Non conosco guerre nella storia in cui tutta la ragione stesse da una parte e tutto il torto dall’altra. Ma un ottimo criterio per orientarsi è sempre quello di stare dalla parte dell’aggredito invece che dell’aggressore (aiutando per quanto possibile l’aggredito, se lo si consideri tale, almeno a difendersi come può, sempre che lo voglia naturalmente).
Naturalmente spesso l’aggressore può essere stato anche molto provocato ad aggredire, ma se uno risponda a un’offesa con un coltello, una rivoltella o un mitra, oltre a tutto contro gli innocenti, è da detestare e fermare a ogni costo. Anche nella relazione tra Stati. Su ciò potrei fare innumerevoli esempi storici, ma mi limiterò a quello più importante e coinvolgente tra quelli che ho in testa. Pure la guerra scatenata da Hitler nel 1939 aveva a che fare anche con torti subiti dai tedeschi in seguito al trattato di Versailles del 1918. Questo Trattato, imposto ai vinti, dando tutta la colpa della Grande Guerra del 1914/18 ai tedeschi aveva loro imposto spropositate riparazioni, e perdita di aree vitali di territorio, ingenerando inflazione selvaggia, fame e risentimento, e volontà di riscossa, su cui Hitler fece leva per diventare il dittatore carismatico del suo Paese e per preparare e scatenare la Seconda guerra mondiale, compiendo i ben noti crimini contro l’umanità, come il tentato sterminio della razza ebraica. Nel grande conflitto perirono cinquanta milioni di persone. Nulla giustifica gli aggressori, ma questi non agiscono mai per pura volontà di dominio, senza una qualche motivazione. E spiegare tutto con la follia del dittatore di turno sarebbe troppo facile.
Ora, anche nei confronti della Russia del XXI secolo l’Occidente liberaldemocratico ha avuto le sue colpe, per il modo in cui ha gestito i postumi della rovina del suo Nemico. Questa volta questo Nemico totalitario si era rovinato in gran parte da solo, perdendo la Guerra Fredda dopo aver tentato di mantenere per tanti decenni l’occupazione politico-militare dell’Impero senza accettare nemmeno che si riformasse per risultare più accettabile da parte dei popoli soggiogati: un impero, che negava d’essere tale, che nel 1945 o poco dopo si era espanso, in seguito alla Seconda guerra mondiale, dopo che l’URSS era stata aggredita da Hitler nel 1941, sino a Berlino Est. Poi l’impero conquistato intorno al 1945 era stato “tenuto” per quarantasei anni, ma sempre basandosi sul “cingolato sovietico”, pur supportato da partiti comunisti più o meno “veri” delle diverse nazioni conquistate, talora forti anche prima dell’arrivo dei carri armati russi. Ma senza il “cingolato sovietico” non avrebbero mai potuto conquistare, e soprattutto mantenere sempre, il potere.
Quando tra il 1989 e il 1991 tutto il “comunismo” cadde “da solo” da Berlino Est a Vladivostok, come un vecchietto colpito da infarto, e senza colpo ferire – come in duemila anni non era mai capitato a nessun altro impero mondiale – l’Occidente – europeo e americano – avrebbe dovuto avere la saggezza di non voler stravincere come i vincitori dei tedeschi del 1918, andando semmai incontro ai “vinti”: una saggezza che gli americani avevano pur avuto con italiani e tedeschi dopo il 1945, aiutati a risollevarsi all’ombra della rinata democrazia tramite il Piano Marshall (però purché accettassero il sistema liberaldemocratico del vincitore, che per altro ai popoli liberati in grado di scegliere ovviamente piaceva di più di quello sovietico, autoritario e economicamente sempre molto meno sviluppato). Gli americani e i loro vecchi alleati europei – i quali con il comunismo totalitario avevano dovuto confrontarsi non per pochi anni, dal 1939 al 1945, come con il Terzo Reich (oltre a tutto durato dodici anni in tutto), ma per oltre settant’ anni; e che conoscevano la plurisecolare tendenza autocratica russa; e dovevano, e ancora debbono, confrontarsi con il totalitarismo comunista “capitalista” cinese – pensarono che non c’era tanto da fidarsi. Era meglio approfittare della debolezza dell’orso russo, finchè durava, sfilandogli tutti i paesi dell’ex impero “socialista”, spesso facendoli aderire persino al patto militare comune, la NATO, come infatti si fece con Bulgaria, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Slovacchia e Ungheria. Invece di costruire un grande anello di paesi neutrali laddove avevano comandato i russi (finlandizzando l’Europa orientale), come in teoria sarebbe stato possibile (ma solo con la storia fatta con i se e i ma). L’Occidente” liberaldemocratico preferì e preferisce attrarre i paesi ex comunisti “di qua”, con soddisfazione dei popoli stessi, ben contenti di essere più liberi e, insieme, più legati ai “parenti ricchi” euroamericani. Questo è stato oltremodo irritante, e anche temibile, per i russi, che avevano un loro grande Stato da diversi secoli, di cui temevano e temono la rovina.
