Ma si salverà l’Unione Europea?

  Thomas Piketty  – “Il cuore del problema è il Consiglio dei Capi di Stato

Se lo chiedeva già nel 2016, in un libro (1) che raccoglieva i suoi articoli, il prof. Thomas Piketty, non riuscendo ad andare oltre una buona analisi e a qualche ipotesi. Aspettative e proposte da realizzare che hanno trovato nella pandemia in corso un ulteriore serie di ostacoli. Primo fra tutti quello della mancanza di produzione dovuta al (necessario) “lockdown” con conseguente grave crisi economica e sociale. Nel recente intervento del 12 aprile su “Le Monde” (2) torna sull’argomento e, senza mezze misure, fin dal titolo fa capire quali siano le sue intenzioni. Infatti l’autore del “Capitale nel XXI secolo” (3) intitola il suo ultimo contributo: “Serve una giustizia fiscale mondiale”.  Per chi non lo conoscesse o ne avesse informazioni parziali, ricordo che Piketty è professore all’ Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) e dell’Ecole d’Economie de Paris; è, altresì,  autore di numerosi studi storici e teorici, che gli hanno fatto meritare nel 2013 il Prix Yrio Jahnsson, assegnato dalla European Economic Association. Buon comunicatore, anche se non ama la folla e i “media”, non smette di ricordarci tre cose: – la Francia (e tutti gli altri Stati) devono fare di più per l’Unione Europea, – la forbice fra ricchezza e povertà ha raggiunto livelli intollerabili e – il capitalismo deve cambiare modalità, caratteristiche e finalità. Secondo la sua opinione “grandi sconvolgimenti ideologici e politici” sono da mettere in conto come conseguenza della pandemia del nuovo coronavirus.  Arriva anche a chiedersi se la crisi del Covid-19 accelererà la fine della mondializzazione liberale del commercio e favorirà l’emergere di un nuovo modello di sviluppo “più equo e sostenibile“. “Per ora – scrive l’autore de “Il Capitale nel XXI secolo” – l’urgenza assoluta è soprattutto valutare l’entità della crisi in corso e fare di tutto per evitare il peggio, ovvero l’ecatombe di massa”. Se non si fosse intervenuti con le misure di contenimento, ricorda Piketty, “per le regioni più colpite e nei mesi più neri, il numero delle bare avrebbe potuto essere da 5 a 10 volte più alto, come purtroppo si è visto in certi “cluster” italiani”, anche se nessuno sa davvero fino a che punto saliranno le perdite umane e fino a che punto sarebbero salite senza le misure di confinamento.

Citando il precedente storico dalla “spagnola” di un secolo fa, Piketty ricorda le disparità della mortalità fra Paesi. “Questo dovrebbe preoccuparci: l’epidemia potrebbe raggiungere dei picchi nei paesi poveri, i cui sistemi sanitari non sono in grado di affrontare gli shock, soprattutto perché hanno subito le politiche di austerità imposte dall’ideologia dominante degli ultimi decenni”. Presto, secondo Piketty, “il nuovo stato sociale chiederà una fiscalità giusta e un registro finanziario internazionale, purché i più ricchi e le grandi imprese contribuiscano per quello che serve. L’attuale regime di libera circolazione dei capitali, operativo a partire dagli anni ’80 e ’90 sotto l’influenza dei paesi ricchi (e stranamente dell’Europa), favorisce di fatto l’evasione dei miliardari e delle multinazionali del mondo intero e impedisce alle amministrazioni fiscali fragili dei Paesi poveri di sviluppare tasse giuste”. La crisi del Covid-19, sottolinea l’economista francese, “può anche essere l’occasione per pensare a una dotazione sanitaria ed educativa minima per tutti gli abitanti del pianeta, finanziata da un diritto universale di tutti i Paesi a una parte delle imposte versate dagli attori economici più prosperi: grandi imprese, famiglie ad alto reddito e patrimoni (per esempio, quelli pari a 10 volte la media mondiale, di fatto l’1% rappresentato dai più ricchi del pianeta)”. Dopo tutto, continua l’editoriale di Piketty, “questa prosperità si basa su un sistema economico mondiale (e anche sullo sfruttamento sfrenato delle risorse planetarie da diversi secoli) e quindi richiede regole mondiale per assicurare la sua sostenibilità sociale ed ecologica, con la creazione di una “carta carbone” per impedire le emissioni più forti”.

