12].

C’è poi stata una terza forma di negazione del liberalismo democratico: la tendenza marxista al “dominio” o alla “dittatura del proletariato”. Questa si è realizzata in due forme di Stato: una risultata sempre di breve durata (per me, ancor oggi, “purtroppo”), per ragioni o contingenti o profonde cui non posso neanche accennare; e una durata sino al crollo del comunismo di stato da Berlino a Vladivostock tra il 1989 e il 1991. La forma precaria è consistita nel grande, ma effimero tentativo di costituire una forma di Stato alternativa allo Stato “moderno” (detto “borghese”), aperta all’anarchia comunitaria dopo la sparizione delle classi: tutto un assetto in cui le forze armate e di repressione fossero i lavoratori armati stessi; tutte le cariche anche amministrative fossero elettive e revocabili da parte delle assemblee popolari (dal popolo “sovrano”), come nella Comune di Parigi del 1871 secondo Marx e secondo lo storico Lissagaray[13]; e in cui i consigli elettivi, e sempre revocabili, dei lavoratori dominassero “nelle” e “dalle” fabbriche, come tentato anche in Italia da Gramsci e compagni nel primo dopoguerra e ripreso dal marxismo operaista degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, da Vittorio Foa a Raniero Panzieri, e da Mario Tronti a Antonio Negri. Questa tendenza allo Stato operaio sul modello della Comune di Parigi (ricostruita in modo magistrale da Lenin in Stato e rivoluzione nel 1917, ma 1918[14]), e ripresa, ma a partire dall’antagonismo di fabbrica, nei testi e micromovimenti proletari degli operaisti da me richiamati[15], non solo è stata sempre e sin troppo facilmente sconfitta (e passi), ma è stata dappertutto preludio della dittatura vera e propria di una minoranza, o partito, socialcomunista, in cui troppo spesso la dittatura del proletariato è diventata dittatura sul proletariato, alla quale si sono spesso ribellati gli operai stessi. Comunque tale forma di dittatura rossa a Occidente è crollata. Dura in paesi come la Cina, ma lì assistiamo al fenomeno di un capitalismo estremamente vitale e iperproduttivo, di cui a livello di Stato è supporto il partito comunista.

Vittoria e crisi della democrazia liberale. Tra presente e futuro

Due prime conclusioni sembrerebbero imporsi, a questo punto. La prima è che lo Stato moderno – monopolio della violenza territoriale in nome della legge, tramite un grosso corpo o macchina di apparati burocratico militari e di polizia, che è esso stesso – non ha mai – dico mai – potuto essere sconfitto, essendo sempre – al massimo dopo un breve intervallo – risorto dalle ceneri, dopo “tutte” le più grandi rivoluzioni, sotto ogni latitudine e ad ogni livello di sviluppo (tanto era o è “sovrastruttura”; mentre è – evidentemente – come Stato, “struttura”). La seconda conclusione è – o meglio sembrava essere – il trionfo della liberaldemocrazia più o meno supportata dal Welfare State. Parrebbe o pareva il trionfo della geniale idea di Tocqueville per cui la democrazia, nel senso liberale e parlamentare, è un destino ineluttabile, tanto che persino i suoi nemici mortali finiscono sempre per fare il suo gioco, convertendosi in facilitatori – loro malgrado – del suo trionfo nel mondo (come spiegava già nella Democrazia in America, nel 1835/1840). Ciò è così vero che dopo il 1991 – salvo cambiare poi idea – un famoso politologo, Fukuyama, parlava di “fine della storia”, volendo dire che il modello democratico occidentale si era ormai imposto in tutto il mondo[16].

