Il virus al tempo dei social

Per capire come Facebook e compagni hanno ridefinito il mondo – e la nostra mente digitale – basta provare a rispondere perché, soltanto quindici anni fa, della Sars non ci siamo quasi accorti. Si, un po’ di isteria collettiva, qui e là, non era mancata. E una stretta nei controlli agli aeroporti, con qualche precauzione in più per la Cina. Ma niente di lontanamente paragonabile all’intervento – è proprio il caso di dire – militare che i principali governi occidentali (ma anche la Russia) hanno dispiegato per il nuovo Coronavirus. E niente – ma proprio niente – di simile alle misure draconiane con cui le grandi multinazionali commerciali – da Ikea a Starbucks – hanno chiuso i battenti senza batter ciglio in moltissime città che da Wuhan distano migliaia di chilometri, mentre le compagnie aeree chiudevano letteralmente i cieli sopra Pechino. Per non parlare della cortina di ferro alzata intorno a un’area geografica che cuba un ventesimo del Pil cinese, segregando la popolazione nelle case, chiudendo fabbriche, trasporti, scuole.

La risposta è che nel 2002 ancora non c’erano i social. E l’altissima soglia di attenzione, informazione e disinformazione che nell’era dei social si registra di fronte a ogni fenomeno che genera qualche forma di allarme sociale. All’epoca della Sars eravamo ancora – con poche eccezioni – cittadini passivi. Una elite leggeva i giornali, il resto della popolazione si nutriva del flusso di notizie rilasciate a senso unico dalla televisione. Ci poteva convincere o no, ma non avevamo molte scelte. Visto che l’unica forma di protesta a disposizione era di scendere insieme in piazza. Col terrore del virus, anche no!

Oggi invece, con quasi tre miliardi di utenti Facebook e uno abbondante su Instagram, la reazione di massa è diventata un fenomeno a portata di click. Le masse si sono personalizzate. Ciascuno col proprio smartphone può diventare un agit-prop, un persuasore più o meno occulto o l’obiettivo di qualche manipolatore. Quando non succede niente, siamo comunque costantemente on-life. Figuriamoci quando ci sfiora il pensiero che sia in gioco la nostra vita. Non quella digitale, quella fisica. Di fronte a questa iperattività, al rischio che possa trasformarsi in un moto di protesta ingestibile, i governi e i giganti economici hanno un’arma – quasi – obbligata: giocare pesantemente d’anticipo. Mettere subito in campo tutte le misure che possono mettere al riparo – prima ancora che i cittadini – i responsabili della salute pubblica. Difendendosi dall’accusa di avere anche la minima percentuale di colpa se il virus ha viaggiato su un aereo, o ti ha incrociato a un tavolino di fast food.

Quest’approccio, negli ospedali e ambulatori, è già diffuso da tempo, si chiama medicina difensiva. Il ricorso a servizi aggiuntivi diagnostici o terapeutici non necessari (analisi, visite o trattamenti) con lo scopo di mettersi al riparo da eventuali azioni di rivalsa. Con la comparsa del primo virus social, la medicina difensiva ha fatto un – enorme – salto di scala. Così come un salto di scala inestimabile hanno fatto le sue conseguenze. Nel servizio sanitario ordinario, i costi di questo approccio iperprotettivo sono un problema ancora contenuto. Ma quale sarà il conto – e chi lo paga – di questa sindrome di prevenzione acuta che ha impattato così pesantemente in poche ore su interi comparti economici, aziendali, lavorativi? Tutti a commentare ammirati l’ospedale da diecimila posti costruito in soli dieci giorni. Ma quante migliaia di posti di lavoro sono saltati – e chissà se e quando torneranno – nello stesso lasso di tempo? E senza che ne accorgessimo o provassimo a valutarne le conseguenze.

Il dato, infatti, più inquietante non è l’ampiezza e l’immediatezza di un intervento di vertice globale che ha impattato – e continuerà a impattare a lungo – su milioni e milioni di vite. Ciò su cui dovremmo riflettere è la nostra silenziosa acquiescenza. Il fatto che siamo capaci di fare esplodere sul web la protesta più accesa e – spesso – più violenta se qualcuno ci tocca il leader o l’influencer. Mentre accettiamo supinamente che ci tocchino nel cuore delle libertà civili elementari per scongiurare una – potenziale – epidemia. Prove globali di contaminazione tra virale e virtuale. Per le nostre democrazie acciaccate, non sarà una passeggiata di salute.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 11 febbraio 2020).

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