Sulle cause economiche dei populismi

“La guerra ha molte cause.

Dittatori e simili, ai quali la guerra offre, almeno nelle aspettative, una piacevole eccitazione, hanno gioco facile nel sollecitare la naturale bellicosità dei loro popoli. Ma al di là di questo, ad agevolare il compito di attizzare le fiamme negli animi del popolo vi sono le cause economiche della guerra, e cioè la pressione demografica e la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza. A questo secondo fattore, che probabilmente ha avuto un ruolo dominante nell’Ottocento, e potrebbe tornare ad averlo, si riferisce in particolare questa nostra riflessione.”

John Maynard Keynes, Teoria Generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, Mondadori, Milano 2019, Cap. 24, “Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la Teoria Generale potrebbe condurre”, p. 436.

 

Nell’ambito dei “Giovedì Culturali” promossi dall’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria, il sociologo della politica Marc Lazar, professore di Storia e sociologia politica all’Istituto Science Po di Parigi, ha tenuto una entusiasmante lezione sulle cause sociali e politiche dei populismi, mettendo in guardia sui rischi che corrono molti paesi occidentali in seguito all’affermazione di un duplice processo: l’ascesa “dei movimenti e dei partiti populisti” e, per contaminazione, la “trasformazione del fondamento delle nostre democrazie” in ‘democrazie illiberali’: un duplice processo che Ilvo Diamanti e dello stesso Marc Lazar preferiscono etichettare, come recita il titolo del loro libro, ‘popolocrazia’. (1)

Dopo essersi soffermato sull’avanzata, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, dei movimenti e partiti populisti ovunque in Europa, Marc Lazar ha posto l’accento sulle cause ‘sociopolitiche’ che stanno alla base della ‘popolocrazia’. Cause riconducibili, da un lato, al senso di frustrazione e di risentimento nei confronti dei tradizionali partiti politici che si richiamano alle istanze del centro-destra e del centro-sinistra, (diffusosi rapidamente in molte aree della Francia e dell’Italia, oltre che in numerosi altri paesi dell’Unione Europea), dall’altro, alla ferma opposizione nei confronti delle élites, “costantemente denigrate, screditate, detestate, odiate”, che ne esprimono e sostengono le idee.

Le radici di questo malessere andrebbero ricercate, ha poi spiegato, nell’antagonismo tra “il popolo virtuoso contro i suoi rappresentanti corrotti (…), amplificato dalla cassa di risonanza costituita dai media, in primo luogo la televisione, internet e i social media”. I populisti reclamano poi la ‘democrazia diretta’, “che rifiuta qualsiasi intermediario”, una democrazia incentrata su un modo di fare politica volto all’agire con urgenza, utilizzando una forma di comunicazione che consente di dare “risposta alle attese incessanti dell’opinione pubblica” e di “rivolgersi più direttamente e semplicemente al ‘popolo’”, grazie “a tutte le possibilità offerte dalla televisione e dalle tecnologie digitali”, facendo leva sul ricorso all’uso “del buon vecchio referendum”. Ora, se non vi è alcun dubbio che le tecnologie digitali favoriscono il ricorso alla democrazia diretta, va anche detto che il ricorso all’istituto del referendum, come la vicenda sulla Brexit ha evidenziato, è condizionato dal fatto che i cittadini sono chiamati a decidere su questioni complesse sulle quali non posseggono una piena consapevolezza in merito alle implicazioni che il loro voto comporta. Senza contare il rischio che la democrazia diretta, grazie alle tecnologie digitali, può essere facilmente manipolata da una propaganda portatrice di interessi esterni. In una democrazia rappresentativa non è infatti opportuno che decisioni politiche che comportano conseguenze non facilmente prevedibili e valutabili con un sì o con un no ─ per di più assunte sull’onda di emergenze provocate ad arte al fine di ottenere consenso ─, siano prese senza la mediazione di personalità dotate di grande cultura e di una visione politica più ‘lunga’ rispetto al tempo che separa dalla più vicina scadenza elettorale. A titolo di esempio, qualora la decisione di aderire al Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che precorse la strada del Trattato di Roma (2) , fosse stata lasciata direttamente al popolo, non credo che l’Italia vi avrebbe aderito, così come dubito che un eventuale referendum volto ad ottenere l’assenso alla ratifica del trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione Europea (UE) avrebbe avuto un esito positivo.