Poi, però, è emerso o si è affermato qualcosa che ha messo in crisi proprio il liberalismo democratico, o la democrazia liberale. Il fenomeno ha avuto molto a che fare con l’incipiente rivoluzione industriale nuova di tipo informatico e con la globalizzazione dell’economia mondiale. Grazie a informatica e robotica, e connessa comunicazione diretta di tutti con tutti, quale mai c’era stata nell’intera storia umana, sono saltate tutte le barriere dello Stato nazionale. Tra i rivoluzionari, quello che all’altro mondo può ridersela più di tutti dicendo – a Stalin, ma pure a tutti gli altri più “buoni” tipo Keynes e i teorici e pratici del Welfare State e di ogni programmazione democratica – è Lev Trockij. Egli, sin dal 1905, e poi di nuovo dagli anni Venti, diceva che il “socialismo in un solo paese” (e quindi pure, o tanto più, il riformismo sociale in un solo Paese) non era possibile perché ormai il capitalismo mondiale era diventato un unico mercato o sistema interdipendente[17]. (Naturalmente si sbagliava – come ho detto – sulla possibilità di uno Stato diverso da quello degli ultimi cinquecento e più anni; e pensare che uno Stato proletario mondiale sarebbe stato meno burocratico-poliziesco di quello sovietico avrebbe dovuto esser visto come incredibile). Tuttavia è vero che fare la democrazia sociale, o anche semplicemente il Welfare State, “in un solo Paese”, ossia a livello nazionale (com’è pur stato fatto nel secolo scorso), nell’era della globalizzazione e dell’informatica è sempre più difficile. Il punto che voglio enfatizzare è che il tipo di mondializzazione e rivoluzione informatica che si è imposto ha messo in ginocchio il Welfare State. Borioli, con lucida intuizione politica, ha fatto bene, qui, a ricordarci che il punto chiave della crisi attuale della democrazia liberale è questo, e che in sostanza la difesa del Welfare State è la linea del Piave della democrazia liberale. Ma il punto chiave consiste nel chiedersi se ci siano vie di scampo o soluzioni alla sua crisi storica nell’era della globalizzazione economica e dell’informatica, in cui tutti sono in concorrenza con tutti, quasi come singoli.

Io ne vedo solo due. E m’interrogo su quel che capita dal momento che per ora queste due vie “se la giocano”, ma non prevalgono. La faccenda ha un aspetto legato al singolo Stato e un altro al sistema degli Stati.

La situazione generale è tale che lo Stato, tanto più se non sia grande come un continente, conta sempre meno proprio sul terreno in cui era stato decisivo negli ultimi cinquecento anni: quello della politica economica (oggi del Welfare State, base del connubio tra liberalismo e democrazia di cui si è detto).

Inoltre la situazione economica, già grave a causa della concorrenza di tutti con tutti (e moto di tutti verso tutti) chiamata globalizzazione (pur scontandone i grandi vantaggi, specie per i paesi più poveri), è peggiorata dal venir meno della rete di gruppi liberi ed eventualmente contrapposti che sostanziano la mera rappresentanza elettiva. Il fenomeno è particolarmente grave in Italia. Tutte le grandi ideologie nate nell’Ottocento e fiorite nel Novecento – comunque interne allo Stato nazionale, ovunque in crisi – si sono indebolite “dappertutto”; ma in Italia sono pressoché scomparse (in termini di basi di massa e comunque permanenti delle stesse). Non ci sono più i cristiano democratici, i socialisti, i comunisti e persino i fascisti. O si aggirano come fantasmi del tempo che fu, quasi “nostalgici” di un passato morto o malandatissimo (però in tutte le “grandi famiglie politiche”). Questo è molto grave, se è vero – come io credo – quello che Gramsci diceva in quello che io considero il cuore dei suoi Quaderni del carcere: il punto in cui affermava che la vera scoperta di Ilic (Lenin), “di valore non solo politico, ma filosofico” o “gnoseologico”, consisteva nell’aver compreso che un’Idea conta nella storia facendosi movimento politico di massa (persino con Lutero, rispetto al pur sottile Erasmo): nel nostro tempo facendosi “Partito politico” (un’Idea che ha trova la sua Organizzazione).[18]

Mentre all’estero tutte le grandi famiglie ideal-politiche di cui ho detto, a partire da democristiani e socialisti, sono sì state indebolite dal mondo nuovo dei “social”, dell’informatica e della globalizzazione, ma restano fondamentali (acciaccate, ma ben presenti), in Italia sono scomparse in gran parte. Sembra che il crollo della prima Repubblica, dopo Tangentopoli, dal 1994, sia stato rovinoso e non “rimediato”. Si è passati dalla democrazia dei partiti a una democrazia “quasi” senza partiti.