È evidente, secondo l’autore del Capitale nel XXI Secolo  che “una simile trasformazione esigerà che alcune cose siano messe in discussione. Per esempio, Emmanuel Macron e Donald Trump sono pronti ad annullare i regali fiscali concessi inopinatamente all’inizio del loro mandato? La risposta dipenderà dalla mobilitazione delle opposizioni e anche dai loro sostenitori”. Di una sola cosa possiamo essere certi: “i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono appena cominciati”.

D’altra parte già nel 2005 si era espresso, con molti altri intellettuali, per un maggiore coinvolgimento dello Stato francese nella costruzione di una Unione Europea più solida e federale. Una posizione che fu bocciata al referendum sul Trattato di Lisbona e di cui paghiamo ancora  le conseguenze.

Piketty considera, pertanto, con perplessità le esternazioni della Presidente della BCE Christine Lagarde che, a  parole, proclama che “dobbiamo prepararci come Unione” a fronteggiare la fase successiva della sfida posta dalla pandemia, spostando l’attenzione “dal fornire una rete di sostegno al favorire la ripresa“, ma nei fatti si muove con fin troppa circospezione. Concetto ripreso in più occasioni dalla manager francese, anche allo State of the Union dell’European University Institute di Firenze.  Un incontro di alto livello che si è svolto proprio in questi giorni di maggio in cui la presidente Lagarde, si è addirittura impegnata per “una risposta di bilancio comune europea”. Eresia temutissima fino a ieri e, forse, oggi necessaria per tenere insieme una comunità di Stati sempre più chiusi nel loro “particulare”. Vedremo più avanti che una proposta simile la fece, con altri, lo stesso Piketty fin dal 2011, non trovando però interlocutori adeguati. Anzi, i rapporti di quel gruppo di economisti francesi con Sarkozy prima e con Hollande dopo, furono sempre difficili e segnati da diffidenza reciproca. Proprio per questo il nostro Thomas non si sarà fatto sfuggire l’occasione di segnarsi in rosso il passaggio in cui la Lagarde  ha parlato di un “momento Schuman” (4) per i Paesi europei, chiamati a fare uno sforzo di solidarietà e integrazione come in altre occasioni cruciali del passato.

Ci sono vie di uscita?