D’altra parte stupirsi del fatto che dal 1989, sinché ha potuto, l’Occidente abbia cercato di tirare a sé gli ex paesi del Patto di Varsavia – nell’Unione Europea, e pure nella NATO ove possibile – non ha tanto senso perché le relazioni tra gli Stati sono sempre andate così, in una sorta di scacchiere mondiale, in cui tutti gli Stati tendono ad affermarsi a scapito della debolezza altrui. Ogni vuoto è riempito. Ce l’avevano già insegnato, in forma gravemente nazionalista, Heinrich von Treitschke nel XIX secolo, e, sempre più criticamente, Friedrich Meinecke nel XX[1]. E sarà così finchè gli Stati di diritto non si federeranno, ponendo fine all’anarchia mondiale, cioè alla relazione senza legge che vige normalmente tra Stati. Quando gli Stati del mondo lo faranno realizzeranno la “pace perpetua” sotto una legge comune, come Immanuel Kant auspicava sin dal 1795 nel piccolo geniale trattato Per la pace perpetua; e come prova a fare, tra mille contraddizioni, l’Unione Europea, tra Stati del vecchio continente: aspetti per cui rinvio agli interessanti studi più congrui di Corrado Malandrino e Sergio Quirico, ma anche a quelli di Lucio Levi (e naturalmente al Manifesto di Ventotene del 1941 di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi)[2]. Almeno per uscire dalla “logica” di potenza dei rapporti inter-statali vigente da secoli, gli Stati nazionali dovrebbero insomma formare “Stati di Stati”, come Stati Uniti o Svizzera, prima a livello di continenti e poi del mondo. Secondo me tra cento anni arriveremo sicuramente all’unificazione del mondo in un unico Stato (se “Stato di Stati”, ossia federale, e soprattutto federale democratico, sarà da vedere), ma non so sotto che forma di governo e soprattutto dopo chissà quali catastrofi.
Comunque al crollo del comunismo da Berlino Est a Vladivostok nel 1989/1991, fu scelta la strada della rapida espansione dell’Unione Europea e della stessa NATO in Europa Orientale. Questo certo avveniva per volontà degli Stati stessi dell’ex area d’influenza sovietica, ma pericolosamente per la pace nel mondo. Se questo alla Russia non piaceva – ritennero però i potenti Stati Uniti ed i sempre divisi Stati europei pure all’ombra dell’Unione Europea – poteva arrangiarsi. Avrebbe dovuto fare buon viso a cattiva sorte. Aveva solo da diventare liberaldemocratica pure “lei”” come gli altri. Così pensavano e volevano, e pensano e vogliono, gli americani, e, con qualche dubbio in più, pure gli europei.