Ricordo benissimo – anche perché curai – sebbene in forma che oggi non mi soddisfa – gli atti del convegno del 1975 dell’Issoco di Lelio Basso e del Comune di Alessandria su Stato e Costituzione[19] – le parole di Lelio Basso in quell’occasione. Il leader socialista di sinistra e costituente importante che aveva proposto l’articolo 49 della Costituzione vedeva nei partiti un’articolazione dello Stato democratico costituzionale. Egli ci diceva che il limite dello Stato liberale – già individuato da Rousseau nel 1762 (lo si è visto) – di un potere popolare esercitato solo al momento del voto, era superato proprio tramite i partiti, che consentono ai cittadini che lo vogliano di fare pressione sulle istituzioni elettive, stimolandole o contestandole, ogni giorno. Era una tesi originalmente simile a quella espressa da un grande politologo americano, Robert Dahl, in: Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei regimi politici (1972)[20] (nel bene e nel male la democrazia contemporanea vive solo nella poliarchia, cioè per la rete di organizzazioni diffuse che sostengono o contestano chi governi). Ma a parte forse la Lega, che infatti ha il vasto consenso che sappiamo, veri partiti in Italia non ce ne sono più. Sono appena comitati elettorali, o poco più, in cui parlano quasi solo “eletti”, che spesso abbandonano il partito non appena “trombati”. E nessuno ci fa neanche più caso. Quindi il Welfare State, già così sotto attacco nell’era della globalizzazione (si compra il lavoro e insediano imprese dove costa meno, o usando i poveracci contro i lavoratori organizzati e viceversa), non può neanche contare sull’articolazione dei partiti. Bisognerebbe poter almeno disporre di capi elettivi autorevoli, eletti dal popolo sovrano, e infatti la sola riforma che ha funzionato dopo il 1994 in Italia è stata quella dell’elezione diretta dei sindaci, che comunque sono espressione della volontà dei cittadini.

Infine in Italia siamo alla crisi di tutti e tre i poteri fondamentali dello Stato. Non si è riusciti né a rafforzare l’Esecutivo in forma presidenzialista, semipresidenziale o almeno di premierato all’inglese; sono stati bocciati tutti i tentativi del genere (da quello di D’Alema del 1997 a quello di Renzi ne 2006). Poi si è fatto un “tacòn” peggiore del “buso” – come direbbero dov’è nato Ciani -: tornando alla proporzionale pura (il vigente, deplorevole, “Rosatellum”). Il potere legislativo, per parte sua, non ha potuto essere trasformato in senso monocamerale e i cittadini da molti anni, grazie a un dentista della Lega improvvisatosi costituzionalista (Calderoli), votano su listoni, e naturalmente tutto ciò abbassa livello e autorevolezza dei parlamentari. Il potere giudiziario è diventato decisivo, ma è stato iperpoliticizzato tramite le associazioni interne e la sovraesposizione mediatica, e per ciò i tratti corruttivi sono penetrati, al massimo livello, persino in quella cittadella. Il potere giudiziario ha reso pericoloso il mestiere dell’amministratore pubblico senza con questo abolire e neanche ridurre la corruzione, secondo la stessa Procura di Milano. E intere regioni sono pesantemente condizionate dalla criminalità organizzata.

Mentre in una situazione di crisi del Welfare State in ogni Paese – nell’era dell’informatica, della globalizzazione e della concorrenza di tutti con tutti – ci sarebbe bisogno di uno Stato democratico molto forte, perché lo Stato rema contro vento ovunque, in Italia siamo addirittura alla decadenza dello Stato democratico.

