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Il "Fare anima" del Mondo
Franco Livorsi
Il libro di cui mi appresto a discutere[1] – “Nei luoghi del fare anima. Dimensione immaginale del processo terapeutico”, di Riccardo Mondo (Magi, Roma, 2012,  pagg. 144, E. 18) - ci fa ben comprendere il forte legame dell’autore con Hillman, evidente sin dal titolo e sottotitolo. Infatti com’è noto, e da lui espressamente spiegato in “Saggi sul Puer” (1975, ma Cortina, Milano, 1988), Hillman aveva assunto come formula di sintesi della sua psicologia archetipica un passaggio di una lettera del 1818 del poeta Keats: “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che serve il mondo”. L’eco di ciò si fa sentire in Mondo sin dal titolo del libro. Ma si sente pure nel sottotitolo, dal momento che la psicologia archetipica non concerne tanto l’”interpretazione” dei sogni (che, in forma più spirituale che in Freud, permane in Jung), bensì il libero immaginare su di essi, pregno della consapevolezza del fatto che non ne potremo venire totalmente a capo, poiché non comprenderemo mai compiutamente il loro sceneggiatore, l’archetipo o costellazione archetipica (inconsci per definizione) che li proietta nel nostro immaginario profondo, nella nostra vita onirica, tramite simboli “divini” e miti interiori: potremo però, se così posso dire, tenerli al caldo, e indurre il paziente a tenerli al caldo, e per ciò - affinché restino vivi e ci vivifichino - “svilupparli” con l’immaginazione, specie in analisi, arricchendo la nostra vita di sognatori.

Quello di Mondo è un libro facile all’apparenza, ma complesso e profondo nella sostanza. Siccome le unità che compongono il libro sono - considerate una ad una - semplici, solo vedendole tutte insieme alla fine esse ci danno tutto il loro senso intrinseco.
Il punto forte di Mondo, che è un fine intellettuale di vaste e meditate letture che si lasciano benissimo cogliere nel suo libro, è l’approccio sperimentale. Si nota, insomma, che c’è dietro al libro una grande ricchezza analitica “vera”, fatta di anni e anni di colloqui innumerevoli con i pazienti. Tutto ruota lì intorno, sia nella parte sui metodi che in quella sui casi, entrambe ricche - però sullo sfondo - anche di teoria junghiano-hillmaniana. I casi sono presentati un po’ di scorcio, il che da un lato fa talora rimpiangere una trattazione più ampia laddove uno “si ritrovi” di più (e nell’uno od altro “caso” trattato gli capita di certo), dall’altro risulta molto efficace, per la galleria di tipi che mette in mostra, in termini di comunicazione - direi quasi didattica - nulla concedendo alle divagazioni. Nell’insieme Mondo riesce a darci una visione sperimentale della psicologia archetipica: il che forse non è il punto forte della tendenza in questione (spesso “filosofica”), e per ciò è tanto più apprezzabile.

Vorrei provare a unire il momento teorico e clinico come sono trattati da Mondo. In primo luogo viene confermata la relazione tra inconscio collettivo e coscienza. Su ciò i risvolti possono essere tragici, nel mito archetipico come nel vissuto. Penso ad esempio ad alcune considerazioni di segno archetipico sulle “Baccanti” (406 a.C., in: “Tragici greci”, a cura di Raffaele Cantarella, Mondadori, 1992) di Euripide, il grande autore che ci ha dato una tragedia incentrata su Dioniso. Ora si sa che Dioniso, o Bacco, è il dio dell’ebbrezza, o della cieca vitalità scatenata, ossia della volontà di vivere allo stato puro, intesa come l’essere, in greco l’òn (ossia ontologicamente). Perciò spesso Dioniso è stato considerato il dio pazzo, espressione di irrazionalità scatenata.  Ma la follia – spiega bene Mondo usando “Le Baccanti” come esempio - si manifesta non a partire dalla sacralizzazione degli istinti vitalistici (alias dell’inconscio collettivo), ma in seguito al conflitto mortale con tale dimensione da parte di una coscienza tirannica, nella tragedia rappresentata dal tiranno contrario al dio, Penteo. Con l’inconscio istintuale, con l’Ombra, ci dice lì e altrove Mondo, si deve necessariamente scendere a patti; se si pretende di trattare l’inconscio, ossia la pulsione (o la pulsione divinizzata, Dioniso), da gran nemico, da irreggimentare con le buone e con le cattive, l’inconscio romperà le chiuse della coscienza e la sommergerà, talora facendoci impazzire (pp. 60-62). La follia non è insomma la causa, ma l’effetto della psiche scissa, spaccata in due come un melone invece che unita come una sfera.