Ma le cose nel mondo sono un po’ più complicate di quanto le facessero o facciano gli americani, specie “democratici”, con la loro pretesa che tutti diventino liberaldemocratici, specie se facciano concorrenza agli Stati Uniti o addirittura li contrastino o possano contrastarli sul piano politico militare ed economico. Si può anche legittimamente prevedere, come riteneva già Tocqueville in L’Antico regime e la rivoluzione (1856), che tutti i popoli diverranno liberaldemocratici[3] (anche se la lotta tra democrazia e autoritarismo potrebbe invece essere “una roba” che dura dai tempi antichi di Atene e Sparta, e ancora c’è tra America e Cina, e si riproporrà sempre come una delle due opposte maniere di vedere la vita collettiva organizzata). Ma anche ammesso che la democrazia liberale, come sarebbe auspicabile (ed è persino probabile), sia il destino di tutti i popoli, sarebbe necessario farla “arrivare” senza forzare troppo le cose, e lasciando che ciascun popolo maturi tali forti opzioni a tempo debito come le nespole, come avrebbe dovuto accadere in Iraq, nei paesi arabi, o nell’ex Unione Sovietica (o Russia), oppure in Cina. In caso diverso si provocano grandi guai, anche a proprio danno.
Oltre a tutto anche nel mondo cosiddetto civile ci sono stati popoli moderni, o relativamente tali, con una storia diversa da quella liberaldemocratica degli inglesi, degli americani, dei francesi e via via degli altri. Ad esempio la Germania dal 1700 al 1918 era un paese niente affatto barbaro, ma diverso da Inghilterra, America e Francia; e così pure la Grande Russia, che al di là della propaganda comunista di un tempo – sui poveri russi che in gran parte sarebbero vissuti nelle casupole di legno col tetto di paglia prima di Lenin e Stalin – è diventata un grande Stato dai tempi di Ivan il Terribile e soprattutto di Pietro il Grande: uno Stato in cui c’erano aree medievali, ma pure aree non cospicue, ma comunque decisive, moderne (in connessione al carattere europeo, ma anche asiatico, cioè eurasiatico, del Paese). Se uno va a leggersi un po’ di letteratura russa dal 1800 in poi lo toccherà con mano. Non si può produrre da oltre due secoli la miglior letteratura del mondo, da Gogol a Bulgakov, ed essere un Paese di barbari.
Ora bisogna ricordare che nelle aree del mondo che a causa della storia sono un composto di popoli, e spesso di religioni e persino lingue, la democrazia è molto difficile da fare. Lì l’alternativa “forte” sembra essere tra Stato-Impero, sempre “più” o “meno” autoritario, e federalismo democratico come in Svizzera, negli Stati Uniti e in India. Ma quelli federativi di tipo democratico sono processi molto complessi. La Svizzera è un caso a sé, uno Stato piccolo e che ha potuto per secoli stare ai margini dei grandi Stati. Il federalismo americano è nato precocemente nella Costituzione (1787), producendo subito in modo occasionale una straordinaria elaborazione federalista democratica con il Federalist (1788) scritto dai maggiori costituenti[4], ma è diventato “Stato di Stati” vero solo dopo una guerra civile sanguinosissima tra 1861 e 1865, tanto più rispetto al numero di persone dell’epoca: una guerra in cui vi furono 700.000 morti su dieci milioni circa di abitanti degli Stati Uniti del tempo. Anche se per far convivere popoli diversi la via regia sarebbe il federalismo democratico, nella storia “effettuale” in generale si può constatare – piaccia o non piaccia – che quando la popolazione di uno Stato è molto grande e formata da etnie, lingue e fedi diverse, l’autoritarismo tende a prevalere.
In tali casi è facile che nascano Stati-impero, necessariamente più o meno autoritari (a volte con un federalismo di facciata). Persino l’evoluzione, o involuzione, dell’antica Roma dalla Repubblica all’Impero avvenne in un contesto del genere. Anzi, sono convinto, ormai da pensionato come professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” dell’Università di Milano, che un bellissimo argomento degno di essere ulteriormente approfondito molto dai nostri studiosi, sarebbe lo studio dello “Stato Impero” come forma-stato. Non parlo solo dell’Impero vero e proprio, come soggiogamento di popoli diversi dal proprio Stato, ma proprio di più popoli in uno stesso Stato (che chiamo Stato-impero). L’Impero austroungarico sino al 1918, almeno tra Austria e Ungheria, era stato così.