Poi c’è il versante internazionale del mondo di cui si è detto. Se all’interno del singolo Stato il problema numero uno, per salvare lo Stato sociale, è la governabilità democratica (l’avere in un modo o nell’altro governi di legislatura), sul terreno internazionale il problema è il federalismo (nel senso di fare “Stati di Stati”, a livello di continenti). In realtà il federalismo, nella storia, ha sempre avuto senso non per dividere, ma per unire in assetti pluricefali quelli che prima erano stati divisi. (Per me dividere quelli uniti è totalmente reazionario, anche se fosse voluto da ultrarivoluzionari o da ultrariformisti). È evidente che noi potremo difendere e magari sviluppare il Welfare State solo tramite uno “Stato di Stati” europeo (da soli è impossibile): il che – se fosse fatto – farebbe dell’Unione Europea la prima potenza del mondo (e infatti Russia e Stati Uniti, per interessi uguali e contrari, brinderebbero se la UE si dissolvesse). Bisognerebbe almeno avere una politica monetaria e una politica estera comuni. Ma in tal caso gli Stati membri dovrebbero rinunciare a una politica finanziaria ed estera in primis proprie per darle alla UE, mentre se ne guardano bene. Perciò si avanza ora due passi avanti e uno indietro e ora due passi indietro e uno avanti. La partita è aperta (sia chiaro, contro il facile catastrofismo), ma è ad alto rischio di sconfitta. Eppure la governabilità di legislatura nei singoli Stati (da un lato) e uno “Stato di Stati” almeno minimo (dall’altro), sarebbero il solo modo di risolvere i problemi di Welfare, e anche di salvare la democrazia liberale socialmente aperta che ci sta a cuore. Naturalmente l’essere o almeno l’agire come “Stato di Stati”, come UE, sarebbe fondamentale pure per la gestione delle massicce migrazioni dall’Africa. Viene in mente il ritornello di una famosa canzoncina di quaranta o cinquant’anni fa: “E allora dai, e allora dai, le cose giuste tu le sai, perché le dici e non le fai?”

La faccenda è antica e nuova. Ci era già arrivato, grazie alla sua genialità assoluta, Immanuel Kant nel suo piccolo grande saggio Per la pace perpetua, nel 1795: la pace universale e durevole (“perpetua”) avrebbe richiesto una “Federazione di liberi Stati” (quelli in cui la legge prevalga sull’arbitrio). Prima o poi a suo dire sarebbe accaduto, perché il mondo, per gruppi sempre più vasti di secolo in secolo – dalle piccole bande dei primordi ai grandi stati – via via si mondializza. Ma finché la Federazione degli Stati del mondo non si attuerà, pure la pace sarà precaria. L’idea che possa farsi pace durevole tramite la “politica dell’equilibrio” tra gli Stati sarebbe – diceva Kant – come credere nella stabilità di un castello di carte. La “Federazione dei liberi stati” del mondo non si farà? – E allora, finché non accadrà, neppure la pace durerà (diceva sempre Kant)[21]. L’alternativa ovvia è la competizione e poi la guerra tra le potenze. Per il dominio del mondo. La cosa è chiara nel XX secolo, specie ai tempi di Hitler. Ma fallendo l’idea pacifista – che è connessa a quella federalista o almeno confederale internazionale – pure Hitler – nel senso della lotta senza quartiere tra grandi potenze per il dominio mondiale – “torna di moda”, cheto cheto (spiegava il massimo studioso italiano di Gandhi, Giuliano Pontara, in un suo libro, già nel 2006)[22].

Purtroppo il superamento di tali aporie si scontra con il carattere di struttura dello Stato. Anche se va contro la nostra vecchia vulgata marxista, è stato più facile mettere a regime le forze economiche tramite il potere politico (e infatti con le economie di piano come col Welfare State è accaduto),che cambiare lo Stato (la sua “vocazione” a prendersi tutto il potere territoriale e a non mollarlo, se non “costretto” con la forza; tanto che si può ben dire che almeno su ciò lo Stato si abbatte, ma non cambia). Cambia solo – quando cambia – la forma di governo. Perciò lo Stato non cede volontariamente il potere (è “struttura”): cambia solo se “costretto” dalle circostanze più o meno estreme, come uno che debba essere costretto alla chemioterapia (il quale, potendo, ne fa a meno). Persino il federalismo americano è sì nato come costituzione e teoria (il Federalist) nel 1777/1778, ma è diventato non solo confederale (alleanza tra Stati), ma “Stato di Stati vero”, dopo la sanguinosissima guerra tra nordisti e sudisti del 1861-1865. Può darsi che l’Unione Europea ce la faccia, e infatti la partita è veramente aperta (grazie al “Cielo”), ma per ora è in preda a mille difficoltà.

