Una piccola conclusione

Tutta l’impostazione[1] alla quale sono pervenuto mi ha portato a ritenere la dimensione sociale imprescindibile, ma non esclusiva, e neppure al primo posto. Un punto decisivo cui sono arrivato è il superamento della fondamentale nozione marxiana – ma anche prevalente nella sociologia contemporanea – secondo la quale non è la coscienza a generare l’esistenza sociale, ma il contrario. Com’è noto Marx e Engels l’avevano sostenuta ampiamente sin dall’Ideologia tedesca (1846, ma 1930), e Marx con osservazioni particolarmente ben argomentate nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859.

Invece, a quel che ritengo io, è proprio “il piano mentale” a improntare “il sociale”, come mi sono studiato più volte se non di dimostrare quantomeno di “mostrare”. Il discorso è filosoficamente e storicamente complesso, ma, detto in due parole – mentre rinvio a quel che in questa “serie” sono venuto dicendo in undici mesi – per vincere e per perdere, nella storia e persino nella nostra vita, non basta avere bisogni materiali o interessi forti, ma ci vogliono grandi idee che riempiano la mente e connesse passioni che riempiano il cuore, che giocano sempre il ruolo decisivo: sono la forza propulsiva, come si può dimostrare o mostrare anche in modo empirico, come ad esempio in questi articoli ho provato a raccontare nei cinque articoli, che sono un solo saggio, su “idealismo e materialismo nella storia”, pubblicati qui tra il 16 febbraio e il 15 marzo.

C’è dunque, almeno per me, un primato di ciò che pensiamo e vogliamo sulle condizioni economico sociali dell’esistenza, per quanto correlativamente importantissime. Ma col primato del “mentale” sul “sociale” cade, o si ridimensiona molto, sia il primato del sociale che quello del politico (che è correlativo al sociale). Certo dell’essere collettivo, sociale e politico, nessuno potrà mai fare a meno, neanche mentre dorme, come non si può fare a meno dell’aria per respirare: senza che – con ciò – si possa dire che viviamo non solo perché respiriamo, ma “per respirare”, o per altre “umili” funzioni del corpo, pure fondamentali. Il significato e fine della vita mi sembrano essere al di qua e al di là dell’essere sociale e politico, anche se di ciò non possiamo mai fare a meno, neanche per un secondo.

Ma ciò posto, dato il primato almeno “tendenziale” del mentale sull’economico-sociale, o fosse pure “nell’economico-sociale”, si deve sempre partire dall’individuo come “singolo”, com’era stato per il liberalismo di Constant (specie nel Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, del 1818) e anche di Tocqueville (specie in: L’antico regime e la rivoluzione, del 1856): liberali “classici” per i quali la libertà dell’individuo come tale era la base di tutto. Era stato così, almeno in riferimento al ruolo del singolo (o dei singoli in quanto singoli), per Kierkegaard (specie in Timore e tremore, del 1843); per Nietzsche (specie nella prima parte del Così parlò Zarathustra, del 1883); e per Bergson (soprattutto in Le due fonti della morale e della religione, del 1932): tre filosofi molto diversi in materia di concezione della vita morale, come può esserlo il cristianesimo dalla sua negazione, ma uniti sull’”individuocentrismo”. Quest’approccio era pure molto forte in Jung, come si vede in Il significato della psicologia per i tempi moderni (1933) e in tanti altri testi.

Questo “individuocentrismo” è, anzi, il mio vero punto di dissenso da Hegel, pensatore che pure oggi ritengo sia stato del livello di Platone e di cui condivido – sol che si pensi anche solo al suo opus, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, del 1830 – sia l’idea decisiva per cui nella nostra mente è già latente – in attesa di essere da noi svelato – l’infinito ed eterno Logos, e sia l’idea che il Logos sia in tutti e nel tutto (Uno-Tutti e Uno-Tutto), ma per me a partire dall’unicità di ciascuno. Non si può affermare l’idea dell’immanenza del Logos, infinito ed eterno, in noi – seppure in ciascuno a suo modo – con la stessa forza con cui diciamo che due più due fa quattro, ma ci sono quantomeno molti indizi che sia proprio così (come diceva Hegel). Il vivente – possa saperlo o meno: ma l’essere umano può talora intenderlo e sentirlo – è un microcosmo; e comunque è elemento del tutto, e nel nostro caso uno che rinvia alla specie umana, che ci vive tutti dall’interno, però in ciascuno a suo modo. In ciascuno di noi, insomma, c’è l’Uno-Tutto e l’Uno-Tutti: il Tutto e Tutti. Ciascuno di noi pensa-vuole entro il Tutto e Tutti, nel Logos infinito o comunque intersoggettivo che ci accomuna. Questo Vivente nei viventi, che per così dire vive i singoli viventi, tanto più se umani, dall’interno, però è inconscio oltre che conscio, come Schelling aveva ben compreso (nel Sistema dell’idealismo trascendentale, del 1800, e in altri testi, vagliati da Giuseppe Semerari in Introduzione a Schelling, del 1971) e Hegel, con tutta la sua maggior potenza teorica, spesso aveva sottovalutato, sopravvalutando la coscienza e la sua ratio rispetto all’inconscio, che per lui era sempre “il piano di sotto” rispetto al sovrastante pensiero creduto infinitamente razionale di per sé.

Tutto ciò l’individuo “può” anche giungere a comprenderlo e percepirlo (o appercepirlo). Egli può insomma giungere a intendersi, a percepirsi ed a vivere avvertendo il Logos, infinitamente inconscio-conscio, contratto nel proprio essere (un essere pur irriducibilmente unico). Può comprenderlo in modo a un tempo cosciente ed estatico, almeno quando lo intenda e viva “per davvero”.

Ovviamente ciò vale anche per gli animali, da cui con evidenza veniamo. Anche in essi l’infinità naturale è presente in ciascuno, il tutto li avvolge, forse con un’intensità che non potremo mai comprendere, tanto essi sono indivisi dalla vita generale, cui ineriscono. Ma in essi accade in modo puramente inconscio.

