La casa natia – delizia, tormento e “struggente nostalgia” (romantica sehnsucht) dell’essere umano, e potente archetipo secondo gli junghiani – è un tema molto caro a Carla Stroppa, analista e nota saggista di tale indirizzo, anima pure della casa editrice Moretti & Vitali, per cui ha pubblicato sei libri importanti. Così faceva pure Roberto Calasso pubblicando i suoi noti libri con l’Adelphi. Questi testi della Stroppa, forse al pari dei libri di Calasso, sembrano anche essere tappe del cammino più interiore dell’autrice, ossia – come dicono gli junghiani – della sua individuazione: pur avendo tali libri una struttura e intenti assolutamente sovrapersonali, sempre legati ad un forte rapporto di transfert e controtransfert, ossia di profonda reciproca relazione intima, con i sofferenti nell’anima che bussano alla porta della psicologa analitica in questione, ben al di là della storia personale della Stroppa. Tra i suoi libri ce n’è uno intitolato, non certo per caso, Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà (2019).
Del resto il tema del viaggio per tornare a casa – come l’autrice sa benissimo e dice più volte – era già al centro dell’opera di Omero, segnatamente della sua per me splendida Odissea (IX-VIII secolo a.C.). Anche lì, come poi qui nel libro della Stroppa su cui ora vorrei particolarmente soffermarmi – La magia del ritorno. Sulle tracce del “Mago di Oz” di Frank Baum, Moretti & Vitali, 2024 – la questione psicologica era quella del ritorno a casa, ossia al proprio essere nel mondo, ma guariti e trasformati nell’anima: non rovinati, cioè, ma salvati dal viaggio, o lungo percorso pregresso che ci abbia fatto diventare quello che siamo (se siamo tornati a “noi stessi”, diventando ogni giorno di più quello che eravamo nel profondo di noi stessi, che prima era rimasto latente, o era persino stato smarrito “nel cammino”).
Tuttavia per tornare chez soi, a sé stessi, “a casa”, ma rinati in spirito, ci vuole una sorta di aiuto magico. Nell’Odissea – mi piace ricordare – l’aiuto veniva dalla maga Circe, prima malevola e poi amabile e benevola. Lei mostrava a Ulisse la via della discesa nel mondo dei morti: mondo al di là della vita evocato da Freud sin dall’epigrafe de L’interpretazione dei sogni (1900), tramite un famoso verso di Virgilio: “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, v. 321).” È il tema dell’Acheronte, o mondo abissale dei morti, in psicanalisi sempre identificato con l’inconscio. Solo calandosi lì, con l’aiuto dell’indovino Tiresia (anche lui, come veggente, legato a un’identità magica, sciamanica), Ulisse avrebbe potuto sapere come tornare a casa con i compagni. È il grande tema della nékya, ossia della discesa “all’altro mondo”: in psicologia analitica negli abissi del proprio individuale e collettivo inconscio, facendo esperienza dell’”oltre”, alias di una dimensione “altra” rispetto a quella della coscienza di veglia, o normale, o “quotidiana”, come se si andasse e tornasse dall’altro mondo.
Questa dimensione è pure un mondo “favoloso”, e per ciò stesso anche “fantastico”, mitico, come in Alice nel paese delle meraviglie (1865) di Lewis Carroll. Qui, nella Stroppa, emerge pure il carattere estetico, persino artistico, della via di salvezza della psiche. La stessa analisi, come per alcuni aspetti era già esplicito in Jung, emerge molto di più come un’arte che come una scienza, più architettura che ingegneria: un’arte del vivere e pure una vita come arte, poesia al posto della prosa, opzione – però mirata, e con biglietto pure di “ritorno” – per il “fantastico”, “orientato al bene”: “fuga consapevole e mirata dalla realtà” (p. 147), che corregge la famosa definizione di Goya sul “sonno della ragione che genera mostri”, dicendo che “anche il sonno della fantasia genera mostri! Del resto l’origine della mostruosità è nella dissociazione fra le parti, nell’eccesso dell’una e dell’altra (p. 151).”
