Renzi è davvero “furioso”?

di Franco Livorsi

Curzio Malaparte lo ha descritto tal quale nel 1956, in Maledetti toscani: libro che forse sarebbe da ristampare, o comunque da rileggere. Non stupisce, perciò, che il “maledetto toscano” Matteo Renzi sia antipatico a molte persone, per ragioni che però prescindono dai suoi meriti e dai suoi demeriti. Per tale “gente” è sempre stato ed è “spregioso” (sprezzante), come diceva “quel Malaparte” – che era di Prato – dei toscani, e tanto più dei fiorentini. Renzi sembra dunque inequivocabilmente arrogante. Ma non è certo il solo politico che sia apparso, o sia stato, o sia tale.

Ha avuto pure altre pecche. Quando fu eletto alla testa del PD, nel dicembre 2012, Renzi dopo pochi mesi dalle elezioni politiche del febbraio 2013, nel febbraio 2014 liquidò in quattro e quattr’otto una testa fina, ma ritenuta poco efficace nell’arte di governo, come Enrico Letta, subito dopo averlo tranquillizzato dicendogli: “Enrico, stai sereno”. E ora parrebbe voler ripetere l’operazione, pur senza potergli certo succedere – almeno nei prossimi anni – con Giuseppe Conte, dicendogli: “Conte, stai sereno” (tanto che quando Conte lo vede si rabbuia e si tocca i “cabagigi”). E non è finita. Renzi, al governo, aveva abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del maggio 1970, che introducendo la motivazione della “giusta causa”, che per mandare a casa un lavoratore costringeva il Capitale, quando voleva licenziarlo, a vedersela mediamente per otto anni con lui o chi per lui, dati i tempi della Giustizia che ci ritroviamo, in tribunale (sempre con esito incerto Procura per Procura). Non era “bello” abolire quell’articolo, ma siccome lo Statuto dei lavoratori dello stesso 1970 valeva per le aziende sopra i 15 dipendenti, che in Italia saranno il 5% del totale, dipingere chi ha attentato a quell’articolo come il sicario del padronato italiano era stato esagerato. Anche se il porsi in antitesi ai sindacati operai per un segretario del PD era qualcosa di cui si sarebbe ben potuto, o si sarebbe dovuto, fare a meno. Lo dissi e scrissi subito, pur senza strapparmi gli abiti per l’indignazione (ma anche una mia amica già alta dirigente della CGIL mi disse, allora, che non se li strappava neanche lei, anche se nel suo caso lo spettacolo sarebbe stato più gradevole).

Renzi commise pure il grave errore di fare il gioco dei “suoi” avversari, che nel 2016 avevano trasformato il referendum in materia di riforme istituzionali in un referendum pro o contro di lui. E in quei mesi non avrebbe mai dovuto dire e ridire che in caso di sconfitta si sarebbe dimesso da Presidente del Consiglio e da segretario del PD, essendo poi costretto a farlo: salvo poi tornare segretario del PD eletto nuovamente dal suo popolo elettore in regolari primarie il 30 aprile 2017. Mai dire mai. (Ricordo che nel 1970 il papà dell’ex sindaca di Alessandria Rita Rossa, il mio compianto amico Angiolino, che allora era segretario della Federazione del PSIUP, di cui io ero vicesegretario, di fronte a una tendenza alle dimissioni che in me è sempre ricorsa, mi diceva con saggezza alla Bertoldo in lui caratteristica: “Franco, ricordati che l’Italia è il Paese in cui non ci si dimette mai.”).

Per me Renzi, dopo la sconfitta in quello storico referendum del dicembre 2016, non avrebbe neppure dovuto tornare “in gran parte” alla proporzionale (e neppure dovrebbe farlo ora), dopo essere stato il gran campione di una sua legge elettorale detta “Italicum” basata sul maggioritario e sul premio di maggioranza; avrebbe dovuto fare “solo” quanto i pronunciamenti della Consulta obbligavano a fare, ossia precisare la quota minima da ottenere come lista di maggioranza relativa, al secondo turno, in base alla legge elettorale Italicum, per ottenere il 55% dei seggi (ad esempio fissando l’asticella minima per la lista di maggioranza relativa al secondo turno, da premiare, al 40%), oppure precisare l’entità percentuale (ad esempio una maggiorazione del 15% alla lista più votata al secondo turno). Certo uno con forti convinzioni sul proprio modello di Repubblica, avrebbe fatto come il de Gaulle del 1946, che contrastò in Francia il modello elettorale proporzionale puro della Repubblica dei partiti prevalso allora là come in Italia dimettendosi da Presidente, e dopo aver invano tentato di ottenere la maggioranza col suo movimento, si ritirò a Colombey, per poi tornare cinque anni dopo, nel 1958, chiamato in una situazione di emergenza, facendo approvare per referendum la costituzione democratica di tipo semipresidenziale che in Francia ancora dura. Ma, per fare così, Renzi avrebbe dovuto essere non solo molto in gamba, com’è, ma uomo di principi, e non solo – sempre come il “maledetto toscano” malapartiano richiamato – pragmatico e spregiudicato. Ma non lo aiuta, in ciò, l’età “melmosa” della società “liquida” d’oggi, in cui solo quelli che “non se ne intendono” difendono saldi punti di vista. E “Dio” li benedica.