Fu così la “Grande Russia”, da Pietro il Grande sino al crollo dell’URSS nel 1991. Lì bisogna saper un poco distinguere tra apparenza e realtà. La “scatola” in cui lo Stato in primo luogo “russo” era chiuso, dal 1917 al 1991, era il “comunismo”, ma dal tempo di Stalin, sempre di più dal 1929 in poi, quello Stato era diventato una nuova autocrazia, passata Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa[5] come diceva sin dal titolo il romanzo del 1922 di Peter Nicolaevic Krasnov, un nazionalista russo capo dei cosacchi del Don nella parte dell’Ucraina più prossima alla Russia, in lotta contro i bolscevichi tra il 1918 e il 1920, e che tuttavia raccontò la continuità tra Russia imperiale e successiva, anche se rimase sempre ostile al regime, e combatté più oltre dalla parte di Hitler, e infine fu impiccato dai sovietici presso il Cremlino nel 1947. La stessa epopea dei cosacchi, ma in tal caso dalla parte dei bolscevichi, fu narrata pure dell’immenso romanzo di Michail Aleksandrovic Solochov, Il placido Don (1928/1940)[6].
Il mio riferimento non è né retorico né da erudito. Voglio dire che sotto le bandiere comuniste lo Stato-Impero seguitava, e sotto Putin cerca di rivivere. C’è anche un bel libro del mio stimato ex collega Bruno Bongiovanni, La caduta del comunismo (1995), a suo tempo da me recensito[7], in cui si sosteneva, tra le altre cose, che sino al 1918 nell’Europa continentale compresa tra Vienna e Vladivostok c’erano stati tre grandi Imperi: l’austriaco (austroungarico), il tedesco (guglielmino) e il russo (zarista). I primi due erano stati distrutti dalla disfatta degli “imperi centrali” del 1918 (e invano Hitler cercò di farli risorgere in forma di nuovo stato-impero etnocentrico e antisemita – il Terzo Reich – venendo nuovamente liquidato, con gioia di tutti i democratici del mondo, nel 1945), ma il terzo impero, il russo, paradossalmente fu ricreato proprio dai comunisti russi, crollando, ormai su sé stesso, solo nel 1991, settantatre anni dopo gli altri due.
Questi Stati-Impero, come minimo all’interno e possibilmente anche all’esterno, essendo formati da molti popoli diversi tendono appunto all’autoritarismo, che guarda caso dopo i più grandi sconvolgimenti rinasce dalle ceneri, magari in forma più temperata, a seconda dei casi. Democratizzare gli Stati-Impero vuol dire frantumarli in molti stati (perché sono sempre multietnici), indebolendo l’insieme. Questo ai loro nemici strategici può parere sempre un’ottima cosa (nella logica del “divide et impera”), ma a loro no. Vale pure per la Cina, Stato di quasi un miliardo e mezzo di abitanti. Se oggi crollasse lì lo Stato detto comunista ne sorgerebbero parecchi, ma è dubbio che l’uno o l’altro avrebbe una potenza economica oltre che istituzionale e militare lontanamente paragonabile a quella d’oggi. Senza contare le catastrofi cui andrebbe incontro il pianeta se uno Stato di quasi un miliardo e mezzo di persone si spezzasse. Ma questo tratto da Stato Impero connota la “Russia e dintorni” da secoli. E qui s’intende meglio, al di là della tracotanza, quello che Putin ha detto il 3 marzo, quando ha osservato: “Io sono russo, ma (…) mi sento anche daghestano, osseto, ceceno, mi sento parte di ognuna delle 350 etnie che compongono il nostro Paese, Sono fiero di essere parte di un popolo multietnico. Ma tuttavia nessuno riuscirà a convincermi del fatto che gli ucraini sono un popolo diverso da quello russo. Siamo una cosa sola.”[8] Può dispiacere, ma tenere insieme democraticamente un tal composto, detto di 350 etnie, è molto complicato. Sarebbe già molto che gli oppositori non venissero arrestati a lungo o avvelenati nella peggior tradizione bizantina.