Sono cose che l’idealismo romantico dell’inizio del XIX secolo aveva dunque già compreso bene, ma che poi tutta la psicoanalisi, da Freud in poi (con particolare riferimento a Jung), ha fatto toccare con mano a chiunque voglia accorgersene. Il sottinteso della psicoanalisi – a quel che ritengo – è infatti sempre che “la psiche c’è”. Per me essa è la corrente della psicologia per cui la psiche “c’è”, non è un derivato d’altro, per quel che ne possiamo sapere. Essa “c’è” quantomeno come il radicale inconscio, appunto psichico, del vivente, solitamente inconscio, ma che si fa “parzialmente” conscio nell’uomo. Il fondo abissale psichico del nostro essere è sempre operante anche quando dormiamo, tanto che è persino esplorabile per la via dei sogni, con un certo lavorio su di essi “in analisi”, detto metodo delle “libere associazioni”, su cui ovviamente qui non mi soffermo. Mi pare che nonostante – o persino a dispetto – del materialista Freud, ciò emerga con forza andando dal suo L’interpretazione dei sogni (1899, ma 1900) e da tanti suoi lavori a quasi tutti i testi – specie dal 1912 al 1961 – del suo discepolo “eretico”, poi avversato e avversario, Carl Gustav Jung. Questi tendeva al neo-spiritualismo (pur essendo agnostico “in sede scientifica”). Emerge con particolare riferimento a tutti i saggi contenuti in “Psicologia e religione”, XI volume delle sue opere, del 1979: per non dire dello junghiano sui generis, ma geniale, James Hillman, tendente persino all’animismo, espressamente desunto dal neoplatonismo di Plotino e poi di Marsilio Ficino oltre che da aspetti importanti di Jung, e anzi orientato ad un suo forte animismo “colto”, sin dal suo Il mito dell’analisi (1972).

Perciò l’idealismo “romantico e mistico”, per cui l’infinito è immanente nel nostro Sé più interiore, è avvalorato pure dalla psicoanalisi, che molto spesso in filosofia vi è però arrivata tramite il vitalismo di Schopenhauer e Nietzsche, per i quali il tutto è percorso da un’energia vitale (che Bergson nel 1907, in L’evoluzione creatrice, chiamerà “slancio vitale”). Ma talora il legame tra psicoanalisi e idealismo si è fatto esplicito, come in certe opere di Silvia Montefoschi (come in: Jung. Un pensiero in divenire, del 1985, e altre). Ella si studiava anzi di connettere Jung e Hegel. Del resto in fondo gli psicoanalisti, volendolo o meno, sono tutti idealisti (mentalisti infinitizzanti), nonostante i reciproci contrasti irriducibili.

Quindi Hegel può essere un ottimo punto di ri-partenza, purché ripensato alla luce di tutto quel che è stato elaborato negli ultimi due secoli circa che ci separano dalla sua morte.

Tuttavia mentre per Hegel, ma anche per Marx, il Tutto-Tutti è anteriore alle parti (sicché il singolo ha senso solo nel contesto totalizzante, si chiami questo contesto intersoggettivo “Storia” e “Stato” come in Hegel, o “Storia” e “Società civile” come in Marx), per me il Tutto-Tutti è presente in ciascun vivente nella sua individualità. In particolare, in quanto nell’”inconscietà” della vita noi umani siamo l’inconscio che in parte si è fatto e fa cosciente, è presente in ogni essere umano, in ogni “in-dividuo”. Non siamo noi, uno per uno, ad essere nell’essere (nell’uno-tutto o uno-tutti), ma è l’essere a essere “tutto-tutti” in noi singoli esseri viventi presi uno per uno. E noi umani possiamo – anche se per ora non tutti, e non necessariamente – pure diventarne coscienti. Siamo aperti al Logos, che è esso stesso inconscio-conscio, come spiegato da Schelling oltre che da Hegel. Ma ciò vale pure, in riferimento alla “Vita”, sempre infinita. Valeva anche per l’anti-hegeliano radicale Schopenhauer, sin dal Mondo come volontà e rappresentazione, del 1818-1819. E più oltre è valso per Bergson, per non dir di Jung. Ma l’essere uno-tutti e uno-tutto – ecco il piccolo punto da non dimenticare – emerge sempre – quando, e se, emerge – individualizzato in noi presi uno per uno: come a dire che ogni numero presuppone potenzialmente tutta la numerazione, che è infinita, ma ciascuno è il numero che è; oppure che ogni punto è un infinitesimo di una retta infinita: però a partire da “lui stesso”.

Nella visione del tutto-tutti anteriore alle parti – che veniva da una lunga tradizione metafisica risalente a Platone e Aristotele – si ritrovavano invece sia Hegel che Marx, per i quali l’universale prevale sempre sul soggetto particolare. Per essi l’Io in senso “universale” prevale sempre sull’Io preteso “empirico” (singolare). La specie per loro prevale sempre sull’individuo. Madama la Storia prevale sul singolo. Il “sistema” prevale sull’individuo. E la “classe” di appartenenza in Marx prevale sulla persona. E per alcuni pensatori politici marxisti del nostro tempo, che non considero tra gli ultimi, pure “la moltitudine”- come ad esempio in Antonio Negri e Michael Hardt in Moltitudine: guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale, del 2004 – la moltitudine antagonista prevale sui singoli: una moltitudine sotterraneamente o espressamente attiva ed operante che, per i due, già si lascerebbe intravedere non solo tra i dannati della terra affamati, sottopagati, emarginati e ovviamente “arrabbiati”, ma anche tra i “lavoratori della conoscenza” che vendono intelligenza in ambito informatico, nell’immenso “popolo della rete”.