Infine Renzi non avrebbe assolutamente dovuto commettere il gravissimo errore, già fatto poco prima dai suoi avversari interni in senso inverso, di fondare un partitino tutto suo (loro di sinistra come Liberi e Uguali, e lui di centro aperto a sinistra come Italia Viva). Troppa fede in sé stesso. Non lo sapeva che la corrente che ha già avuto modo di esprimere i suoi talenti in un grande partito, quando esce prende al massimo il 5% (mentre certo pensava “almeno” al 10 o 12%)?

Ma poste tutte queste non piccole cadute – di stile o di sostanza – come negare che i mille giorni di governo di Renzi abbiano registrato tante cose buone, anche in materia di diritti civili per coppie di fatto eterosessuali come omosessuali, e sulla fine della vita; abbiano visto grandi investimenti sulla scuola; abbiano ridato al Paese credito nell’Unione Europea e con gli Stati Uniti di Obama? Perché non riconoscere che talune riforme, sia pure uscite in modo un poco pasticciato dalla Commissione bicamerale, avrebbero dato all’Italia la governabilità: una governabilità, ben inteso totalmente democratica, la cui carenza, addirittura crescente, a mio parere, è la vera palla al piede (con catena) di un Paese che – pure con i ben noti dislivelli economici e di rispetto della legalità specie tra Nord e Sud – sta in piedi perché la “società civile” è un po’ migliore dello Stato, avendo innumerevoli punti d’eccellenza nell’arte, nella scienza, nella tecnica, negli stili e qualità della vita, nell’accoglienza, nel dinamismo produttivo e nella capacità di fare business? Perché non riconoscere che le competenze, sia pure un po’ pasticciate, del Senato, previste da Renzi e compagni nel referendum fallito del 2016, avrebbero reso il sistema innanzitutto fondato su governi stabili in partenza col 55% dei voti e con investitura diretta in libere elezioni; avrebbero reso l’assetto quasi monocamerale, già solo per il fatto che il Senato non avrebbe più dato la fiducia ai governi? E che il Senato sarebbe stato in gran parte il coordinatore nazionale delle Regioni? E che sarebbero tornate allo Stato le competenze concorrenti tra Regioni e Stato poste da Bassanini e dai Democratici di Sinistra tra il 1997 e il 1998 ed entrate in Costituzione, come nuovo articolo quinto, nel 2001? E come negare che tale ritorno delle competenze “concorrenti” allo Stato da un lato avrebbe ridotto moltissimo il rischio dell’Italia di dividersi in tante repubblichette, e dall’altro avrebbe impedito il caos di competenze tra Stato e Regioni in materia sanitaria: meccanismo disfunzionale che non è la sola, ma certo è una delle ragioni del triste primato quasi mondiale, rispetto al numero degli abitanti, di morti per Coronavirus in Italia? E chissà che succederà ora, in termini di tempi e quant’altro, nella distribuzione e soprattutto “tempestiva” somministrazione di vaccini contro il coronavirus da cui dipende la vita di tanti vecchi come me?

E perché dimenticare il fatto che se non abbiamo Matteo Salvini come capo di un governo di destra populista, dopo elezioni che un anno fa avrebbe certo vinto, è accaduto perché quando Salvini, rassicurato sulle elezioni alle porte persino da Zingaretti, aprì la crisi del primo governo Conte, ci fu qualcuno che s’inventò il Conte due, qualcuno che si chiamava proprio Matteo Renzi?