La mancata autoriforma dello Stato italiano è un bel problema, con cui l’attuale decadenza della democrazia in Italia, che è insieme la più grande farsa e il più grave dramma dello Stato italiano – almeno in tempi di relativa libertà – dal 1861 in poi, ha molto a che fare con questo. Ma il guaio “vero” è il semifallimento del federalismo europeo (anche se la partita per fortuna è appunto aperta), federalismo senza il quale economia e Welfare sono sempre più in crisi.

Ma se fallisce l’unione tra Stati e il sistema degli accordi economici tra Stati, resta solo – anche se è una pseudosoluzione – il futurismo del passato, la strada dei gamberi: un tornare all’antico, agli Stati nazionali chiusi e in competizione. Questa forma passata non torna mai alla stessa maniera (e però in forme nuove accade, come una sorta di psicoanalitico “ritorno del rimosso”). Come dicevano Edgar Morin e Anne Brigitte Kern in Terra-patria nel 1994, la crisi del futuro attualizza il passato[23]. Mussolini col manganello e l’olio di ricino, e il partito unico, non può tornare, ma Salvini può “arrivare”, con maggioranza assoluta, giocando a fare il Putin russo agli spaghetti (o al risotto alla milanese). Liquidato Renzi è arrivato e sta arrivando Salvini. Chi ha rovesciato Renzi, che pure aveva i suoi tratti di arroganza e i suoi limiti politico culturali (ma indicava una qualche via d’uscita “liberal”), avrebbe dovuto antivederlo chiaramente. Sta arrivando la “democratura”, un governo nazionalista xenofobo, regolarmente eletto e regolarmente licenziabile, che proverà a mettere in riga il potere legislativo e giudiziario, e a superare la crisi dell’inefficienza generale, e dei conti pubblici, facendola pagare alla povera gente disorganizzata e soprattutto agli “stranieri”, e ai “diversi”; ma rischiando di ammazzare il malato per guarirlo e di farci tagliare furi dai grandi giochi tra e dei principali paesi europei. A meno che l’Italia, toccato il fondo, non faccia un balzo in avanti riprendendo e ampliando la lotta per la democrazia dell’alternativa e per la salvaguardia e sviluppo dell’occupazione e del Welfare State, che sono battaglie storiche interconnesse.