Ora su questo debbo fare un’ulteriore osservazione storico politologica. Ci fu un tempo in cui la grande avventura del comunismo russo mi appassionava in sommo grado, più o meno dal 1961 al 1981. La figura di Lenin, sebbene soprattutto nella sua parabola compresa tra il 1894 e il 1920, mi appassionava, tanto che tuttora posseggo e compulso le sue opere complete in 35 volumi, e sono convinto che un giorno verrà studiato come oggi da secoli studiamo e meditiamo Machiavelli: come il Machiavelli del pensiero rivoluzionario (mentre della fondazione dell’URSS del 30 dicembre 1922 ci si curerà poco). Allora mi sentivo in dovere, e “in piacere”, di studiare Marx, Lenin, Rosa Luxemburg, Trockij, e le opere di Isaac Deutscher e soprattutto di Edward Carr, ma pure di Christopher Hill e altri, come poi il notevole libro di Massimo L. Salvadori sulla storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, che pure recensii. In seguito lo studio approfondito di innumerevoli e notevoli grandi saggi di Bordiga sulla Russia rafforzò le mie convinzioni.[9]
Ebbene, sin da allora, sin dalla metà degli anni Sessanta (e poi dopo, si capisce), scoprii, o credetti di scoprire, una cosa totalmente in contrasto con quello che il senso comune pensava e pensa da sempre in Italia e in Occidente: il grande conflitto non era stato tra comunismo e democrazia, o magari socialdemocrazia (chi non pensa a Lenin contro Kerenskij?), ma tra bolscevismo e nazionalismo: latamente tra comunismo e fascismo. Infatti la rivoluzione d’ottobre era stata quasi incruenta, ma poi dal 1918 era scoppiata una triennale guerra civile tanto grandiosa quanto terribile, narrata sia “da destra” dal romanzo di Petr Nicolaevic Krasnov, che “da sinistra” dal grande romanzo di Michail Aleksandrovic Solochov: entrambe opere in cui le epiche lotte dei cosacchi, antibolscevichi e bolscevichi, ucraini, sono narrate (come ho detto).
Mi persuasi sin da allora che se era vero che lo scontro era stato tra due grandi movimenti politici di massa, uno comunista e uno nazionalista estremo (in Russia tra l’Armata Rossa di operai e contadini di Trockij e Tukacevskij, e altri, ed i generali bianchi (che in sostanza erano panslavisti e dittatoriali, “fascisti”), in caso di crollo del comunismo si rischiava di veder riemergere l’idra del nazionalismo imperialista e autoritario, poco conta se con o senza il nome di fascismo. Tenendo conto del fascismo ungherese d’anteguerra e del nazionalismo polacco, pure in assenza di una tradizione da Stato Impero come la russa, si sarebbe corso qualche rischio pure là. Diversi amici, anche studiosi di cose russe, non concordavano, come ebbi modo di constatare in taluni dibattiti a Torino all’Istituto Salvemini. Però gli eventi d’Ungheria e Polonia (“democrature”) e soprattutto quelli connessi a Putin oggi al centro della guerra dei russi contro l’Ucraina, lo attestano bene.
Qui, tenendo conto della mia passione per la psicologia analitica, anche applicata alla storia e alla politica[10], non sarà male parlare a questo punto del problema della personalità nella storia in riferimento a Vladimir Putin[11]. Più volte è stato fatto il paragone con Hitler e, fatte le debite differenze, si può fare. Certo tenendo conto del fatto che Putin idealmente non ha assolutamente nulla che possa ricordare le idee di Hitler. Tuttavia è una specie di Mussolini russo. Inoltre il nazionalismo imperiale e imperialista con base di massa ha per forza quell’impronta, anche se avesse come nemico supremo “l’altro”, in qualunque paese. Ma ci sono – fatte tutte le debite differenze – alcune analogie forti. Putin era a Dresda nel 1989 – quando cadde il muro di Berlino – un funzionario del KGB nella Germania “comunista”. Magari del comunismo in sé – come a tutti i tipi del genere l’ideologia – poteva importargli poco; ma certo la visione del grande impero e Stato russo che si disfacevano, tra il 1989 e il 1991, lo sconvolse. E nella visione “noi o loro” propria di gente del genere, abituata sia dal “leninismo” che dal ruolo da agenti d’ordine a pensare che la coscienza arriva ai popoli sempre “dall’esterno”, l’idea di un grande complotto dell’Occidente liberal-democratico contro l’Impero e Stato-Impero russo non l’abbandonò più. Sicuramente l’idea di una revanche gli si fissò nel cranio, ma non per rifare il defunto comunismo, bensì la Grande Russia (che sarebbe stata “il buono” dello Stato sovietico: il nazionalismo grande russa in effimera divisa comunista). Ora la forma specifica del nazionalismo russo è autoritaria, panslavista e religiosa, e Putin, man mano che cresceva in lui lo spirito grande russo e nazionalista di revanche, vi si connetteva. Questo spirito non è stato subito antioccidentale in Putin, ma lo è via via diventato man mano che gli ex alleati della Russia slittavano, persino militarmente, dall’altra parte. Così s’innescava l’antico sentimento della Russia come grande paese tradito e abbandonato, “fortezza assediata”. Così Putin è diventato non solo un capo di stato a mezza strada tra democrazia e autoritarismo, ma un dittatore nazionalpopulista. Nel russo c’è un sentimento redentivo forte, che gli fa preferire il proprio mondo d’ordine, autoritario carismatico e religioso, al corrotto, subdolo e antirusso Occidente, tanto più che questo si comportò come si è detto.