Marc Lazar si è soffermato sulle cause sociopolitiche dei populismi. Proviamo qui ad interrogarci su quali siano le cause economiche della ‘popolocrazia’. Tra esse, in primo luogo, vi è indubbiamente la povertà. Per i cultori dell’Economia dello sviluppo, quello della povertà è un concetto che assume diversi significati a seconda del contesto nel quale è utilizzato, e le sue cause sono molteplici. Ad alimentare il populismo ritengo che più che la povertà assoluta (3) concorra quella relativa, poiché è dal confronto con altre situazioni che si acquisisce la consapevolezza della propria condizione. (4)  Posto che in Europa esistono varie forme di welfare che non hanno eguali in altre parti del mondo, tra le cause di quest’ultima (e in assenza di dati utilizzabili per un confronto intertemporale), vi è sicuramente la prospettiva della mancanza o della perdita del lavoro: trattasi di timori che sono riconducibili, direttamente o indirettamente, a due fenomeni contemporanei: la globalizzazione (5), i cui effetti hanno favorito la parcellizzazione e la precarizzazione del lavoro nelle economie industrializzate (con conseguente riduzione dei salari), e la ‘disoccupazione tecnologica’ indotta dalla cosiddetta ‘industria 4.0’ (6).

Il nesso esistente tra la globalizzazione e la povertà è stato oggetto di attenzione da parte di Mario Deaglio nel libro Postglobal (Laterza, Bari 2004). Dopo avere chiarito che la globalizzazione si può intendere come l’interazione “tra individui, tra i sistemi economici e tra le imprese in un mercato mondiale di tipo concorrenziale” ─ le cui radici andrebbero ricondotte alla riduzione ‘del costo della distanza’ ─, l’autore, richiamandosi al «nuovo umanesimo di Sen e la libertà attiva di Dahrendorf» (7) , sottolinea come la povertà andrebbe intesa quale “assenza di libertà”. Una accezione che si attaglia perfettamente ai nostri scopi, giacché consente di includere tra le cause dei populismi sia la povertà di genere, che le cosiddette “nuove povertà” (8) , ovvero tutte quelle condizioni che generano nelle fasce più deboli della popolazione insicurezza e instabilità, che feriscono la dignità delle persone e inculcano la paura della perdita di identità.

Una causa non secondaria della diffusione dei populismi sia in Italia che in Europa andrebbe poi ricondotta alla finanziarizzazione dell’economia. Un fenomeno, questo, che ha provocato le enormi disuguaglianze in termini di reddito messe in luce dal World Inequality Report 20189 , e ribadite ancora recentemente nel servizio dedicato a “Ricchi e poveri. La scienza delle disuguaglianze”, apparso sull’autorevole rivista di divulgazione scientifica le Scienze sullo scorso numero di febbraio, servizio sul quale mi sono già intrattenuto.(10) Mi limiterei pertanto a richiamare il paragrafo conclusivo dell’analisi di Joseph Stiglitz riferita all’economia americana, ma che presenta un’impressionante analogia sia con la situazione europea, sia con quella italiana in particolare. Scrive il Premio Nobel per l’Economia: “Con l’aumento del numero dei cittadini che capiscono perché i frutti del progresso economico sono stati divisi in modo così disuguale, c’è il pericolo che ascoltino un demagogo che dà la colpa dei problemi del paese ad altri e promette falsamente di rettificare «un sistema truccato». Abbiamo già un assaggio di quel che può accadere. E potrebbe peggiorare di molto”.

