Viva l’ignoranza!

«… in una cultura scientificamente sofisticata come la nostra, può essere pericoloso per i cittadini disinteressarsi della scienza, come lo è disinteressarsi dell’economia o della legge. E non si tratta solo di essere bravi cittadini: il fatto è che la scienza è semplicemente troppo interessante e troppo divertente per essere ignorata».

Stuart Firestein,Viva l’ignoranza! Il motore perpetuo della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 24.

Non stupisce l’opinione espressa, nel corso di una lezione tenuta nelle scorse settimane all’Università IULM di Milano, dal Direttore Generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi per il quale “…il problema del Paese è «strutturale» ed è rimasto irrisolto da 25 anni. Quello che deve preoccupare non è il rallentamento momentaneo, ma la produttività stagnante”. Stupisce invece come quell’opinione sia stata sintetizzata con il titolo: “Rossi: la poca produttività ci rallenta” (Corriere della Sera di giovedì 7 marzo). La scelta di quel titolo non solo non dà conto di ciò che il Direttore Generale della Banca d’Italia intendeva correttamente sottolineare, vale a dire che “occorre produrre in modo efficiente e tecnologicamente avanzato”, ma lascia intendere che la “produttività stagnante” sia la causa della bassa crescita dell’economia italiana, una tesi peraltro condivisa da molti osservatori. Ho buoni motivi per ritenere vero l’esatto contrario. Cerchiamo di capire perché.

In quindici anni di insegnamento dell’Economia dello sviluppo ho avuto modo di approfondire sia il tema dello ‘sviluppo economico’, il filone di studi che pone al centro dell’attenzione le varie fasi in cui si manifesta il passaggio da una economia “arretrata”, caratterizzata dalla prevalenza del settore agricolo, ad una che progressivamente diviene prima industrializzata e poi terziarizzata, sia quello della ‘crescita economica’, quell’altro filone che cerca di fornire una spiegazione a due distinte questioni: “perché le economie crescono nel tempo” e “perché alcune crescono più di altre”.

Premesso che, come ci ha ricordato il grande genetista Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018) in L’evoluzione della cultura (Codice edizioni, Torino 2004) “…non si può mai dire se una teoria è vera, ma si può solo dimostrare che è falsa – fino a quel momento non diciamo che una teoria è vera, ma utile”, il nesso di causalità che va dalla crescita della produttività alla crescita dell’economia è stato messo in evidenza per la prima volta da Robert Solow, Premio Nobel per l’Economia nel 1987, in un saggio del 1956 divenuto giustamente famoso. Stando a questa interpretazione, il processo produttivo può essere inteso come la combinazione di due ‘fattori produttivi’, il «capitale» ed il «lavoro», unitamente ad un fattore residuale, la cosiddetta «produttività totale dei fattori», in seguito divenuta nota come «residuo di Solow»1, che sotto certe condizioni (in verità molto restrittive) sulla natura e sugli effetti del progresso tecnico, esprimerebbe il contributo del progresso tecnico allo sviluppo economico.

La prima critica alla «produttività totale dei fattori» quale misura di produttività è stata sollevata lo stesso anno del contributo di Solow del 1956 da Moses Abramovitz (1912-2000). A commento dei risultati di una ricerca condotta sull’economia degli Stati Uniti dal 1870, ebbe a definire la «produttività totale dei fattori» il contributo della “nostra ignoranza sulle cause dello sviluppo economico”. In effetti dai vari tentativi di individuare che cosa si celasse dietro il “Residuo di Solow”, ha preso l’avvio un apposito filone di studi della cosiddetta “Contabilità della crescita” che ha posto al centro dell’attenzione il “perché i tassi di crescita differiscono tra le diverse economie”, un filone di studi al quale hanno apportato il loro contributo autori come Angus Maddison (1926-2010) e lo stesso Abramovitz.

Tuttavia, le critiche più consistenti alla teoria di Solow della “funzione di produzione aggregata” si possono far risalire a Nicholas Kaldor (1908-1986) e alla sua scuola. Kaldor, uno dei più importanti economisti keynesiani, ha dedicato infatti gran parte della sua produzione scientifica (non senza un qualche successo2) ad evidenziare i limiti del modo di concepire il progresso tecnico come un fenomeno essenzialmente ‘esogeno’ (‘una sorta di manna caduta dal cielo’), contrapponendo una concezione del flusso delle innovazioni (il progresso tecnico) come generato all’interno della produzione (ossia ‘endogeno’) che viene veicolato all’interno del processo produttivo mediante l’acquisto di nuovi beni di investimento. Ora, poiché le imprese effettueranno nuovi investimenti se hanno aspettative circa l’aumento della domanda per i loro prodotti, ne consegue che la crescita della produttività del lavoro a seguito del progresso tecnico sarà da imputare all’aumento della produzione e non viceversa. Dure critiche, infine, alla teoria della “funzione di produzione aggregata” sono state mosse da due economisti della scuola kaldoriana, Jesus Felipe e John McCombie, i quali, nel capitolo conclusivo di un loro recente libro, si chiedono il “Perché le critiche alla funzione di produzione aggregata siano così generalmente ignorate”.3