Salvini “arriva” non perché siamo sporchi, brutti e cattivi (i soliti pronipotini di Mussolini “autobiografia della nazione”), ma perché se la governabilità democratico riformista, e però forte ed efficace, non arriva dalla parte progressista, arriva dall’altra parte. I cittadini della seconda potenza manifatturiera d’Europa sono pronti ad abbandonarsi a Salvini perché dall’altra parte si dorme: nessuna grande idea innovativa è approfondita e soprattutto appassionatamente discussa e interiorizzata; non emerge nessun partito “riformatore” diffuso e con le idee chiare, che faccia politica 365 giorni all’anno “come una volta”, in nessuna parte politica diversa dal “nuovo nazionalismo reazionario con basi di massa” (democratico, ma “nuova destra”). Non emerge, a sinistra, nessuna volontà di avere un leader forte invece di distruggere i propri leader ogni volta che emergano (pur con i limiti propri anche dei loro “colleghi” di parte avversa). Ringraziamo il cielo perché siamo e possiamo essere solo nell’Unione Europea, e perché l’umanità ha imparato a gestire le grandi crisi economiche tipo 1929, perché altrimenti, in contesti del genere, avremmo con matematica certezza un dittatore e non un Salvini all’orizzonte (ossia l’annuncio di un governo democratico reazionario forse decennale). Ringraziamo anche la grande crisi culturale (identitaria) che c’è in giro, perché anche per fare un capo carismatico “vero”, forte e durevole, ci vuole uno molto più solido di Salvini. Questi potrebbe anche risultare una parentesi “nera” della storia che avanza e che è già “en marche”. Magari tra due anni nessuno ne parlerà più e la “nuova reazione con basi di massa” sarà risultata effimera. Però è sempre meglio sopravvalutare che sottovalutare i rischi. Ma ciò vale pure per il grande mondo tutto intorno, che – se non riesce a fare in Europa gli Stati Uniti d’Europa, anche in forma di “Stato di Stati minimo” (ma vero) – torna indietro, cioè allo scontro tra le potenze. Sta già accadendo, proprio come col “salvinismo” interno. Sono addirittura tornati gli scontri doganali tra potenze, con i dazi contro la concorrenza e le “inique sanzioni” contro Stati “nemici”. Pochi giorni fa sul “Corriere della sera” (23 luglio 2019) un grande commentatore di cose internazionali, Franco Venturini, in presenza della crisi d’oggi nello Stretto di Hormuz, tra Iran e Stati Uniti, evocava addirittura lo spettro di Serajevo.[24]

Dobbiamo salvare il liberalismo democratico e la pace mondiale, ma per farlo ci vuole governabilità democratica all’interno e federalismo europeo vero all’esterno. In caso contrario i rischi di catastrofe, in forma di “democrature”, ma anche di crisi mondiali fuor di controllo, purtroppo possono solo crescere. Naturalmente spero di essere smentito dalla storia. Lo spero ardentemente. Ma siccome la storia l’ho parecchio investigata, e vi ho riflettuto per tanti decenni, non ci conto troppo.