Come abbiamo visto si tratta di un argomento ben conosciuto dall’autore e su cui ha maturato posizioni nette. Nel libro “Si puo’ salvare l’Europa?”   (1) raccoglie i suoi interventi apparsi su “Liberation” dal settembre 2004 al maggio 2015, componendo una straordinaria sintesi dei temi a lui più cari, già affrontati – sostanzialmente – nel “Capitale nel XXI secolo” sempre edito da Bompiani. Gli articoli testimoniano nel loro complesso il tentativo di comprendere e analizzare il mondo giorno dopo giorno e di impegnarsi nel pubblico dibattito, cercando di conciliare la coerenza e la responsabilità del ricercatore con quelle del cittadino.    “Si può salvare l’Europa?” Sì, ma solo con una vera riforma democratica delle sue istituzioni. La soluzione non è infatti  “l’aggiramento della democrazia con il ricorso a norme troppo rigide e a procedure tecnocratiche. Questa è la logica che ci ha condotto sull’orlo dell’abisso. Ora dobbiamo dire basta” (Introduzione op. cit. – 1). E questo ben prima che scoppiasse l’attuale crisi, in un periodo in cui le ferite della crisi del 2007-2008 erano già ben evidenti e, sostanzialmente, incancrenite. Di lì l’attenzione per gli Stati in difficoltà, come Grecia, Italia, Portogallo, sempre con toni pacati e analisi documentate. Partendo da dati statistici validati e dall’evidenza dei fatti. Evidenze che gli fanno affermare, rispetto allo Stato ellenico:  “Nel 2012 hanno promesso alla Grecia – quand’essa realizzo’ un avanzo primario, vale a dire un surplus di bilancio a prescindere dal debito – una ristrutturazione del debito stesso. Siamo ben oltre la fine del 2014 (la dichiarazione è del dicembre 2015 n.d.r.) e gli europei non hanno mantenuto la promessa.” (pag. 5 cit. – 1). Cosa che, evidentemente non gli è andata giù e che riprende in ogni occasione. Come la discutibile serie  di operazioni riguardanti i “debiti” degli Stati membri, improntata alla rigidità più inutile e controproducente. Infatti:   “ il  Fondo Monetario  Internazionale, all’interno della comunità internazionale, si è abituato a non cancellare mai i debiti. L’Europa dovrebbe farsi carico di una parte del debito del FMI: si tratta di 20 o 30 miliardi di euro, mentre il bilancio della BCE, con la politica del quantitative easing   di Mario Draghi,  deve passare da 2000 a 3000 miliardi. Stiamo parlando di un Paese il cui PIL rappresenta il 2% dell’eurozona (la Grecia, n.d.r.). Ben diversa sarebbe la situazione dell’Italia con la necessità di moltiplicare per dieci i nodi da affrontare. Occorre iniziare a escludere dai giochi il FMI e a regolare la cosa tra europei. Fin dall’inizio non si è fatto altro che relegare le istituzioni europee in un cono di opacità e condurre negoziati alquanto opachi.” (pag.6 cit. – 1) .

L’autore è il primo a sapere che sitratta di una situazione estremamente complessa ma, comunque, prova a suggerire delle possibili soluzioni. “Per uscire dalla crisi dovrebbero verificarsi due fatti: va organizzata una conferenza sul debito dei Paesi dell’Eurozona, come accadde nel Secondo Dopoguerra, per ristrutturare l’insieme del debito  –  non solo il debito greco ma anche quello portoghese e italiano; va trovato un modo di ripartirlo tra i Paesi europei in rapporto al suo aumento, determinato dalla crisi finaziaria del 2007-2008. Dopodiché occorrerebbe una nuova governance  democratica per evitare il riprodursi di questo genere di catastrofe.” (pag. 7 cit. – 1).   In fin dei conti si tratta di un debito che abbiamo contratto con noi stessi. L’Eurozona nel suo complesso detiene nel resto del mondo una quantità di attivi finanziari superiore a quella detenuta dal resto del mondo nell’Eurozona. “Si tratta  – ricorda Piketty – di un debito interno che oggi ostacola la crescita ovunque. Rimborsare per decenni non è la soluzione.” (pag. 7 cit. – 1) . Arriva anche ad ipotizzare  una Camera parlamentare dell’Eurozona all’interno della quale ciascun Paese sia rappresentato da deputati del Parlamento nazionale in proporzione alla popolazione del Paese stesso. La Camera così nominata fisserebbe i tempi di liquidazione del debito, il livello comune di deficit pubblico e di investimento pubblico. E’ assolutamente normale: dal momento che abbiamo una moneta comune, dobbiamo mettere in comune anche il debito. In modo democratico, però. E il tutto porterà a una disciplina di bilancio evitando l’austerità. “Molti, in Germania, nutrirebbero timore per una scelta maggioritaria sul livello di deficit. Ma l’aggiramento della democrazia, con il ricorso a norme troppo rigide e a procedure tecnocratiche non è la soluzione. E’ la logica che ci ha condotto sull’orlo del baratro. Ora dobbiamo dire basta a una logica del genere. “ (pag. 10 cit. – 1). Quando scriveva, a cinque anni dall’inizio della crisi finanziaria , gli Stati Uniti avevano ripreso a crescere, l Giappone era a un passo dal fare altrettanto, “solo l’Europa sembrava – e sembra –  irrimediabilmente ferma, in piena stagnazione e crisi di fiducia; il nostro continente non è ancora riuscito a recuperare il livello di attività del 2007. La nostra crisi del debito pare insormontabile, mentre invece il nostro livello di indebitamento pubblico è minore rispetto al resto del mondo ricco.”  (pag. 319 cit. – 1). E il paradosso non si ferma qui. “Il nostro modello previdenziale è il migliore del mondo, e abbiamo ogni più fondato motivo di coalizzarci per difenderlo, migliorarlo e diffonderlo (a)”. Ci ricorda che il totale dei patrimoni (attivi immobiliari e finanziari, al netto di tutti i debiti) detenuti dagli Europei è il più elevato del mondo, ben superiore a quello degli Stati Uniti, del Giappone e, a maggior ragione, della Cina. Contrariamente ad una leggenda dura a morire, ciò che gli Europei possiedono nel resto del mondo è “nettamente superiore a ciò che il resto del mondo possiede in Europa. (b)”  (pag. 319 cit. – 1)