Per farla breve anche se Hegel poneva certo “la coscienza” come matrice e non come conseguenza dell’esistenza sociale (e per me faceva bene), la sua “coscienza” era coscienza dell’umanità, che assorbe e rende sempre caduco il singolo. Essa è per lui incarnazione dell’Idea che ci accomuna, e ci vive dall’interno. Sarebbe “autocoscienza” sovrapersonale infinitizzante: ritenuta sempre operante, persino quando – come tanto spesso accade – sia obnubilata (o forse protetta, rispetto ad un’esposizione troppo forte ai raggi ultravioletti del sole della Ragione, o Logos, o “Dio” immanente in noi).

Da ciò poi veniva l’idea – frutto di laicizzazione di tale impostazione – del materialista Feuerbach di Principi della filosofia dell’avvenire (1843) e del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 sull’uomo-specie, o “genere” (“ente generico”, diceva e tematizzava lì Marx in pagine indimenticabili), prima che individuo, e incorporante l’individuo: un individuo che per loro, materialisti-idealisti, come già per Hegel sarebbe anche in sé stesso appunto prima specie umana che singolo, prima universale che particolare: tanto che lì, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx diceva che se non fosse per il capitalismo che ci aliena, per natura – dato il nostro intrinseco universalismo (in senso hegeliano), o il nostro essere specie, o genere, “in interiore homine” (“feuerbachiano”), saremmo più sociali ancora delle api.

Più oltre Marx spostava l’inerenza all’universale – che in Hegel era stata sinonimo di Idea, e in Feuerbach e in lui stesso, dal 1841/43 ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, sinonimo di “specie” (o “genere”) – nell’essere sociale (a partire dalle Tesi su Feuerbach del 1845, in cui si separava da Feuerbach, sino alla fine dei suoi giorni). In sostanza Marx persuase sé stesso e tutti i suoi continuatori che la società, che è in divenire, ci vivrebbe dall’interno, facendoci essere quello che siamo. Quando cambia, e nella misura in cui cambia, cambiamo natura anche noi, vissuti dall’essere sociale, senza un che di immutabile o relativamente immutabile alla radice, salvo l’essere sempre pensanti-agenti per natura, ma mutevoli come il mitico Proteo, nel nostro caso col variare delle condizioni sociali. Ma alla fine taluni epigoni geniali, comprendendo i limiti di eccessiva negazione della soggettività dei singoli, dello stesso “vecchio Marx”, proveranno a incorporare nuovamente l’universalmente umano o specie e soprattutto società umana liberata (non alienata) nel singolo: sino ad ipotizzare, prevedere e talora appercepire – come affermato da Antonio Negri con Foucault, con nietzscheanesimo rovesciato in senso progressista, o di segno progressista – un mutamento biopolitico in atto: verso l’uomo “comunionista”, frutto di un mutamento detto “biopolitico”. Ma in tal caso non sarebbe meglio – come in tutto il filone richiamato, da Constant a Tocqueville, o da Kierkegaard a Nietzsche, Bergson, Jung e Hillman – partire dal singolo riconosciuto come tale “per natura”, sia essa mera vitalità umana o anche spiritualità?

Ora la conseguenza politica del nostro essere vissuti da quel che è a tutti comune era che per Hegel – in quanto partiva dalla coscienza fattasi qualcosa che, bon gré mal gré, valesse “per tutti” (fosse intersoggettiva), e “quindi” dallo Stato – l’uomo è totus politicus: cittadino soggetto alla legge, ossia al “suo” Stato. Questo “Stato” sarebbe da assumere come espressione dell’eticità collettiva, cioè del bene pubblico comune (come diceva con particolare enfasi in Lineamenti di filosofia del diritto, del 1821). Si sa che per Hegel la vita etica, intersoggettiva, si manifesta nella triade famiglia-società civile (economica)-Stato. Per Hegel ivi l’asso piglia tutto era lo Stato, culmine e condizione basilare della vita collettiva, che altrimenti si disgregherebbe. Mentre per Marx, nella triade famiglia società civile e Stato l’asso piglia tutto non era lo Stato, ma la “società civile” (lavorativa, produttiva), vista come la base dinamica e concreta dei diversi momenti collettivi richiamati. E per ciò per Marx l’uomo era totus oeconomicus (nel senso però di totus socialis, come ha meglio precisato il marxismo “operaista”, leggendo, a partire dai suoi Grundrisse del 1857 il Capitale di Marx, del 1867/1883, più come sociologia economica a sfondo rivoluzionario che come economia politica in senso puro (da Vittorio Foa, Raniero Panzieri e Mario Tronti allo stesso Antonio Negri). Perciò nell’impostazione conforme a Marx, o sulla linea “marxista operaista” del suo pensiero, liberare la vita collettiva significava liberare la società civile dai vincoli che la opprimono (cioè dalle opposizioni tra classe sfruttatrice e classi sfruttate. Tutte le classi economiche, o economico-sociali, sfruttatori e sfruttati, sarebbero parte della società civile, del mondo produttivo o anche della vita vera. Per cui solo nella società civile, vista come la struttura della vita collettiva, può avvenire, o non avvenire, la sintesi dopo il conflitto degli opposti: un conflitto che ogni Stato in senso moderno, cioè burocratico-repressivo a prescindere dalla forma di governo, “occulta”, o “occulterebbe”, a favore di chi nella società civile domini e sfrutti (alias dei “padroni” di turno, quale sia stata la classe sfruttatrice negli ultimo cinquemila nostri anni, culminata negli ultimi secoli nella borghesia capitalistica). Ma in base a tali presupposti – per l’uno e per l’altro, per Hegel come per Marx – l’individuo era appunto un epifenomeno, un fenomeno derivato (un epifenomeno dello Stato per Hegel; e della “società civile”, non meno “intersoggettiva” o collettiva, da tanti secoli lacerata in classi opposte, da armonizzare tramite l’urto degli opposti sociali, per Marx). Mentre per Hegel, non meno che per Hobbes (anche se l’uomo per Hegel era ben più valido in se stesso, essendo per sé, a suo dire, umano-divino), la “società civile” senza Stato, o a prescindere dallo Stato, era la “bestia selvaggia”, per Marx era da spingere all’antagonismo, alla lotta classe contro classe, abolendo così la classe padronale (ora borghese), e anche il suo cane da guardia (come lo si diceva, contro Stirner, nell’Ideologia tedesca), lo Stato: sino a realizzare – dopo un cinquemila anni di società a classi divise, di “Storia” – l’anarchia comunista, la società senza classi e “dunque” senza Stato. Ma tanto l’hegelismo quanto il marxismo facevano e fanno dei singoli una variabile della totalità viva (lo Stato per Hegel e la società civile per Marx).

