Riforme della sanità pubblica e del capitalismo

Ho letto in questi giorni due dichiarazioni che mi hanno un po’ incuriosita una è questa: “ dopo il coronavirus bisognerà cominciare a pensare se sia il caso di far ritornare in capo allo Stato centrale competenze come la sanità…. Perché a seconda della qualità del sistema regionale che trovi rischi di avere una speranza di vita differente.”

La seconda dichiarazione recita: ”Una riforma del capitalismo è inevitabile perché è già cambiata ovunque la costituzione materiale dei rapporti fra Stato e mercato. Le responsabilità pubbliche diventano preminenti e non possono limitarsi all’erogazione di denaro…”

Mi permetto dopo queste due citazioni provenienti da esponenti del centro-sinistra, ricordare che l’Azienda Sanitaria Locale è il risultato di un lungo e tormentato processo di reinterpretazione della riforma del 1978.

La riforma( L. 833 ) fu varata da una legge del Parlamento nel dicembre del 1978; la ASL è il disposto di un decreto legislativo emanato dal governo ( Amato) nel dicembre del 1992 sulla base di una legge delega (art. 1, legge 421 del 27/10/1992).

Per arrivare all’aziendalizzazione della sanità si intraprese un lungo processo caratterizzato sia da conflitti di vario genere sia da dispute, talvolta dottrinali, che hanno riguardato il modo d’intendere la sanità ma anche le istituzioni e i poteri politici.

Di “ riforma sanitaria” nel nostro Paese si cominciò a parlare nel 1945 e dopo ben 33 anni si arrivò alla legge n.833: Il Servizio Sanitario Nazionale. Prima , qualcuno se lo ricorderà, in Italia la sanità era un sistema prevalentemente di tipo assicurativo, che copriva con le proprie prestazioni i lavoratori assicurati a seconda del settore produttivo di appartenenza, orientato alla cura e non alla prevenzione. La legge n. 833 ridefinisce il concetto di salute, dall’approccio clinico-riduttivo di malattia da curare, all’approccio olistico-ecologico con al centro l’idea di salute. Due prospettive, lo si capisce benissimo, che contrappongono due sistemi sanitari diversi.

Ho rivisto fra le mie vecchie letture, il primo numero di “Management ed Economia “del 1992 e l’editore apriva così il varo della nuova rivista: “Si può affermare senza timore di smentita che anche nel settore sanitario è iniziata l’era della rivoluzione manageriale”. Iniziava così la cosiddetta “cultura del management nella sanità” di orientamento per i tecnocrati che avrebbero dovuto dirigere la sanità con la “logica aziendale” e con il “metodo scientifico”.

Forse sono noiosa ma vi segnalo ancora tre punti di questo articolo:

  1. Il riferirsi al modello tecnico-concettuale dell’economia per gestire la scarsità aiutando a compiere scelte tra possibili impieghi alternativi;
  2. ottenere il massimo dei risultati a parità di risorse o minimizzare le risorse a parità di risultato
  3. diffondere conoscenza di management e di economia.

Qui nasce la figura del Direttore Generale, il Manager che si deve caratterizzare soprattutto per i risultati economici.

Sia chiaro che si può certamente sostenere che il pensiero tecnocratico, anche in ambito sanitario, abbia un suo rigore: la razionalità. Ma un altro aspetto la tecnocrazia sanitaria amava coltivare: naturalmente quella del mercato e più specificatamente la competitività tra strutture pubbliche e strutture private.

Necessariamente per non essere oltremodo noiosa, non vado avanti nel raccontare cosa si è prodotto nel corso di tutti questi anni, mi limito a sottolineare la contraddizione più seria dell’Azienda: il divario tra ciò che essa potrebbe essere e ciò che essa è di fatto. E per chi non è totalmente digiuno della materia che sto trattando ricordo ancora la parola magica “Governance” che, secondo U. Montaguti ( Il Sole 24 Ore, 2004) “ concerne il compito delle moderne aziende di rispondere al pubblico della propria missione e dei propri risultati. E’ in sostanza la fusione di chi deve cercare di massimizzare la creazione di benessere in modo da non imporre costi inappropriati su terzi interessati o sulla società”.

L’esasperazione di questi concetti ha portato a veri e propri deliri: ricordo a tutti la rincorsa demenziale alle International Organization for Standardization e alla Quality Management, che definivano/ definiscono il processo di gestione della qualità nei processi aziendali. Sono stati spesi barcate di quattrini in favore di pratiche che producono tonnellate di materiale cartaceo per produrre il NULLA, ma in compenso anche perdita di tempo e dignità per chi era obbligato a sottoporsi. Con queste pratiche si accede all’accreditamento di strutture private e pubbliche: tutte le RSA ora purtroppo diventate famose hanno certamente fatto questo percorso!

Nel 2003 Colin Crouch ha scritto un libro dal titolo Postdemocrazia, probabilmente molti che mi leggono lo ricorderanno. In questo testo fra le altre cose l’autore raffigura un sistema politico che mantiene, si, gli aspetti formali della democrazia ma che “serve” gli interessi di pochi ( privilegiati, ma soprattutto con potere) privando di contro i lavoratori dell’unico potere di negoziare la propria posizione sociale ed economica, mentre i grandi investitori vengono beneficiati fiscalmente e contrattualmente. Nella postdemocrazia gli alti dirigenti passano dal grande capitale alle istituzioni pubbliche e anche viceversa, mentre i partiti trascurano ed abbandonano il rapporto con il dato di realtà e si fanno condurre alla conquista di un potere ormai logorato, dai professionisti del marketing.

Mi congedo e mi scuso per l’eccesiva enfasi. Concludo suggerendo ai due politici:

  1. correggere in modo significativo l’esperienza della aziendalizzazione sanitaria, le tante contraddizioni di questa esperienza, non ultima quella che stiamo vivendo, impongono non tanto aggiustamenti tecnici quanto correzioni di impostazione: veri e propri ripensamenti dell’idea stessa di azienda, un modo per ripensare la sanità pubblica nei suoi fondamentali.
  2. Per anni la teoria che lo Stato dovesse avere un ruolo marginale se non nullo nell’economia è stata egemone e si sono privilegiate le politiche di austerità e le privatizzazioni. Ora forse è possibile riprendere a ragionare in termini seri e “alti” sull’economia politica ripensando il ruolo dello Stato nell’ambito economico: ad esempio” guidando “ la finanza verso investimenti di lungo periodo e verso attività produttive, ripensando anche ad una nuova creazione di valore.

Margherita Bassini

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