Dopo di che è emerso un governo Conte bis, imperniato sulla strana alleanza tra PD e M5S, in cui il secondo è il gruppo non solo più forte in base alle elezioni del marzo 2018, ma egemone, rispetto al PD (il cui segretario Zingaretti e il capodelegazione Franceschini pongono sì le istanze valide, ma di fronte ai no del M5S sono sempre pronti a cedere per forza maggiore; quei “ragazzacci” lo sanno e ne approfittano, e gli altri “s’accontentano”). Questo governo ha fatto pure cose buone, per quanto mal gestite, come il reddito di cittadinanza. Si è trovato ad affrontare l’epidemia più grave da un secolo e l’ha fatto non malamente, nonostante gravi errori dopo la prima ondata del virus. Ma nell’insieme ha speso una montagna di soldi in modo che pare non rilanci affatto l’economia, spesso con “bonus” assurdi; in sostanza ha dimostrato i limiti di un esecutivo con troppi dilettanti allo sbando in punti vitali dello Stato, governanti caratterizzati da un’incompetenza senza uguali dal 1861 in poi. Nella storia d’Italia abbiamo avuto governi talora criminali, ma mai “governi così” segnati dalla sprovvedutezza cronica. Renzi ora vuol far cadere questo Governo (ammesso che non molli il cerino all’ultimo momento, come può essere perché al dunque può pure “farsi furbo”). Io non dico che faccia bene a fare il “crisaiolo”, in tempi di pandemia in cui ogni sforzo dovrebbe essere concentrato sulla difesa del diritto alla vita dei cittadini: sospetto, anzi, che con questa scelta Renzi possa fare la più grande idiozia politica della sua vita, più o meno come quella di Salvini quando dalla spiaggia del Papete, nell’agosto 2019, aprì una crisi al buio passando così dalle stelle alle stalle dalla sera alla mattina. Ma sarei più cauto di tanti antirenziani della domenica nel dare addosso al “segretario fiorentino”. E ciò per due ragioni.

Intanto io seguo sempre il vecchio detto cinese sul fatto che quando il dito indica la luna, lo stupido guarda il dito. Insomma, di fronte agli argomenti di Italia Viva e di Renzi, guardiamo prima gli argomenti, e non il dito che li indica. È vero o no che Conte, per quanto oggi dia rassicurazioni, aveva provato a fare una cabina di regia, d’intesa solo con il ministro dell’economia, basata su pochi grandi manager e alcune centinaia di tecnici al di sopra del governo stesso, per non dir del Parlamento, e che solo la lotta a muso duro di Renzi e compagni glielo ha impedito, con soddisfazione generale?

C’è poi la questione della spesa sanitaria, che gira e rigira, pur con tutte le precisazioni su spese “sanitarie” trasversali di più ministeri, nel bilancio appena approvato è di nove miliardi, mentre il bravo ministro Speranza avrebbe voluto che fosse il triplo, e molti dicono che non basterebbe ancora. Giorni fa c’è stato un articolo di fondo di Paolo Mieli sul “Corriere della sera” – non proprio l’ultimo venuto, e certo non uno che scriva a vanvera, e su una gazzetta qualunque – che spiegava il segreto. Pensando a antiche discussioni di Giunta di Alessandria cui avevo preso parte più di quarant’anni fa, mi ha fatto venire il brivido alla schiena, perché pensavo che certe “logiche” fossero solo del nostro “strapaese” e non dell’Italia in cammino. Perché avrebbero messo solo nove miliardi nella Sanità? – Ma perché – spiegava Mieli – il ministro della Sanità è il leader di un partito piccolissimo, e quindi si è dovuto accontentare. Ma allora la proposta di Renzi di prendere subito in prestito quasi senza interesse i 36 miliardi che l’Unione Europea ci darebbe per spese sanitarie (il famoso MES), non è tanto scema e, anzi, è la voce della ragione. Tra l’altro non solo Zingaretti, ma anche Bersani consigliava di prenderli, pur minimizzando il problema (che invece la faccenda dei nove miliardi mostra essere rilevante). E poi anche i 209 miliardi ulteriori attesi sono prestito, ma a condizioni meno favorevoli. Tuttavia nella conferenza stampa del 30 dicembre Conte non ha preso alcun impegno in proposito, neanche nel senso di usare i 36 miliardi del MES chiedendone una parte, come gli propone il PD: ha demandato tutto al Parlamento, come se questo potesse votare una spesa di questa portata mentre il governo non propone niente.

Infine c’è la questione della delega dei servizi segreti in mano al Presidente del Consiglio. È vero che ce l’aveva pure il buon Gentiloni (e prima ancora Berlusconi). Sarà tutto regolare, ma a me non pare giusto, nel Paese dei servizi segreti deviati. Nel mio piccolo io credo che una tal delega non dovrebbe mai essere data al capo di un governo, neanche se costui fosse San Francesco.