Si badi che in prima istanza si possono pure sostenere tesi “sovrindividuali” come quelle di Hegel o poi di Marx e compagni. In prima istanza, insomma, si può benissimo dire che il problema del buon padre (e madre e figli) di famiglia, e tanto più della gente che “va a lavorare”, “produce”, “smercia” e “consuma” (operando ed essendo nella “società civile”), sia o quello di essere cittadini particolari ligi alle leggi dello Stato (Hegel), o produttori non coartati, senza padrone, e per ciò affratellati, perché “finalmente” liberati e dai padroni e dall’innaturale corazza o braccio armato, sempre padronale, dello Stato che li opprime (Marx): ossia in prima istanza si può effettivamente dire che l’uomo è uomo “dello” Stato (Hegel), o in comunione con gli altri, ma senza padroni, senza sfruttamento, senza dipendenza, e al culmine del processo pure senza Stato, sia pur esso lo Stato proletario, inteso come Stato da subito “in estinzione”, diluentesi, nella società civile in cui debbono sparire le classi (Marx).

Ma “in ultima istanza”, per contro – ossia alla radice – tanto l’essere avant tout uomo politico (Hegel) quanto l’essere avant tout uomo economico o uomo sociale (Marx), per me sono già un derivato d’altro: un derivato dei singoli in quanto singoli, senza i quali non c’è nessun Tutto o Tutti, nessun Logos, nessuna specie, nessun sistema sociale (che sono generalizzazioni rispetto all’essere umano “individualizzato” nei singoli da sempre e per sempre: per così dire universale nel singolare). Infatti l’essere politico o sociale è solo un composto di esseri singoli sociali, che prima sono singoli – seppure con l’universo o universale, o Tutto e Tutti, in loro – per quanto siano subito dopo “anche sociali”. Questo “singolo” a me pare il vero trascendentale (quello che è nell’esperienza, ma pure al di là di essa: l’a priori in noi, ma “noi junghiani” lo diciamo “archetipico”). L’uomo è sì universalmente umano (pure Logos, o Stato, o società), ma solo in quanto questi insiemi collettivi vengono dai singoli: sono generalizzazioni ricavate dal loro individualissimo essere nel mondo. C’è sì una forma a priori che ci accomuna, ci fa umani, ma in ciascuno ha appunto una specificità: è un tutto-uno e tutti-uno, che però vive solo nei singoli in quanto singoli, per così dire “carichi” per natura dell’uno-tutto o uno-tutti, ma ciascuno a suo modo (innanzitutto). Infatti ogni vivente per me è prima di tutto se stesso e per se stesso. Anche se è da subito “spalancato” “sugli altri”, è subito “tra gli altri” e subito “per gli altri” (ma subito dopo che in se stesso). Il vivente è innanzitutto “sé stesso” non perché sia naturalmente egoista (tanto più negli animali sociali come l’uomo), ma perché vuole naturalmente bene a sé più che a tutti: in base al “primum vivere”; e perché ha un’identità sua propria, anche se subito gettata nel mondo comune. Il mondo, comune, gli è veramente intimo. Ma persino se fosse l’uomo più buono del mondo non potrebbe non avere la propria singolarità come centro, attorno a cui girano gli altri umani, e anzi tutto l’universo; si vede persino nella vita di Gesù: da come s’irritava con scribi e farisei, a come sudava sangue nell’orto su Getsemani e si sentiva abbandonato da Dio in croce. Siamo tutti insieme; siamo sociali, e persino gregari, ma a partire da noi stessi: uno per uno. Saremo pure uno, nessuno e centomila come diceva Pirandello (o uno, nessuno e sette miliardi e mezzo), ma a partire da “uno”. Il resto, per quanto intimo, c’importa comunque “un poco meno”. E vale per tutti i viventi, quantomeno nostri anche lontani cugini nell’evoluzione delle specie. Forse ci sono microrganismi o insetti per cui non è così, ma ogni vertebrato è così, e lo è certamente ogni essere umano.

È su questo punto della centralità del singolo che sto più con Kierkegaard, Nietzsche, Bergson e Jung che con Hegel e Marx: in quanto pongo l’essere politico e l’essere economico come costruzioni dell’individuo: sue modalità nella vita di relazione, o nella storia: imprescindibili e decisive (certo), ma che per l’individuo in quanto tale vengono sempre “dopo”. Per quanto il singolo possa essere, o sentirsi, in simbiosi con altri, anche il più simbiotico lo è a partire a sé stesso e arrivando a sé stesso. Persino se dia la vita per altri, lo decide (come se decide di togliersela): cose che forse solo l’essere umano, in quanto cosciente, e in ciò diverso da tutti gli altri animali, può fare. Questo è possibile perché siamo pensanti (volenti), ma anche perché siamo “antropo-individuali”.