Ma l’equivalente di Alice per la Stroppa è il romanzo fantastico di Frank Baum Il mago di Oz. Lì una bimba, Dorothy, orfana allevata dagli zii in Kansas, a un certo punto, con tutta la sua casetta, è portata via da un forte vento, cadendo al suolo, per sua fortuna ammazzando nel crollo una strega cattiva, da cui ricava magiche scarpette. Vorrebbe tornare a casa, ma una strega buona, alias buona fata, le dice che per sapere come fare dovrà andare a piedi nel paese di Oz, dominato da un potente mago di tal nome, che le indicherà la via. La bimba, sin dall’inizio accompagnata dal suo cagnolino, per strada incontra tre amici, ciascuno dei quali è afflitto da un grande problema: uno Spaventapasseri, che ritiene di essere senza cervello, e vorrebbe averne uno; un Omino di Stagno, che ritiene di essere senza cuore, e vorrebbe averne uno; e un grosso leone, che ritiene di essere senza coraggio e vorrebbe imparare ad averne. Si affidano alla bimba decidendo di andare con lei dal mago di Oz. Dopo varie peripezie giungono presso Oz, che non vorrebbe riceverli, e che però si rivela alla fine un imbroglione, un illusionista, però benevolo. Non è un grande mago. È uno che lavorava in un circo, dove per errore dal cannone dello spettacolo era stato lanciato ed era precipitato in un paese lontano, in cui gli abitanti, vedendolo provenire dal cielo l’avevano preso per un essere soprannaturale. Lui era stato al gioco, divenendo il signore del luogo, il mago sovrano (potremmo pure dire “il capo carismatico”, al solito per investitura dei paesani). Ma era solo un omino. Gli amici lo smascherano, ma pretendono ugualmente di essere salvati dai loro mali (hanno bisogno delle sue illusioni, cioè del suo illusionismo): al che egli volentieri si presta, dando a ciascuno quello che già aveva senza saperlo, con un piccolo intervento preteso riparatore. Dopo di che tutti possono andarsene a casa loro contenti: Oz in pallone aerostatico, gli amici di Dorothy per conto loro, mentre Dorothy torna alla sua casetta nel Kansas, ma intimamente trasformata.
Carla Stroppa dice che nell’infanzia quella era stata la sua favola, lettagli da una sorella maggiore. Ciascuno di noi ne ha una preferita. Per me, ad esempio, era Pinocchio (1883). Nel Mago di Oz lei vede il suo infantile mito interiore, che per lei metaforizza in modo profondo la malattia dell’anima e il suo superamento come sono intesi soprattutto dalla psicologia analitica, junghiana. Infatti emerge sempre “il tema, di riconnessione tra il pensiero, il sentimento e il coraggio di essere sé stessi. La magia è sempre la stessa: riconnessione, unione delle parti scisse” (p. 73).
Nella sua riflessione, una specie di “immaginazione attiva” sulla favola, Carla Stroppa vede esemplificato un processo d’individuazione, che vale per tutti e che ha evidentemente qualcosa del suo proprio percorso. Il male di vivere accenna già alla sua soluzione. Quel che ci manca è già in nuce in noi stessi (come la famosa “ghianda” del Codice dell’anima, del 1996, di James Hillman, che aspira a diventare una bella “quercia”).
Ma siamo psiconevrotici, nella misura in cui lo siamo (e in certo modo lo siamo tutti perché “nessuno è perfetto”, anche se per qualcuno accade in modo insopportabile), perché le parti che ci compongono sono reciprocamente dissociate, con particolare riferimento alla sfera eros (il cuore) e logos (il cervello), che se vanno ciascuna per conto proprio danno inautenticità, alienazione e sofferenza psichica, talora sino al disadattamento grave, alla devianza e al suicidio. Per riunirle ci vuole un grande coraggio: il coraggio di essere sé stessi, e la capacità di ricomporre i nostri “pezzi”. Ecco il senso di questo Spaventapasseri che crede di essere senza intelligenza (cervello), di quest’Omino di stagno, che crede di essere senza sentimento, anaffettivo (privo di cuore) e di questo Leone che si sente un vigliacco (senza coraggio).