Al potere dal 2000 in poi, Putin è riuscito a rimettere un poco in carreggiata il mondo interno russo, che nel 1991 era quasi precipitato nel caos, tramite il nazionalismo panslavista e ortodosso di cui si è detto, che nella sua coscienza ha preso il posto del defunto nazionalismo “comunista”. Su tale base, come Hitler dopo il 1933, Putin si è riarmato e ha riannesso pezzi persi della Grande Russia. Lo scopo non era e non è quello di rientrare del tutto nei confini dell’ex Unione Sovietica, ma di tornare a quelli della “Grande Russia”, più o meno coincidenti con quella, a parte qualche boccone di troppo connesso alla vittoria del 1945. Si spiegano così le forzate annessioni della Cecenia, Georgia, Crimea, e la ripresa della politica grande russa nei Balcani e in Siria.
Sembra che l’isolamento degli anni del Covid abbia esasperato il messianismo nazionalista e un poco mistico, e certo quei colloqui con capi di Stato a venti metri di distanza di un lungo tavolo sembrano indicare una sorta di delirio di grandezza. Anche se esagerare tali tratti non avrebbe molto senso, come ogni semplicistica visione psichiatrica della storia, che non vale neanche per Hitler (figuriamoci per Putin). Piuttosto forse ci può essere un tratto comune in questo: Hitler era convinto di doversi sbrigare ad attuare il suo progetto di Reich da Berlino a Vladivostok, e comunque di vittoria sui nemici del 1914/1918, perché riteneva che solo uno come lui fosse capace di farlo. Putin governa dal 2000, da circa ventidue anni. Si è proposto, probabilmente dall’inizio di far coincidere la Russia con l’ex URSS. Per farlo doveva e voleva ancora ingoiare il boccone grosso: l’Ucraina. Credo sia l’ultimo atto del suo “grande sogno” di tipo “grande russo”.
Certo deve aver pensato che il momento in termini di realpolitik era splendido. La Grande America era divisa come non mai, quasi sull’orlo della guerra civile, alla – o dalla – caduta di Trump (comunque i grande fibrillazione interna). Biden sembra essere un vecchio irrisoluto, che probabilmente egli considererà come un inetto. Il modo in cui l’America è uscita dall’Afghanistan, facendosi persino disonorare – mollando pure gli ultimi avamposti e alleati – da un movimento di malandrini fondamentalisti fermi al Medioevo, che vivono smerciando eroina nel mondo, indica il massimo d’impotenza. E un paese come la Germania dipendeva e dipende per il 40% dal gas russo (per non dir dell’Italia). Deve essersi detto: “Quale momento più favorevole per riprendersi l’ultimo grande paese dell’ex Grande Russia, stante anche la decisione dell’Occidente di non fermare neanche l’espansionismo Nato a Est senza se e senza ma?”