Accetto pure il concetto – che c’è in Hegel come in Marx (e nelle ovvie loro diramazioni sino a noi) – dell’intersoggettività come un che di decisamente fondamentale, senza la quale nessuno potrebbe né sopravvivere né vivere: solo che per me – dato il presupposto “individuocentrico” richiamato – l’intersoggettività è inter-soggettività “col trattino”, in cui il “prius” è appunto la soggettività (il singolo in quanto singolo). Tutte le soggettività presuppongono l’umanità, ma questa è diversa in ciascuno: ogni “albero” è nella foresta, ma ciascuno è inconfondibilmente sé stesso. “In ultima istanza” non è l’albero a presupporre la foresta, ma è la foresta a essere un insieme di singoli alberi: la foresta è reale, ma come un derivato, che esiste solo come tipo collettivo, come “concetto” (avrebbe detto Abelardo tra l’XI e il XII secolo, in Scritti di logica, che si possono vedere nell’edizione del 1969 curata da Mario Dal Pra) e non in re. Anche se del “tipo collettivo”, però composto dai “molti” e non da “uno”, non possiamo mai fare a meno, neanche per imparare a camminare. Non dobbiamo più dimenticare, insomma, che “i reali” sono gli individui: mentre tutti gli enti collettivi, per quanto imprescindibili, sono generalizzazioni rispetto ai singoli (sono loro che fanno essere l’essere). In ultima istanza la “foresta” non esiste: ci sono solo tanti alberi e arbusti, ma metterli a confronto, studiarne le relazioni, e così via, è fondamentale (inconsciamente lo fanno tutti i singoli viventi tra loro). Al proposito credo che si dovrebbe approfondire molto il concetto di “ecceitas” di Giovanni Duns Scoto (filosofo francescano del XIII-XIV secolo), per cui la sostanza è sì un dato comune a tutti i membri della specie (o di una specie di esseri: per noi dell’essere umano), ma diversa in ciascuno, come lo è la volontà nell’essere divino e pure umano, che in certo modo è quel che decide. Non ci sono neanche due impronte digitali uguali. Vale per tutti gli esseri, ma tanto più per l’essere anche cosciente e volente per natura: l’uomo, in cui ciascuno è un mondo.

Uno naturalmente si chiederà pure – specie se digiuno o dimentico di ogni filosofare – quel che Totò, che seguitava a prendere pugni da uno sconosciuto, che l’aveva scambiato con un certo Pasquale, senza reagire perché lui non era Pasquale, si chiedeva in un famoso sketch: “Chissà ‘sto stupido dove vuole arrivare?”

Il fatto è che tanto Hegel quanto Marx vanno dal tutto-tutti alle parti: dall’umanità al singolo; dall’essere sociale alla coscienza; dallo Stato al cittadino; e dal produttore al cittadino e uomo. Per essi, insomma, c’è un assoluto primato del sovraindividuale: Stato rispetto a individuo in Hegel, e sistema economico (ma diciamo pure sociale come ci ha ben insegnato l’operaismo marxista) rispetto a individuo. In tal caso la salvezza c’è solo nello Stato (Hegel e compagni), oppure in nuovi rapporti economico-sociali (Marx e compagni), o ad entrambi i livelli. Questi “livelli” in tali indirizzi sono sovrapersonali, intersoggettivi “senza trattino”.

Invece se partiamo dal singolo non tutta la salvezza deriva dal “politico” o dal “sociale”, o anche dal “politico-sociale”. Il nostro personalissimo vivere ha certo bisogno di condizioni esterne (sociali, politiche), persino per imparare a camminare come ho detto, ma un bel pezzo del nostro vivere – un “pezzo” per me decisivo, o comunque più importante per ciascuno di noi – non afferisce né allo Stato né all’economia. C’è pure, insomma, una vita che è nostra e solo nostra, che ha sì bisogno del resto (collettivo), per “essere”, e non schiattare in poche ore o giorni, ma ha pure un suo senso intrinseco: pre-politico e pre-economico; e post-politico e post-economico.

—————————–

Ci vuole certo un buon Stato, non a poteri “fusi” (legislativo esecutivo e giudiziario), né tantomeno “con-fusi”, perché altrimenti diventa tirannico (com’è ben stato spiegato da Montesquieu nello Spirito delle leggi, del 1748, come da Benjamin Constant, nel Corso di politica costituzionale, del 1818-1820, decisivo in tale ambito). Ci vuole, per me – tanto più nell’era della globalizzazione e dell’Italia d’oggi – un piccolo Stato democratico forte, che abbia la caratteristica di dare il “minimo” a tutti i cittadini. Questo “minimo”, che ci si deve aspettare dallo Stato, naturalmente varia in termini socioculturali nel corso della storia e da Stato a Stato. Il minimo comune, come era stato ben compreso dal pensiero politico proto-moderno di tipo assolutista (Hobbes, Leviatano, 1651), ma anche liberale (Locke, Due trattati sul governo, del 1690), è il diritto alla vita. È certo ancora così in alcuni Stati moderni dell’Africa, che hanno alle spalle meno di cento anni di post-tribalismo. Lì l’obiettivo minimo dello Stato – il fare di tutto perché nessuno possa accoppare il prossimo “normalmente” o troppo spesso, e farla franca – è ancora l’obiettivo massimo. Lo Stato nasce, comunque, innanzitutto per salvaguardare il diritto alla vita di tutti i singoli cittadini, tanto che quando lo Stato non può più garantire “normalmente” il diritto alla vita, secondo Hobbes non solo si precipita di nuovo nello Stato di natura in cui secondo lui “l’uomo è lupo all’uomo”, e nella “guerra di tutti contro tutti”, che sarebbe la “guerra civile”, ma il singolo non è più tenuto a obbedire ad uno Stato che è ormai un fantasma tanto che non può neppure difendere la sua vita entro i suoi confini (o provarci sino al limite del possibile), avendo perso ogni “sovranità”; o essendo risultato incapace, secondo Locke, di difendere il primo diritto “naturale” (un diritto che per lui in vero era la proprietà, ma a partire dalla proprietà del proprio corpo, base per lui di tutte le altre proprietà personali). Di lì venne poi l’idea liberale dello Stato che c’è soprattutto per far rispettare l’ordine pubblico (evitando ogni violenza privata, in cui poi si fa precario pure il diritto alla vita), ma a sovranità divisa, perché altrimenti esso stesso calpesta l’istanza di non-violenza e non-omicidio arbitrario (Constant): Stato liberale (individuocentrico e con divisione dei poteri). Questa posizione originaria del liberalismo, intorno al 1800 anche chiamato così, secondo i suoi critici configurava “lo Stato guardiano notturno”, ossia inteso riduttivamente come mero garante dell’ordine pubblico.