Thomas Piketty ha ben presente che, dopo la caduta del Muro e il trauma dell’unificazione tedesca, i leader europei optarono – in pochi mesi – per la creazione della moneta unica. Cinque anni dopo l’esplosione della più grande crisi economica dagli anni Trenta a oggi,  si è – secondo Piketty – ancora in attesa di una analoga prova di coraggio. La sfida da raccogliere è invece chiarissima. Una moneta unica con 17  debiti pubblici diversi e 27 politiche fiscali che cercano, in primo luogo, di drenare le entrate del Paese vicino, non possono funzionare. Proprio qui vi è l’anticipazione del passaggio ripreso dalla Lagarde: “Ora, per unificare i debiti pubblici e adottare un’unione di bilancio e fiscale, va rivista dalle fondamenta l’intera architettura politica dell’Europa. “   (pag. 320 cit. – 1). Sicuramente una bella idea che, altrettanto sicuramente, troverà oppositori a qualsi asi livello.

Il cuore del problema è il Consiglio dei Capi di Stato”. Con questa affermazione ci ricorda che il Consiglio serve sì a fissare le regole generali o a negoziare eventuali cambiamenti di trattato ma, soprattutto, per gestire  un’autentica unione fiscale e di bilancio, per votare in modo sovrano il livello di disavanzo pubblico e adeguarlo all’evolversi della congiuntura (a partire dal momento in cui mette in comune il debito).  “Non è possibile che ciascuno  continui a ripartire il proprio disavanzo per conto suo”.  Concetto che fa preoccuparePiketty, ben sapendo che a pochissimi “cale” – realmente – la questione. Si spinge anche oltre:   “per fissare in modo  democratico la base fiscale e il tasso delle imposte che devono essere messe in comune (a cominciare dall’imposta sui redditi di impresa, oggi aggirata in massa dalle società multinazionali), occorre un vero Parlamento di Bilancio dell’Eurozona.” (pag. 321 cit.). Per poi concludere melanconicamente:  “il problema è che i governi in carica sembrano molto affezionati al sistema vigente…”  (pag. 322 cit. – 1).

Sulla stessa lunghezza d’onda studiosi di Diritto, economisti, filosofi, che cercano di far comprendere ad un’opinione pubblica sempre più lontana e distaccata che i tre motivi di interesse di Piketty, enunciati sopra, devono essere la vera base per una ripartenza seria. Altrimenti, al massimo, saremo alla riproposizione delle contraddizioni ante Covid-19.

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