Per restare al nostro paese, non si può infine non citare il fatto che l’Italia possiede il primato europeo della disuguaglianza nella distribuzione del reddito: in nessun altro paese dell’Unione Europea si riscontrano infatti disuguaglianze come quelle esistenti tra le regioni Italiane. (11)  Ora, se  oltre alla percezione di vivere in un contesto di forte disuguaglianza in termini di reddito ─ specialmente per coloro che vivono all’interno di un’area territoriale/regionale con scarse possibilità di uscire dalla propria condizione se non ricorrendo all’emigrazione ─, si tiene conto del fatto di vivere in una periferia urbana cementificata e degradata; di avere la sensazione (peraltro non suffragata dai dati) di essere sommersi da un’immigrazione non controllata; di vivere in un paese che sta attraversando una lunga fase di declino economico, alla quale, negli anni più recenti, si è aggiunta anche quella del declino demografico, il tutto in un contesto di progressivo invecchiamento della popolazione, ben si comprende come possano avere buon gioco quelle forze politiche che soffiano sul sentimento della paura che alimenta il populismo. In sintesi, e in conclusione, se, come sostengono Ilvo Diamanti e Marc Lazar, la rapida diffusione della ‘popolocrazia’ in Italia e in Europa presenta seri rischi per la democrazia liberale ─ una forma di democrazia che, pur con i suoi limiti, ha assicurato ai Paesi europei settant’anni di pace ─, queste semplici riflessioni sulle cause economiche dei populismi evidenziano l’impossibilità di intervenire su di esse semplicemente semplificando i problemi e rifugiandosi nel nazionalismo, dal momento che così facendo si può solo contribuire ad esacerbare le tensioni (sia all’interno dei singoli paesi che tra i paesi stessi), aumentando il rischio di una implosione dell’Unione Europea.

Per essere affrontati in maniera adeguata, problemi come la povertà, la parcellizzazione e la precarizzazione del lavoro, la diffusione delle disuguaglianze, i fenomeni demografici e quelli facilmente prevedibili delle migrazioni indotte dal riscaldamento globale, dai cambiamenti climatici e dalla siccità, richiederebbero un’azione concordata tra le grandi potenze economiche a livello mondiale. Un’azione sul tipo di quella prospettata da John Maynard Keynes nel suo Piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario (12) (elaborato nel settembre del 1941), incentrato non su accordi bilaterali ─ come quelli preferiti dagli USA di Trump che privilegiano l’ottica della supremazia a scapito dell’interesse collettivo ─, bensì su accordi multilaterali tra pari. Resta il fatto che per sottoscrivere accordi di questa natura l’Unione Europea andrebbe riformata in un’autentica Unione Federale, mediante l’adozione di tutte quelle radicali riforme istituzionali ancora recentemente ricordate dal professor Sergio Fabbrini (13) , riforme che comporterebbero una rapida trasformazione dell’Unione Europea negli Stati Uniti d’Europa.

Alessandria, 15 maggio 2019

 