Il criterio originario dello Stato liberale come Stato a sovranità divisa almeno per tre (legislativo, esecutivo e giudiziario), specie a garanzia del diritto di ciascuno a non subire ammazzamento o violenza (pure dal governo), resta ben fermo sino a noi, almeno in ambito liberal-democratico. Ma l’idea del diritto nativo di ciascun individuo si è via via ampliata (ben oltre la salvaguardia del diritto dei diritti, che è appunto il diritto a non essere ammazzati, e neppure minacciati o picchiati, da altri individui o gruppi privati, ma pure non privati e “in divisa”, per qualunque ragione al mondo). Oggi cose come l’istruzione per tutti, fino all’età ritenuta obbligatoria (e se possibile anche oltre), oppure come l’assistenza sanitaria per tutti, nell’Europa democratico-liberale sono a ragione ritenute valori molto forti. Persino il diritto a un minimo garantito a chiunque – e nella fase transitoria a chiunque non abbia un lavoro (e secondo me, per ora, in cambio sempre di un certo lavoro) – perché possa campare senza morire di fame e avendo un tetto sulla testa, in un mondo produttivo dell’automazione e dell’elettronica che avrà sempre meno bisogno di forza lavoro non qualificata, è un grande problema. Mi sembra molto probabile che in futuro una qualche forma di minimo vitale minimamente dignitoso garantito a tutti (specie se senza lavoro, per qualunque ragione), s’imporrà, come futuro del diritto di tutti i singoli, diritto che solo la forma-stato può e potrà garantire. Il vero problema sarà quello della possibile o impossibile coesistenza tra questo nuovo diritto sociale per tutti (minimo vitale dignitoso, che il liberale-libertario Bertrand Russell, che già lo teorizzava per chiunque lo volesse, chiamava “il salario del vagabondo”) e gli antichi diritti del lavoro. In ogni rivoluzione industriale la forza-lavoro tradizionale ha dovuto far fronte al contesto imposto dall’evoluzione tecnologica, in genere vedendosela piuttosto male per un periodo non breve, ma poi superato “in avanti” dopo diversi decenni, e sarà così anche questa volta. Ma nell’era dell’informatica e dell’automazione il tema del minimo vitale per tutti, nel mondo in fieri, diverrà sempre più attuale. E, come sempre nel campo dei diritti personali – dalla vita alla libera opinione, o voto, o educazione di base, o alla salute – sarà un diritto che sarà sì per tutti, ma uno per uno. Ciò che non è per tutti i singoli in quanto singoli, infatti, ha sempre un’altissima probabilità di risultare un cattivo affare per la stragrande maggioranza delle persone.

——————————–

L’altra istanza che s’imporrà sempre di più sarà quella della grande liberazione da un inquinamento che mina non solo innumerevoli altre specie, condannate di continuo a morte, ma le basi stesse della vita planetaria. Ci vorrà sempre più ecologia, anche in economia. Io credo però che solo l’internazionalizzazione graduale della forma Stato (prima nei continenti e poi tra i continenti), potrà dare forza di legge alle misure ecologiche.

—————————–

C’è, e ha da esserci. un nesso molto stretto tra federalismo, però continentale e mondiale, ed ecologismo en marche.

————————-

Inoltre ritengo che ciò sia possibile solo tramite un profondo mutamento della mentalità dominante, che ci faccia riscoprire la sacralità della vita stessa, come l’Uno-Tutto e l’Uno-Tutti cui ineriamo. È del tutto possibile, perché altrimenti si andrà a fondo, e quella umana potrà pur essere una specie criminale, ma non pare stupida (anche se Edgar Morin e Anne Brigitte Kern, in Terra-patria, nel 1993, dicevano che l’uomo non è proprio sapiens, ma sapiens demens).

——————————-

Va però notato che lo Stato liberaldemocratico minimo, a poteri divisi e ben bilanciati, garante dei diritti di tutti i singoli in quanto singoli, deve poter funzionare. E non può farlo se uno dei suoi poteri sia in grado di prevaricare gli altri due senza essere prevaricato (ossia bilanciato perché “non ecceda”: perché non vada oltre i suoi limiti), per ragioni ben chiare già a Montesquieu. I poteri fondamentali non possono essere divisi col bilancino. Si può pensare che l’uno o l’altro sia un poco più forte degli altri due in base alle circostanze storiche: non però al punto di poter fare l’asso piglia tutto.

In proposito, però, il punto da intendere è che nell’età della globalizzazione, in cui tutti sono in concorrenza con tutti – Stati, padroni e proletari – non c’è Stato al mondo che non sia permeabile dal contesto mondializzato; e pertanto l’avere strutturalmente un potere governativo troppo debole e un ambito d’azione troppo piccolo non funziona: donde la necessità di un potere esecutivo di legislatura e che in termini di potenza interna non sia inferiore agli altri due poteri fondamentali (il legislativo e il giudiziario), ma altrettanto forte; e, come si è detto, la necessità di un superamento dello Stato nazionale verso lo Stato continentalizzato, o Stato di Stati o Stato federale, in vista almeno di una confederazione mondiale tra gli Stati.

Ma aggiornata l’idea dello Stato liberaldemocratico minimo – nazionale, continentale federale e confederale mondiale – il resto lo Stato lo deve lasciare ai singoli, senza pretendere di rompere loro ulteriormente le scatole.

