I trent’anni di Maastricht che “non” hanno distrutto l’Italia

I trent’anni di Maastricht che non hanno distrutto l’Italia

«I grandi eventi storici sono spesso dovuti a variazioni nello sviluppo demografico e ad altre cause economiche fondamentali; ma poiché per il loro carattere graduale queste sfuggono all’attenzione degli osservatori contemporanei, tali eventi sono attribuiti alle follie di statisti o al fanatismo di atei».

John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano, p. 27.

Non senza qualche sconcerto ho notato sul sito di Città Futura un articoletto di Thomas Fazi1, che si rifà ad un saggio (accessibile in lingua inglese tramite apposito link) dell’economista tedesco Servaas Storm, Senior Lecturer presso il Delft University of Technology, dal titolo altisonante: “Come trent’anni di Maastricht hanno distrutto l’Italia”. Sia Fazi che Storm hanno preso alcune ‘sviste’ che ne condizionano le reciproche narrazioni. Vediamo perché non è vero che sono stati i trent’anni di Maastricht a distruggere l’Italia.

Iniziamo dalle ‘sviste’ o, se preferite, dalle “mezze verità”. Scrive Fazi: “Storm nota come fino ai primi anni Novanta l’Italia abbia goduto di trent’anni di robusta crescita economica durante i quali è riuscita a raggiungere il Pil pro capite delle altre nazioni principali della futura zona euro (soprattutto Francia e Germania)”. L’affermazione si riferisce quindi ai primi anni ’60 del secolo scorso. Siccome non mi piace ripetermi, rinvio per i dettagli al mio recentissimo “La lunga crisi dell’economia italiana” (del 31 marzo scorso). Vale tuttavia la pena di ribadire quanto segue: i) dopo il ventennio del boom economico 1950-’70 (in cui il tasso di crescita è stato superiore al 6%), nei successivi decenni l’economia italiana ha via via dimezzato il suo tasso di crescita, che è sceso (in media) al 2,5% del decennio 1980-’90), all’1,6% nei dieci anni successivi all’ingresso nell’Unione Europea; ii) nel frattempo ha fatto registrare il 3,6% nel 2000, il 2% nel 2006 (prima dello scoppio della Grande Crisi), e l’1,7% nel 2010, per poi attestarsi attorno ad un tasso prossimo allo zero (sempre in media) dal 2010 in poi; iii) negli stessi anni ha attraversato due grosse crisi, la prima nel 2007 (-5,7%), non imputabile a cause interne, e la seconda nel 2012 (-2,9%), imputabile invece alla crisi dovuta all’entità del Debito pubblico italiano.

Si tratta quindi di una crisi tutta italiana, alimentata dal progressivo aumento del rapporto Debito pubblico sul PIL (esploso a partire dai primi anni ’80, ben prima dell’ingresso dell’Italia nella UE), che ha raggiunto il 250% alla fine del 2011 (quando è entrato in crisi il quarto Governo Berlusconi). I dati smentiscono pertanto clamorosamente la tesi di Fazi: l’Italia, fino ai primi anni ’90, non ha goduto affatto “di trent’anni di robusta crescita economica”, anzi, come ho avuto modo di sostenere già dieci anni fa2, è precipitata, a partire dai primi anni ’70, in una lunga fase di declino economico.

Quanto alla narrazione di Servaas Storm, essa fa perno sull’interpretazione di un grafico3 nel quale viene evidenziata l’ascesa e il declino del GDP pro capite dell’Italia in raffronto a quello della Francia e a quello di un aggregato, indicato come Euro-4, relativo a quattro economie considerate nel loro insieme: Belgio, Francia, Germania e Olanda. E’ curioso come il trentennale processo di convergenza del PIL pro capite dell’Italia (dal 1960 alla prima metà degli anni ’90 del secolo scorso) e la successiva rapida caduta a partire dall’adesione dell’Italia all’Unione Europea venga interpretato con riferimento (quanto meno nella titolazione del grafico) alla teoria del catching up di Moses Abramovitz, senza alcun riferimento (anche solo bibliografico) alle ipotesi circa le cause avanzate dallo stesso Abramovitz.