Con ciò è esaurita la faccenda della luna e del dito. Ma resta il fatto inoppugnabile che aprire una crisi di governo mentre infuria la pandemia parrebbe “da pazzi”. Potrebbe essere vero, anche se ciò non annullerebbe affatto le molte azioni socialmente valide e fonte di nuovi diritti, e, credo io, la bontà, nell’insieme, dei tentativi di riforma dello Stato del 2016, di cui si è detto, compiuti da Renzi in passato. Può essere che un’eventuale crisi di governo sarebbe un’opzione da irresponsabili. Ma in proposito io pratico una piccola sospensione di giudizio, di cui già a gennaio vedremo l’esito (non c’è tanto da attendere per verificarla, tanto più che nella conferenza stampa del 30 dicembre, Conte ha parlato di giorni). La mia sospensione brevissima di giudizio concerne il seguente interrogativo: non ci sarà qualche scenario che noi della ventesima fila non conosciamo, mentre magari lo conoscono i due Matteo (Renzi e Salvini), e magari Mario Draghi, e persino il presidente della Repubblica, che come nei libri delle elementari di settant’anni fa potrebbe fare come allora, verso il 1951, si diceva avesse fatto Cavour con Garibaldi prima dell’impresa dei Mille: “Fate, ma non ditemi niente”. Se fosse così – o se ci fosse anche solo un accordo tra i due Matteo e Draghi, o un “accordicchio” – io approverei. Infatti, come amante disperato del mio Paese, per me l’idea che “questi qui” abbiano in mano un potere di spesa dal quale dipenderà la storia economica d’Italia, e quindi l’Italia in cammino, dei prossimi quarant’anni – qualcosa di ancora superiore ai soldi del piano Marshall, per intenderci – consistente in 209 miliardi di euro, ossia in 418.000 miliardi di vecchie lire, mi fa paura pensando ai destini del mio Paese.

Certo, se la sola soluzione – in caso di mancato governo più autorevole, competente e forte a breve, chiunque lo impersoni (Draghi o altro personaggio di primissimo piano o lo stesso Conte con terza “resurrezione” dall’avello) – fosse il voto, far cadere questo governo in piena pandemia sarebbe una follia come quella di Orlando quando seppe di Angelica e del soldatino Medoro. Ma se invece si trattasse solo di una manovra ardita per mettere al timone gente che se ne intenda, e più capace in Italia e per l’Europa, per fare la storia dei prossimi quarant’anni, il “pazzo” Renzi tanto pazzo non sarebbe proprio. Comunque portiamo pazienza. Aspettiamo la trattativa tra “partiti” sino all’ultimo, quando i “mai e poi mai” si trasformano magari in “vediamo”. Aspettiamo di vedere se in extremis Renzi si fermerà. Vedremo prestissimo se l’opzione di Renzi, se verrà mantenuta, o non soddisfatta, e quindi porterà elezioni anticipate, risulterà follia sconsiderata oppure rischio ben calcolato (contro le elezioni), con una bella rete sotto in caso di caduta del funambolo dalla corda sospesa “sull’abisso”.

Ma c’è una seconda ragione per non esagerare nei giudizi negativi su Renzi e Italia Viva.

Renzi è uno che per due volte – una anche dopo la sconfitta referendaria – è stato eletto segretario del PD, e che fa parte di questa maggioranza. L’interesse della sinistra è quello di formare o nel PD, magari ribattezzato, o intorno al PD, una sinistra “plurima in uno”, o almeno una confederazione di più soggetti, ma con norme vincolanti per tutti, con un forte programma comune, e in forte alternativa ai moderati. Questa forza aggregante, o aggregata, ha necessariamente due rive del fiume: quella della sinistra più di sinistra e quella del centro aperto a sinistra: diciamo l’area di Bersani, di Speranza e del vecchio amico Federico Fornaro, da un lato; e l’area di Renzi, ma pure dell’eccellente Carlo Calenda di Azione, dall’altro (e il “fiume” del PD che scorre in mezzo). Queste tre aree – una più di sinistra, una più di centrosinistra, e una più di centro aperto a sinistra – debbono imparare a convivere, anche competendo, entro limiti concordati e vincolanti, e comunque in una relazione “da compagni”. Come nel laburismo inglese e pure nel Partito Democratico americano. E come al dunque fanno, in Italia, persino i tre “partiti” della destra.