Dorothy è al tempo stesso l’ammalata e la soluzione. I tre amici sono la sua controfigura sdoppiata, le parti di sé stessa. Ma al tempo stesso solo lei è la soluzione: nello junghismo è l’archetipo dell’Anima a portare al Sé (vita infinita latente in noi, a mio parere in ciascuno a suo modo e maniera).
La logica della psicologia analitica, ma forse di ogni psicanalisi, è quella del detto latino “Medice, cura te ipsum”. Magari non vale per il medico in generale, ma per il curatore d’anime, che è logos della psyché, sì. E ciò in base a un’antichissima realtà dei curatori che cacciano i “cattivi spiriti”, come dicono gli uomini delle culture arcaiche. Lo sciamano è sempre uno che appariva un diverso e uno con forti problemi psichici agli altri e a sé stesso: un ex malato nell’anima che diventa un guaritore di anime. E così è, a quanto pare, lo psicanalista “vero”, che per questo ha da essere psicanalizzato lui stesso per psicanalizzare dopo gli altri, sin dal tempo di Jung. Egli, in sé stesso, e poi negli altri, deve trovare il coraggio “leonino” di mettere, o meglio ri-mettere – com’è nella nostra natura “naturale” – sentimento e ragione in un tutt’uno (con quello che il filosofo Bergson nel 1907, nell’Evoluzione creatrice, avrebbe chiamato “ritorno cosciente all’istinto”), tramite il viaggio della sua-nostra anima in una dimensione “altra” tutta interiore, fantastica, mitica, solitamente scartata. Qui si potrebbe pure ricordare il passaggio del Vangelo per cui “la pietra scartata dai muratori è diventata la pietra angolare” (Luca 20, 17-18 e Marco 12, 10). Si tratta di prendere la via più interiore per poi tornare al nostro mondo “di fuori”, pratico e relazionale, ma trasformati. Questo può farlo solo la nostra “Anima”, purché non sia già affogata negli abissi interiori, cioè impazzita, morta e mortifera; se invece, cioè, essa abbia una parte più o meno grande di sé ancora “sana”, spontanea e pura, da puer divinus, e qui puella divina. Allora può fare “il viaggio” volto a riunire “in Uno” i pezzi dissociati: il coraggio d’essere sé stessa, senza dividere o addirittura opporre sentimento e ragione, il cuore e l’intelletto, la cui separazione normale è nefasta sia se uno sia “tutto cuore” o “tutto intelletto”, in genere per viltà, che gli impedisce di diventare quello che è. L’Anima in quel che è rimasto “fanciullino”, poeta anche non formalmente poetante, uno dotato di intuizione empatica, lo può fare sempre meglio. Può riuscirvi anche facendo leva su funzioni istintuali molto semplici, ma amiche, qui rappresentate dal cagnolino di Dorothy.
Alla fine, come sempre, può essere che il concluso sia inconcluso, nel senso che la ricerca non ha fine. In fondo la conclusione per ora sembrerebbe una saggezza abbastanza “laica”. Oz è un illusionista, ma le sue illusioni funzionano ugualmente (così sarebbe la stessa psicanalisi). Carla Stroppa è Dorothy, al tempo stesso anima in pena, che scopre Oz, il mago “psicologo” che la salva e tramite cui lei ha salvato i suoi lati dissociati riunificandoli, anche se il mago non era veramente redentivo, bensì, appunto, “l’ultima illusione”, proprio nel senso per cui Buddha. Già nel VI secolo a.C., diceva che il suo sapere era una zattera per attraversare il fiume, e poi da lasciare andare. Ma forse questa “magia” contiene altri “Misteri”, pure al di là della psicoanalisi, cui forse la ricerca ulteriore di Carla Stroppa rinvia. Al libro dopo libro “l’ardua sentenza”.
di Franco Livorsi
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