Siccome in più di un’occasione ho fatto riferimento a quella teoria – sia con riguardo al contesto regionale italiano che a quello europeo4 -, ho sempre precisato come essa sia incentrata sull’azione di due forze, la cui direzione e intensità sono alla base di quel processo: il potenziale di cui un’economia dispone e la capacità di realizzare quel potenziale, elencando i fattori che influiscono su di esse. L’analisi di Storm, si concentra invece unicamente sulle seguenti due cause: l’austerità della fiscalità della UE e la permanente caduta dei salari reali che avrebbero soffocato la domanda aggregata dell’Italia dopo il 1992. Ora, se fosse vera questa interpretazione, non si spiegherebbe come mai, unico caso all’interno dell’Unione Europea (e a maggior ragione dell’Eurozona), solo l’economia Italiana sia stata penalizzata dalla “«superstruttura politica e legislativa» imposta dal Trattato di Maastricht del 1992”, dal momento che le economie degli altri 27 paesi dell’Unione sono cresciute a tassi che in ogni sotto-periodo di tempo (dalla creazione della UE) sono un multiplo di quello fatto registrare dall’economia italiana.

Viene da chiedersi se sia proprio vero quanto afferma Storm, per il quale “fiscalizzazione permanente, la persistente contrazione dei salari e il tasso di cambio sopravvalutato hanno ucciso la domanda aggregata italiana”. Qualcosa di vero c’è, anche se c’è molto che non quadra nella sua analisi.

A mio modesto avviso, la spiegazione di ciò che è accaduto in Italia è la seguente. E vero che vi è stata l’erosione dei salari reali dei lavoratori italiani – a seguito della quale si è venuta a creare una permanente caduta dei consumi interni e di riflesso degli investimenti reali -, ma non a causa della “sopravvalutazione del tasso di cambio”, bensì a causa di quel processo di “svalutazione interna” che nulla a che vedere con l’Unione Europea.

Come si ricorderà, il tasso di cambio di 1936,27 lire per un euro è stato fissato (irrevocabilmente, come per tutte le altre valute), dal Consiglio europeo sulla base dei valori registrati sul mercato dei cambi il 31 dicembre 1998. In Italia, unico caso in tutta Europa (ed in un breve lasso di tempo) le categorie sociali in grado di fissare il prezzo delle loro merci e prestazioni (imprese, commercianti, professionisti) hanno approfittato del cambio della moneta per effettuare una sorta di regolamento dei conti sulla distribuzione del reddito tra i percettori dei salari e i percettori di “altri redditi”. Mentre i salari e gli stipendi sono stati ricalcolati in base al tasso di cambio ufficiale (di poco meno di due mila lire per ogni euro), i prezzi delle merci e delle prestazioni sono stati rivalutati come se il cambio lira/euro fosse avvenuto in base ad un cambio effettivo di mille lire per ogni euro (vale a dire con un cambio ufficiale svalutato della metà).

Nulla a che vedere, quindi, con una “svalutazione” (in senso tecnico) dovuta a un attacco speculativo contro la nuova moneta, come nel caso della svalutazione della lira del 1992, bensì di una ‘furbata’ tutta italiana, un caso da manuale nella lotta per la distribuzione del reddito.

Altro che “austerità delle regole europee”, si è trattato di una vicenda tutta italiana sulla distribuzione del reddito tra ‘salari e altri redditi’, che ha avuto inizio con le conquiste sindacali degli anni ’60, lotte che hanno portato all’approvazione della legge “Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, meglio nota come Statuto dei Lavoratori (entrata in vigore il 20 maggio 1970). Un conflitto sotterraneo, favorito dal progressivo indebolimento del sindacato, dalle lotte interne ai partiti della sinistra, da una prima modifica della normativa sul lavoro introdotta nel 2012 con la riforma Fornero, e da ultimo, complice il Governo Renzi, dall’entrata in vigore il 7 marzo 2015 del ‘contratto a tutele crescenti’.

Non sono “i trent’anni di Maastricht che hanno distrutto l’Italia”, ma quei cinquant’anni in cui l’Italia ha progressivamente distrutto sé stessa.

Alessandria, 25 aprile 2019

1 Saggista e giornalista specializzato nelle questioni europee per varie testate italiane e straniere (cartacee e online), tra cui “il manifesto”, “Green European Journal” e “Social Europe Journal”.

2 Si veda il mio “L’Italia in declino”, del 26 giugno 2008, ripubblicato in Il “Gatto della crisi”. Divagazioni e divulgazioni di economia e politica, De Ferrari, Genova, novembre 2009.

3 La Figura 1 del suo articolo in inglese, al quale si può accedere dall’apposito link contenuto nella nota di Fazi.

4 Basti qui citare due dei saggi contenuti nella mia recente raccolta “Capire i fatti”, il primo del 2011, ‘La crescita delle regioni italiane tra miti e realtà’, pp. 87-92 e il secondo del 2013, ‘Divari interregionali e convergenza: la politica regionale dell’Unione Europea’, pp. 141-160, nei quali ho incentrato le mie analisi proprio sulla teoria del catching up di Abramovitz.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*