  1. Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie (Laterza 2018)
  2. Firmato il 25 marzo 1957 dai rappresentanti dei sei paesi della costituenda Comunità Economica Europea (CEE), per la Repubblica italiana l’adesione al Trattato di Roma porta la firma dal Presidente del Consiglio Antonio Segni e dal Ministro degli affari esteri Gaetano Martino.
  3. Per quanto concerne l’Italia, il concetto di povertà assoluta fa riferimento ai valori stabiliti dall’ISTAT con riguardo ad alcune soglie, all’interno delle quali viene confrontata la spesa per consumi di una famiglia, e in relazione all’età delle persone e all’area metropolitana delle ripartizioni geografiche considerate.
  4. Per la Banca Mondiale il concetto di povertà assoluta riguarda tutti coloro che vivono con meno di 1,9$ al giorno.
  5. A partire dal libro del Premio Nobel per l’Economia nel 2001 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, Torino 2002), su questo tema esiste ormai un’ampia letteratura.
  6. L’espressione «Industria 4.0», che sta ad indicare la quarta Rivoluzione Industriale attualmente in corso basata sul sistema fisico cibernetico, nasce alla Fiera di Hannover in Germania nel 2011. Sviluppata da un gruppo di lavoro promosso da una multinazionale tedesca di ingegneria ed elettronica e dall’Accademia tedesca delle scienze e dell’ingegneria (ACATEC), l’«Industria 4.0» è divenuto uno dei quattro temi principali trattati nel World Economic Forum 2016, tenutosi a Davos in Svizzera nel gennaio di tre anni fa.
  7. In quest’ottica, la libertà è intesa come la “capacità di autodeterminarsi e va quindi ben al di là – sottolinea Deaglio – della disponibilità personale dei redditi, della capacità di spesa” (p. 77). Dopo avere definito la povertà come l’insieme delle “combinazioni alternative di cose che una persona è in grado di fare o di essere”, questa accezione del concetto di povertà, che si deve al filosofo ed economista Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia 1998, è stata assunta quale riferimento dalla Banca Mondiale per la costruzione dell’Indice della qualità della vita, un indicatore che assieme al valore del PIL pro capite viene per misurazione il concetto di povertà. Si veda A. Sen, Il tenore di vita. Tra benessere e libertà (Marsilio, Venezia 1998, p. 95).
  8. Il concetto di “nuove povertà”, si è affermato in tempi relativamente recenti, e trova la sua causa in quei fattori economici, come la paura di perdere il lavoro nei momenti di crisi, che si sommano con situazioni di difficoltà relazionali, a seguito di separazioni, di incompatibilità degli orari di lavoro con l’assistenza a figli e agli anziani nelle famiglie monoparentali, tutti fattori che mettono le persone in condizione di vulnerabilità sociale.
  9. Questo Rapporto è stato steso da venti ricercatori del World Inequality Lab sotto la supervisione di un Comitato esecutivo composto da: F. Alvaredo, L. Chancel e T. Piketty della Paris School of Economics; E. Saez e G. Zucman della University of California at Berkeley.
  10. Per una sintesi dei saggi riportati su questo numero di Le Scienze si veda il mio “Disuguaglianze insostenibili”, disponibile all’indirizzo: https://www.cittafutura.al.it/sito/disuguaglianze-insostenibili/ .
  11. A differenza di tutti gli altri Paesi della UE, le regioni italiane si distribuiscono, stando agli ultimi dati EUROSTAT disponibili per il 2017, in ben 5 classi di reddito pro capite (a parità di potere d’acquisto): Lombardia, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, al pari delle regioni europee a più alto reddito pro capite in Europa, sono incluse nella classe di reddito compreso tra 34.400 e 188.000 euro; Lazio, Liguria, Piemonte, Toscana, Veneto, in quella tra 34.400 e 27.400 euro; Umbria, Marche e Abruzzo nella classe di reddito tra 23.000 e 27.400 euro; Molise, Puglia, Campania e Sardegna, in quella tra 17.800 e 23.000 euro; Calabria e Sicilia, infine, sono incluse nella classe di reddito compresa tra 17.800 e 7.400 euro, con un reddito pro capite comparabile a quello delle regioni meridionali della Spagna, del Portogallo, della Grecia, di alcune aree regionali della Gran Bretagna e di tutte le regioni dell’Est Europa. In media, il reddito pro capite delle regioni italiane a reddito più elevato è pari a più di 12 volte quello delle regioni Calabria e Sicilia.
  12. Si veda J.M. Keynes, “Proposte per un’Unione monetaria internazionale”, riprodotto in Moneta internazionale. Un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario (il Saggiatore, Milano 2016).
  13. Fabbrini, “L’economia italiana ha bisogno dell’Europa”, Il Sole 24 Ore di domenica 12 maggio.

 

 

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