  1. A, de TOCQUEVILLE, La democrazia in America (1835, I; 1840, II), in: Scritti politici, a cura di N. Matteucci, UTET, 1968, due voll.
  2. H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, 1967.
  3. Compare al I vol. dell’op. cit. Scritti politici di Tocqueville a cura di N. Matteucci.
  4. Si veda soprattutto: P. SCOPPOLA, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, Laterza, 2005. Si confronti con: Giorgio GALLI, Storia della Democrazia cristiana, Laterza, 1978. Ora è fondamentale la tardiva prima biografia esaustiva del capo storico della DC: P. CRAVERI, De Gasperi, Il Mulino, 2006.
  5. J. STUART MILL, Elements of Political Economy (1826), New York, Olms, 1971; Considerazioni sul governo rappresentativo (1863), Milano, Bompiani, 1946 e, più attuale che mai per tale tendenza, e formidabile nel suo svolgimento, Sulla libertà (1859), a cura di G. Giorello e M. Mondado, Milano, Il Saggiatore, 1981.
  6. C. ROSSELLI, Il socialismo liberale (1930), a cura di J. Rosselli e con Introduzione e saggi critici di N. Bobbio, Einaudi, 1997.
  7. A. SPINELLI – E. ROSSI, Il manifesto di Ventotene (1941, ma edito nel 1943), Presentazione di T. Padoa Schoppa e a cura di L. Levi, Milano, Oscar Mondadori, 2006. Ma si veda: G. DE LUNA, Il partito d’Azione. 1942-1947, Milano, Feltrinelli, 1982.
  8. L’opera di Spengler fu tradotta e curata da J. Evola, Milano, Longanesi, 1957.
  9. J. EVOLA, Il Fascismo. Saggio di un’analisi critica dal punto di vista della destra, Volpe, Roma, 1955. Dello stesso si vedano: Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano, 1934; Gli uomini e le rovine, Edizioni dell’ascia, Roma, 1953.
  10. Il testo fu edito per la prima volta, a cura di E. ragionieri, a Roma, dagli Editori Riuniti, nel 1970.
  11. J. De MAISTRE, Considerazioni sulla Francia (1796), a cura di M. Boffa, Roma, Editori Riuniti, 1985. Ma si vedano pure: D. FISICHELLA, De Maistre, Laterza, 1993; C. SCHMITT, Donoso Cortès (saggi del 1922/1944), Milano, Adelphi, 1996. Per un’ottima antologia della tendenza reazionaria: I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 1981.
  12. La produzione in materia è vastissima, ma a titolo meramente indicativo si possono ricordare: R. DE FELICE, Mussolini, Einaudi, 1965/1990; R. DE FELICE, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, 1965; C. GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carocci, 2001; Chi è fascista, Laterza, 2019; E. SACCOMANI, Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino, Loescher, 1977; J. FEST, Hitler, Rizzoli, 1974; S. J. WOOLF (a cura), Il fascismo in Europa, Laterza, 1968. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Note politiche e psicoanalitiche su Benito Mussolini, in: Stato e libertà, cit., pp. 181-204.
  13. D. ZOLO (a cura), I marxisti e lo Stato, cit.; K. MARX, La guerra civile in Francia, a cura di P. Togliatti, Rinascita, Roma, 1947; P. H. LISSAGARAY, Storia della Comune (1876 e poi 1896), a cura e con Introduzione di E. Ragionieri, Editori riuniti, 1962. Rinvio pure a: F. LIVORSI, L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo, in: G. CAVALLARI (a cura), “Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamento dello Stato contemporaneo”, Roma, Carocci, 2001, pp. 95-124.
  14. Editori Riuniti, in “Opere complete”, vol. XXV, Editori Riuniti, 1967, pp. 361-463,
  15. A, GRAMSCI, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, 1963 (rinvio pure a: F. LIVORSI, Gramsci e il bolscevismo (1914-1920), in: FONDAZIONE ISTITUTO PIEMONTESE ANTONIO GRAMSCI, “Il giovane Gramsci e la Torino d’inizio secolo”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1998, pp. 101-124); V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980; V. FOA, Il Cavallo e la Torre, Riflessioni di una vita, Einaudi, 1981; R. PANZIERI, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra. 1956-1959, a cura di S. Merli, Marsilio, Venezia, 1986; R. PANZIERI, Lettere. 1940-1964, a cura di S. Merli e L. Dotti, Marsilio, 1987; M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, 1967; A. NEGRI, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, 1979; Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tommasini, Milano, Multhipla, 1979.
  16. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
  17. L. TROCKIJ, La rivoluzione permanente (1928), Milano, Oscar Mondadori, 1971; Per conoscere Trotskij. Un’antologia delle opere, a cura di L. Maitan, Oscar Mondadori, 197
  18. A, GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975: quaderno 10 (XXXIII), par. 12, pp. 1249-1250.
  19. AA. VV., Stato e Costituzione. Atti del convegno dell’Issoco e del Comune di Alessandria, Introduzione e cura di F. Livorsi, Marsilio, Venezia, 1977.
  20. Milano, Angeli, 1990.
  21. I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Introduzione di N. Bobbio, Editori Riuniti, 1992. Si veda pure: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., “Stati e federazioni. Interpretazioni del federalismo”, Introduzione e cura di E. a. albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31.
  22. G. PONTARA, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi nel XXI secolo, Torino Gruppo Abele, 2006.
  23. E. MORIN – A, B. KERN, Terra Patria (1993), Milano, Cortina, 1994, p. 74.
  24. F. VENTURINI, Un gioco (sempre più) pericoloso, “Corriere della sera”, 23 luglio 2019.

1 Commento

  1. Grazie, professore. Sappiamo che ormai molti chiedono di colmare una delle tante “ignoranze” odierne; quella della Storia. Tu dai un ottimo contributo in generale, ma fai di più: dimostri che è importante divulgare lo specifico della storia politica, anche recente, ovviamente cercando al meglio l’oggettività. In questi tempi in cui i politici populisti negano o comunque contraddicono oggi ciò che hanno pomposamente affermato ieri, è urgente una costante attività di memoria “ideologica”. Visto che i partiti non ci sono più, forse è questa la missione che giorni fa Cacciari chiedeva agli Intellettuali.

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