Io credo che questo – dell’unità in un partito o della federazione tra partiti riformatori e riformisti – sia ormai l’unico sbocco possibile, nel PD o in alleanza forte con esso, tanto per LeU quanto per Italia Viva, e che in tutti e tre i gruppi chi “se ne intende” l’abbia già capito da tempo, lasciando ai pivelli o al “loggione” la “logica” che il grande Jannacci aveva già preso per i fondelli in modo immortale, per ritmo e parole, nel suo “Vengo anch’io: no, tu no” del 1968 (che invito a ripescare e risentire su You Tube). Anche Città Futura, che per Statuto ha la finalità del tendere a una “sinistra inclusiva” (oggi politicamente più attuale che mai), dovrebbe farne il proprio fondamento solido, giocando non a chi le spara più grosse contro una delle altre due aree, ma a ristabilire un dibattito profondo e fraterno tra tutte e tre tali aree: senza rinunciare alle differenze, ma bandendo insulti, faziosità e intolleranza. Questa sarà persino la chiave per poter riconquistare nel 2022, ma in modo utile alla Città di Alessandria, il “Palazzo rosso” perduto (ad esempio tramite primarie di coalizione per individuare tra un anno il candidato sindaco di tutta la sinistra, prevenendo e superando i soliti particolarismi nocivi). I tre riformismi, insieme alle tre confederazioni dei lavoratori (che sono il lato economico-sociale della medaglia della sinistra o centrosinistra), sono chiamati a farsi sinistra di governo, oppure a prepararsi a molti anni di egemonia da parte della destra populista. La destra populista, con una sinistra politica e sindacale capace solo di farsi la guerra interna, è sempre costretta a vincere, per quanto possa essere di modesta levatura. La storia stessa sembra dimostrare che la vittoria della destra non nasce tanto da “virtù propria” (direbbe Machiavelli), cioè da qualità intrinseche più elevate della parte avversaria, ma dalla debolezza della sinistra, incapace di gestire i dissensi interni senza lasciarli arrivare all’autodistruzione, di darsi un minimo di disciplina “esterna” comune, e un programma di governo concreto e al tempo stesso di lungo periodo, di cui a mio parere l’obiettivo dell’avere governi che durino da un’elezione all’altra tramite necessaria riforma dello Stato non dovrebbe essere un accessorio, ma punto centrale (condicio sine qua non per poter fare bene il resto). Se invece si preferisce lavorare per l’avversario “di classe”, come si diceva una volta, io che cosa posso farci?

di Franco Livorsi

1 Commento

  1. Ringrazio Franco Livorsi per il contributo e provoa riprendere un passaggio (finale) che mi stimola in modo particolare. QUesto: “Anche Città Futura, che per Statuto ha la finalità del tendere a una “sinistra inclusiva” (oggi politicamente più attuale che mai), dovrebbe farne il proprio fondamento solido, giocando non a chi le spara più grosse contro una delle altre due aree, ma a ristabilire un dibattito profondo e fraterno tra tutte e tre tali aree: senza rinunciare alle differenze, ma bandendo insulti, faziosità e intolleranza. Questa sarà persino la chiave per poter riconquistare nel 2022, ma in modo utile alla Città di Alessandria, il “Palazzo rosso” perduto (ad esempio tramite primarie di coalizione per individuare tra un anno il candidato sindaco di tutta la sinistra, prevenendo e superando i soliti particolarismi nocivi). ” Si fa appello ad una funzione non divisiva di Città Futura, evitando il più possibile polemiche ed attacchi faziosi, puntando ad una “condivisione di coalizione” che, unica, ci darebbe qualche possibilità in più di vincere, cioè di avere le leve di governo amministrativo e politico, pur nelle limitatezze della politica odierna.Sono d’accordo e sottoscrivo in pieno. Tutti gli articoli che sono usciti in questo ultimo anno sono stati improntati, sempre, a questo scopo primario ma, evidentemente, ci vuole qualcosa di più che la semplice pubblicazione. Ai tavoli “che contano”, quelli che hanno rappresentanze ufficiali con portavoce riconosciuti dei vari partiti e movimenti presumibilmente parte della “coalizione” auspicata, interessa molto poco di quanto afferma l’ “organo” di Città Futura. Abbiamo relativamente pochi lettori, promuoviamo poche iniziative di interesse generale e, soprattutto, presumibilmente muoviamo pochi voti. Tutto qui. Siamo poco interessanti per chi, per diritto acquisito, per caso o per delega fortuita, si trova intorno ai “tavoli che contano” di cui sopra. Facciamo in modo che le nostre voci giungano di più nei luoghi dove si ha ancora voglia di discutere di politica e, forse, potremmo sperare in qualche considerazione in più. E’ come avere una “Ferrari” o una “Lamborghini” in garage, far sentire che ha un motore super che “ruggisce” per poi farla uscire per cinque minuti alla domenica, nella speranza che qualcuno ci veda… Il problema è nostra…prima che di chi ci legge o di chi ci potrebbe leggere (e meditare).

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