—————————-

Un ragionamento analogo va fatto per la vita economica. Ci vuole certo, per ogni singolo, una vita economica meno dipendente da altri individui che sia possibile, e più solidale con gli altri che sia possibile: ma sempre partendo dalla possibilità del singolo di vivere e affermarsi in quanto singolo. Perciò ci vuole un cooperativismo senza padroni, basato sull’indipendenza dal capitalista privato, ma pure sull’indipendenza degli individui dallo Stato-imprenditore, cioè dallo Stato “mamma”, che poi è sempre “padre” (mamma che non voglio qualificare perché “di mamma ce n’è una sola”, e padre-padrone tristemente noto: e allora “che Dio ci aiuti”). Anzi, il lottare per un tal cooperativismo economico sociale, ulteriore al capitalismo privatistico come al capitalismo di stato, può essere la prospettiva del futuro. Ma se invece il cooperativismo è o diventa in gran parte un capitalismo mascherato, in cui magari facendo figurare i dipendenti come “soci” non si paghino loro i contributi o li si paghi pessimamente; oppure se diventa un aziendalismo di stato o anche comunale più o meno mascherato, che generalmente decuplica gli addetti necessari e perde soldi a palate; e in più dà spesso – non sempre – servizi scadenti, allora tanto vale tenersi il capitalismo privatistico (non quello di stato, che funziona solo con lo Stato-partito totalitario, neo-assolutistico, e anzi solo finché questo abbia, ed anzi eserciti ampiamente, il diritto di vita e di morte sui singoli individui, ammazzandone ogni anno un gran numero di “renitenti” agli ordini, perché in caso diverso si sclerotizza “più velocemente della luce”). Anche in economia, insomma, a farsi valere debbono essere i singoli in quanto singoli, e non come dipendenti o dello Stato, o del privato, o di entrambi. Il lavoro ha da essere o in-dipendente, o cooperativo tra uguali “veri”.

—————————————–

Ciò posto – Stato democratico minimo, stabile e vasto (via via continentalizzato e mondializzato), e indipendenza o cooperativismo senza interferenza di pubblici poteri – c’è però tutta una parte della vita di “tutti i singoli” (e con ciò torno “alla radice”, al punto di partenza, al singolo in quanto singolo), che fuoriesce dal sociale (tanto dal “politico” quanto dall’”economico sociale”, con buona pace di Hegel, di Marx e dei loro epigoni, scolastici o anche critici o ipercritici). Si potrebbe dire che c’è una vita del singolo che eccede la vita dello Stato o/e dell’economia (con soddisfazione “di tutti”, a partire da hegeliani marxisti o democratico-sociali intelligenti, che non vogliono certo che l’individuo sia ingoiato da un Moloch, sia esso Stato o Capitale, pure “collettivo”): se non fosse che è la vita dello Stato o/e economica ad eccedere il nostro essere profondo, ad eccedere la nostra “ipseità”, ad eccedere la nostra singolarità, ad eccedere il nostro essere ciascuno “se stesso”. Il nostro amore per noi stessi, primario in tutti gli esseri minimamente evoluti, e comunque umani, deve affermarsi senza se e senza ma. Deve potersi sempre dispiegare il nostro amore per gli spiriti affini, talora sino alla vera empatia. Abbiamo la nostra gioia o tristezza “nel” e “per” il nostro specifico “vissuto”. Abbiamo la nostra amicizia e i nostri amori per persone care. Abbiamo il nostro amore per la bellezza, per la bella visione o il bel respirare; e anche – sebbene io lo metterei come primo punto, ma riconosco che ciò si può discutere – il nostro anelare per natura a un che d’infinito e di eterno (un infinito ed eterno che ha tanti nomi, tra cui quello di “Dio” mi pare troppo limitativo, tanto più che penso a qualcosa di tal genere che è del tutto, o almeno primariamente, in ciascuno di noi).

Questo vivere individuale prepolitico e pre-economico (e post-politico e post-economico), che pure dovrà per forza dilagare nel “politico” e nell’”economico”, mi pare il fondamento di tutto: mentre il politico ed economico mi paiono il coronamento di tutto. Non c’è né uno Stato, “vecchio” o “nuovo”, e neppure un’economia risanata o nuova, che possano salvarci come singoli se innanzitutto non ci liberiamo uno per uno, vivendo nell’infinito, o comunque liberi e solidali personalmente (ovviamente per quanto possiamo, come ogni essere vivente: ma sempre senza rinunciarvi per nulla al mondo). Liberiamo la nostra soggettività; occupiamoci della sua libertà, gioia e empatia: sia perché così potremo liberarci e gioire prima di qualunque “avvento” collettivo, e sia perché solo chi è intimamente libero e aperto alla gioia di vivere può completare, tramite politica ed economia libere e solidali, la propria liberazione, e dare un contributo vero alla libertà e gioia di tutti gli altri.

POST SCRIPTUM

Concludo qui una serie di articoli che, nel modo in cui sono ora riversati nella sezione di “Città Futura on-line” che li contiene – La filosofia del socialismo – costituisce il semilavorato, e anzi il “quasi lavorato”, di uno dei miei libri più importanti. Contiene infatti gran parte di quello che ritengo essere il mio pensiero filosofico e politico (sia che questo valga qualcosa, o valga poco, o magari non valga niente). Io, comunque, giunto a essere quasi ottuagenario (classe 1941), la penso “su tutto” esattamente come ho cercato di spiegare in questa serie di testi.

Naturalmente, pur ritenendo in gran parte qui espresso il mio pensiero, ci saranno diverse cose da modificare, se dovessi trasformare il tutto in un libro.

Il titolo stesso è provvisorio e lo cambierò di certo, mettendo in primo piano qualcosa che abbia a che fare con la ricerca della liberazione di sé stessi nella vita soggettiva e intersoggettiva, individuale e collettiva, nell’esistenza di ciascuno come nella storia. Questo è il problema, posto a livello di coscienza dall’idealismo e, a livello di esistenza collettiva, soprattutto dal socialismo, dal comunismo, e oltre (con particolare riferimento all’ambientalismo). Ma per ora il titolo generale della sezione può restare quello che è.