Come molti tra i “grandi dittatori” ha sottovalutato l’emotività altrui, che gente del genere spesso non sente neanche. Non si aspettava né la forte resistenza degli ucraini né una reazione così forte dell’Unione Europea. Forse il servilismo degli accoliti anche di primo livello – che come al solito dicono tremebondi al Grande Capo quel che lui vuole sentirsi dire – non gli ha fatto un buon servizio.
A questo punto – ammesso e non concesso che lo voglia – gli è impossibile tornare indietro senza perdere faccia e potere rovinosamente. Vincerà la partita, ma con un versamento di sangue ucraino che avrebbe voluto evitare (da parte di futuri cittadini o alleati), pensando che gli ucraini avrebbero reagito poco, come quelli della Crimea, data l’antica appartenenza alla Grande Russia. E non si aspettava il boicottaggio così forte di banche russe e conti e affari russi all’estero, e neanche l’invio di armi agli ucraini. I rischi di una vera guerra con l’Europa e l’America non sono grandi, ma sono state poste premesse forti. E le minacce di uso di armi nucleari per quanto remote sono il sintomo di una situazione molto grave. Persino la conquista militare, senza attendere la caduta della capitale Kiev, di una centrale nucleare ucraina, è un brutto segno.
L’Occidente – come quando Francia e Inghilterra posero l’alt a Hitler sulla Polonia (non tanto credute) – ha posto l’alt all’atto finale di Putin, deciso a chiudere in bellezza la sua “missione” riprendendosi l’Ucraina. Quando si aiuta un popolo a resistere con le armi si apre uno scenario terribile per il futuro, prossimo o meno che sia. D’altra parte non aiutarlo neanche a resistere per conto suo sarebbe di un cinismo smisurato.
Ormai la guerra durerà sino alla vittoria di Putin, che non può essere lontana, ma che sarà molto sanguinosa e lascerà uno strascico di odio in Ucraina che non promette nulla di buono. Ciò posto dopo la conquista Putin tratterà. Come minimo otterrà il riconoscimento dell’annessione della Crimea e seguiterà a sostenere le due repubbliche russofone del Donbass.
Non so se possa ancora prevalere la ragione. Se sì l’Occidente dovrà fare qualche patto segreto alla “vecchia maniera” per fermare la fuga nella NATO dei paesi intorno all’ex URSS; dovrà togliere al più presto le sanzioni e cercare di coesistere tra sistemi diversi, pur tifando per ogni svolta liberaldemocratica in area russa e slava, ma senza forzare le cose più che tanto, piaccia o non piaccia agli americani.
L’alternativa a ciò è duplice: I) spingere la “Grande Russia” a una sorta di vassallaggio non dichiarato nei confronti della Cina, che potrà apparire a Putin come apparve la Germania di Hitler a Mussolini dopo che la condanna della Società delle Nazioni e le sanzioni economiche dopo la guerra d’Etiopia lo avevano isolato in Occidente; II) prepararsi a una terza guerra mondiale.
Sembra evidente che sia assai meglio trattare, trattare e ancora trattare, andando incontro all’aspirazione della Russia in Crimea e nelle aree russofone, frenando l’espansionismo imperiale di Putin, ma anche la volontà dell’Ucraina di non mollare nessun’area al “nemico”.
Naturalmente è del tutto possibile che Putin cada malamente, ma per ora non se ne vedono neanche gli indizi, anche se il mestiere del dittatore guerrafondaio è pieno di insidie.
“Viviamo in tempi bui”, come diceva Brecht nel 1939 nella poesia “A coloro che verranno”[12]. Ma il baratro non è inevitabile, se i grandi statisti sapranno coniugare doverosa fermezza sui “fondamentali” in termini di libertà dei popoli ed audace spirito di compromesso. Mi viene in mente che il grande comunista vietnamita Ho Chi Minh diceva, al culmine della guerra di aggressione degli americani contro il suo Paese, che egli lasciava sempre “una porta aperta perché il nemico potesse uscire”. Ma “i nostri”, i liberaldemocratici dell’Occidente, sapranno essere furbi e realisti come questo grande rivoluzionario orientale?
Franco Livorsi
- H. von TREITSCHKE, La politica, Laterza, Bari, 1918, quattro volumi.