Si deve poi allo stesso Kaldor la riproposizione e la diffusione di quella relazione empirica tra la crescita del PIL e la crescita della produttività del lavoro, divenuta nota come «legge di Verdoorn-Kaldor», stando alla quale il nesso causale va dalla prima alla seconda e non viceversa. L’ipotesi che sta alla base di questa interpretazione trova spiegazione nel fatto che i settori produttivi non hanno tutti la stessa importanza. Ciò in quanto, sempre secondo Kaldor, a differenza degli altri settori, la produzione manifatturiera è caratterizzata dalla presenza dei cosiddetti “rendimenti crescenti” (le risorse impiegate in quel settore inducono una crescita più che proporzionale della produzione), ragion per cui il settore manifatturiero sarebbe il «motore dello sviluppo economico». La sua crescita, infatti, favorisce i rapporti tra le imprese; agevola la formazione di distretti industriali (aree a forte specializzazione e integrazione verticale nelle quali anche la componente della motivazione sociale gioca un ruolo rilevante); rende possibile la conquista di nuovi mercati di esportazione; contribuisce alla diffusione del progresso tecnico e all’acquisizione di nuove conoscenze e, infine, agevola il riassorbimento della disoccupazione tecnologica, contribuendo in tal modo ad attutire le tensioni sociali.

Ignorata dalla maggior parte degli economisti neoliberisti, la «legge di Verdoorn-Kaldor» è stata oggetto, nel corso degli anni ’80 del Novecento, di un vivace dibattito tra gli economisti di matrice anglofona, dibattito del quale si è dato conto, unitamente alle ragioni teoriche che sottostanno a quella relazione empirica, in un volume curato oltre che dal sottoscritto, da John McCombie e da Maurizio Pugno4.

Va da sé che se è la crescita economica a far aumentare la produttività (e non viceversa), occorre concentrare l’attenzione su quali forze la alimentino, ma questo è un altro filone di studi del quale peraltro ancora una volta si è fatto pioniere Moses Abramovitz, il quale, nel tentativo di fornire una spiegazione al perché alcuni paesi dell’America Latina, che sul finire dell’Ottocento e primi anni del Novecento rappresentavano l’Eldorado per l’emigrazione europea, a partire dal secondo dopoguerra siano stati caratterizzati da un processo di declino economico che pare inarrestabile, ha elaborato una teoria cosiddetta del Catching Up, che spiega in maniera convincente il processo di «inseguimento, avvicendamento e arretramento» delle singole economie.

Mi fermo qui, per non tediare inutilmente il lettore. Chissà se di fronte a queste argomentazioni il Sottosegretario del Ministero dell’Economia e delle Finanze Laura Castelli mi risponderebbe con le stesse parole rivolte all’ex Ministro Pier Carlo Padoan. Viva l’ignoranza! Il motore perpetuo della Scienza.

1 L’interpretazione del «residuo di Solow» quale misura della produttività possiede un certo fascino analitico, basti pensare che ancora recentemente l’ISTAT vi ha dedicato uno dei suoi Rapporti mensili. Si veda il Rapporto ISTAT del 2 novembre 2016, ‘Misure di produttività’ (1995-2015).

2 Tant’è vero che, in un suo libro dedicato ad una Esposizione della sua Teoria della crescita (ISEDI, Milano 1970), lo stesso Solow ha riconosciuto la validità di quelle critiche ed in un suo più recente contributo (Lezioni sulla teoria della crescita endogena, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994), ha preso definitivamente le distanze dal filone di studi delle più recenti “Teorie della crescita endogena”, nel frattempo sorto sulla scia dei lavori dello stesso Solow.

3 J. Felipe e J. McCombie, The Aggregate Production Function and the Measurement of Technical Chang. Not even Wrong, Edward Elgar, Cheltenham, UK 2013.

4 Productivity Growth and Economic Performance, Edited by J. McCombie, M. Pugno e B. Soro, Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke, Hampshire (UK), 2002.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*