Inoltre ci sono intenti un poco mutati rispetto a quelli detti all’inizio (o meglio nei “pezzi” cronologicamente comparsi per primi, come quello su Marx e la religione come “oppio dei popoli”, del 28 dicembre 2019). E, infine, ci sono riferimenti a testi coevi che saranno o da sfrondare o da completare (ma poco).

La serie contiene pure una piccola discussione col mio stimato amico Giuseppe Rinaldi (innescata da un “Post” e interlocuzione cui qui risposi il 2 gennaio 2020, che suscitò un suo interessante articolo un tantino polemico, cui non risposi “esplicitamente”): discussione “inter nos” che in caso di pubblicazione dell’insieme o andrà in appendice o sarà richiamata in qualche modo idoneo a mettere in luce anche l’articolo da lui scritto su questi temi.

In gran parte però il presente lavoro è “fatto”, e per i miei ottant’anni forse mi piacerà “accasarlo”. Non sono sicuro. Vedrò.

Taluno potrebbe ritenere che si tratti di pezzi troppo vari. Invece io ritengo che – dati i “colpi di lima” cui ho accennato – il tutto risulti molto compatto: anzi, uno dei miei lavori di ampio respiro più compatti, ed espresso in una forma quanto più possibile colloquiale: il che mi sembra una “marcia in più”, su temi spesso complessi.

Infatti, se si prescinde dall’introduzione (Il punto di partenza, 28 marzo 2020), e dalla conclusione (questa “qui sopra”, di questo 15 ottobre 2020), si stagliano alcuni blocchi tematici talmente omogenei che penso di farne alcuni saggi unitari, trasformando i pezzi coevi, con variazioni minime – ho preso a farlo – in paragrafi “lunghi” di altrettanti capitoli specifici ampi.

Uno lo chiamerei ANTEFATTO IDEALISTICO, comprensivo degli articoli, visti appunto come lunghi paragrafi, seguenti: Io e Dio da Cartesio a Kant (6 aprile 2020); Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e in Schelling (14 aprile 2020); Dio nell’Uomo: l’Assoluto come Logos in cammino nell’idealismo di Hegel (22 aprile 2020).

Il blocco-saggio o capitolo successivo lo chiamerei MARX OLTRE MARX. Dico “oltre”, e non semplicemente “dopo”, Marx. Naturalmente – come sa chi ha letto – il discorso spazia sempre da Marx al marxismo e al socialismo-comunismo. Sarà comprensivo degli articoli, visti sempre come paragrafi, seguenti: Karl Marx e la religione come “oppio dei popoli” (28 dicembre 2019); L’idea del “paradiso in terra” nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 di Karl Marx (9 gennaio 2020); I misteri della dialettica in Marx: dal sogno religioso e idealistico della “vita beata” all’idea materialistica della rivoluzione per la società senza classi e senza Stato (15 gennaio 2020); Il proletariato secondo Marx (22 gennaio 2020, in riferimento a un titolo su CF più lungo, che però era quasi una breve sintesi dell’articolo e che per ciò abbrevierò nel senso or ora indicato); La transizione dal capitalismo al comunismo. Note sul proletariato e lo Stato in Marx (31 gennaio 2020); La transizione dal capitalismo al comunismo. Note su società civile, Stato e libertà in Marx (6 gennaio 2020).

Il blocco-saggio ulteriore lo chiamerei come già si chiama: MATERIALISMO E IDEALISMO NELLA STORA CONTEMPORANEA. (In riferimento all’impatto delle visioni del mondo sulla trasformazione del mondo stesso, con analisi tendente a dimostrare che in Europa occidentale e in Italia il materialismo è stato un fattore di sconfitta e non di vittoria della sinistra). Qui il riferimento va ai pezzi, con tale titolo comune, comparsi il 16 febbraio, il 22 febbraio, il 1° marzo, l’8 marzo e il 15 marzo 2020.

Seguirà un blocco-saggio molto vasto, che già nelle definizioni che ho dato è scandito in punti-articolo, semplicemente da specificare come i punti dell’Insieme: TRACCIATO D’IMPOSTAZIONE PER IL XXI SECOLO. Infatti era comprensivo dei seguenti sette punti, che scandivano i singoli articoli: 1) Idealismo “religioso” (1° maggio, 10 maggio e 18 maggio 2020); 2) La liberazione di sé (31 maggio 2020); 3) Cooperazione (21 giugno 2020); 4) Liberazione ecologica (9 luglio e 5 agosto 2020); 5) La governabilità dello Stato (16 agosto, 28 agosto e 9 settembre 2020); 6) La governabilità tra gli Stati (20 settembre 2020); 7) Rinascita ideale e politica dell’area democratica, socialista e ambientalista (29 settembre 2020).

Mi pare che basti.

di Franco Livorsi

  1. Siccome nel presente articolo provo a “tirare le somme” di quanto sono venuto dicendo in undici mesi, non appongo note, che generalmente rinvierebbero a testi già molto trattati in precedenza, che pure spesso cito – ma sommariamente . anche qui.

1 Commento

  1. grazie caro Franco di questa tua “Conclusione ” che s’intreccia con le mie riflessioni legate anche al pensiero di Panikkar e a quello della fisica quantistica: dalla visione meccanicistica dell’universo alla creatività della coscienza. Siamo co-creatori. Ecco le parole del Poeta Mario Luzi:
    Mondo, non sono circoscritto in me,
    hai voluto che fossimo ciascuno
    un progetto di vita
    nel progetto universale.
    So bene che dobbiamo mutuamente
    tu ed io crescere insieme –
    era scritto nella pietra
    del suo estremo miglio
    e ben dentro di sé. Amen.

    Mario Luzi, Sotto Specie Umana

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*