F. MEINECKE, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna (1924), Sansoni, Firenze, 1977; Cosmopolitismo e Stato nazionale. Studi sulla genesi dello Stato nazionale tedesco (1908), La Nuova Italia, Firenze, 1975; La catastrofe della Germania, Considerazioni e ricordi (1946), La nuova Italia, 1948. ↑
- I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Prefazione di N. Bobbio, Editori Riuniti, Roma, 1978. Si veda pure: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo, Introduzione e cura di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31.
A. SPINELLI – E. ROSSI, Il Manifesto di Ventotene (1941), ma redatto con Prefazione di E. Colorni nel 1944, poi con saggio di L. LEVI, Oscar Mondadori, Milano, 2006.
L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2005.
C. MALANDRINO, Federalismo: storia, idee, modelli, Carocci, 1998; con S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storie e prospettive, ivi, 2020. ↑
- A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, in “Scritti politici”, a cura di N. Matteucci, UTET, Torino, 1968-1969, I, pp. 757-758. ↑
- (A. HAMILTON, J. MADISON, J. JAY, Il Federalista (1788, a cura di A. Hamilton), a cura di M. D’Addio e G. Negri (Il Mulino, Bologna, 1980) e con Introduzione di L. Levi, ivi, 1997. Si tratta di una raccolta di 88 articoli, scritti sui giornali dai tre autori per sostenere la ratifica della costituzione del 1787 da parte dello Stato di New York, raccolti con il solo nome del curatore, Hamilton, sin dal 1788 e che di fatto danno, in generale ma soprattutto nel decimo paper di Madison, il vero pensiero politico del federalismo democratico. ↑
- L’opera, uscita in Germania nel 1922 e all’epoca popolarissima, fu tradotta a Firenze da Salani nel 1932 ed è ancora in commercio. ↑
- P. N. KRASNOV, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa (1922), Salani, Firenze, 1922.
M. A. SOLOCHOV, Il placido Don (1928/1940), Garzanti, Milano, 1941/1966, quattro volumi. ↑
- Garzanti, Milano, 1995. L’ho recensito su “Le ragioni del socialismo”, la bella rivista che dirigeva Emanuele Macaluso, nell’aprile 1996. ↑
- “Corriere della sera”, 4 marzo 2022. ↑
- Su tutto ciò rinvio soprattutto al mio: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica, Editori Riuniti, Roma, 1976; al cap. “Liberazione sociale e liberazione della coscienza nella storia della socialdemocrazia e del comunismo. Note e riflessioni”, nel mio libro: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 155-252; e ora al mio libro Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021, pp. 42-184. Ma si veda pure: A proposito della “Storia del pensiero comunista” di Massimo L. Salvadori, “Quaderno dell’Istituto della Resistenza in Alessandria”, a. VIII, n. 15, 1985, pp. 151-160. ↑
- F. LIVORSI, Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Vallecchi, Firenze, 1991; Psicoanalisi e nazismo da Freud a Fromm, “Belfagor”, a. IL, n. 3, 1994, pp. 257-276; Note politiche e psicoanalitiche sul razzismo, “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni”, Milano, n. 6, 1995, pp. 57-105; Politica nell’anima. Etica, politica, psicoanalisi, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Moretti & Vitali, 2010; Il politico, l’antipolitico e il post-politico, “Rivista di psicologia analitica”, n. 29, 2010, pp. 125-144; Archetipi e storia contemporanea nella psicologia analitica, “Rivista di psicologia analitica”, n. 33, 2012, pp. 199-223; La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica, “Anima e Terra”, Alessandria, a. I, n. 2, ottobre 2012, pp. 175-212. ↑
- Per un approfondimento si rinvia a: V. STRADA, Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo, Rubbettino, 2011; S. ROMANO, Putin e la ricostruzione della Grande Russia, Longanesi, Milano, 2010; M. B. BAGNOLI, Modello Putin. Viaggio in un paese che faremmo bene a conoscere, People, Milano, 2021. ↑
-
B. BRECHT, Poesie e canzoni, Einaudi, Torino, 1970. ↑
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