Talora però la relazione devastante non viene dal nostro inconscio, o dalla nostra coscienza verso l’inconscio, ma da un inconscio a noi più contiguo, familiare, come qui capita alla paziente chiamata “Irene”, vittima di una madre posseduta dall’archetipo della Madre terribile o distruttiva, “una femmina primitiva centrata sulla propria vita pulsionale, incapace di favorire l’evoluzione dei propri figli verso l’autonomia” (pp. 77-80). Questo è un po’ il caso che Hillman chiamava della “cattiva ghianda”, che invece di voler diventare una bella quercia tende alla distruttività, lì in Hillman di sé (“Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino”, 1996 e Adelphi, 1997), e qui della figlia: “L’immagine è arcaica, presenta una femmina primitiva centrata sulla propria vita pulsionale, incapace di favorire l’evoluzione dei propri figli verso l’autonomia. Un proverbio siciliano recita: u malu alvuru sa risucca i frutti. Dall’albero malefico ogni frutto maturo non si stacca, viene risucchiato dalla pianta che se ne nutre (p. 79).”
Ma la situazione analitica più tipica è naturalmente quella che ha a che fare con l’archetipo dell’Ombra, il nostro lato oscuro - quale esso sia per ciascuno di noi - che compare per primo in ciascuno, come il Negativo inconscio suo proprio, archetipico della sua libido, che lo attrae come il male suo proprio e al tempo stesso lo minaccia. Qui la cosa è molto interessante in riferimento a “Lisa”, la “raffinata single”, vissuta in modo libertario, madre mai sposata e donna emancipata, che a un certo punto vorrebbe mutare radicalmente la propria vocazione-destino negandosi, ma che Mondo rifiuta di aiutare in questo processo di autonegazione, proprio in quanto “Per sottrarsi alla dominanza della nostra ombra psichica dobbiamo riconoscerne la potenza e giungere a un patteggiamento. Si giunge così all’assunzione del senso tragico dell’esistere. Il tragico come categoria ontologica, si esprime come contrasto tra volontà e destino, tra libertà e necessità; è questo il conflitto maggiore, quello che opprime ognuno di noi (p. 101)”.
La questione della sintesi delle due parti speculari della personalità pone, naturalmente, un problema vuoi relativo al rapporto tra l’inconscio e la coscienza, vuoi sul senso stesso della cura analitica. L’impostazione caldeggiata, come in tutto lo “junghismo”, vede l’inconscio non già come area da colonizzare mediante la coscienza, ponendo essa laddove c’era stato inconscio, come diceva Freud nell’”Interpretazione dei sogni” (1899 ma 1900, in “Opere”, I, Bollati Boringhieri, Torino, 1966), bensì come dimensione reale in sé e per sé: non mero o prevalente frutto del rimosso. Si tratta di un inconscio con cui interloquire senza l’illusione, che oltre a tutto potrebbe avere conseguenze devastanti per la psiche, di sottometterlo. L’inconscio diventa fonte di grave disagio psichico se in noi esso sia umiliato e offeso invece che ascoltato a partire dal suo essere, ossia dall’abissalità dei suoi archetipi. Ossia, come dice Hillman in “Fuochi blu” (1989 e Adelphi, 1996), qui citato, “l’anima è costretta ad ammalarsi sempre di nuovo, finché non ha ottenuto ciò che vuole” (p. 55). Il disagio dell’anima notoriamente si esprime pure con vistosi risvolti fisici, come tic o forse certi mal di testa troppo ricorrenti, detti “sintomi”, che somatizzano il radicale male di vivere (pp. 53-55). Si tratta dunque di far pace tra coscienza e inconscio, innanzitutto. Ma siccome le due parti da conciliare o anche sintetizzare resteranno due, non foss’altro che per l’abissalità in sé e per sé degli archetipi – del tutto inconsci nella loro essenza - intorno ai quali ruota la nostra vita psichica, l’analisi stessa è idealmente interminabile. In ciò come già per Freud. Ci si può allora interrogare sul senso della cura, qui individuato non tanto nel guarire quanto nel “prendersi cura”, e inoltre nell’accompagnare un processo di trasformazione di sé da parte del paziente. Su ciò Mondo fa un’osservazione molto toccante: “Mi dà soprattutto la speranza d’essere utile, osservando lo sguardo altrui illuminarsi, il dolore allentare la morsa, divenendo sopportabile, mentre avverto che nella nostra relazione qualcosa di indicibile è accaduto” (p. 37).

Pure interessanti sono diversi dettagli o consigli di tecnica analitica, quali: la necessità di un atteggiamento di ascolto partecipativo, ma non invasivo; l’importanza di non forzare il paziente ad andare “al sodo” anche se il punto chiave sia già stato intuito da chi analizza, adeguandosi ai tempi di maturazione del paziente, ossia alla necessità di rispettare l’istanza della “complicatio”; e soprattutto la necessità di evitare assolutamente di egemonizzare – coscientemente o meno – l’anima del prossimo, in fondo plagiandola. Su quest’ultimo punto Riccardo Mondo fa un’osservazione legata al suo amore per il romanzo mitologico inventato da Tolkien “Il signore degli anelli” (1955, e Rusconi, Milano, 1970), a proposito del potente mago “buono” Gandar, che non vuole tenere lui stesso l’anello del potere universale, di cui teme l’attrazione demoniaca, ma lo lascia al piccolo onesto hobbit Frodo. L’hobbit, l’ometto fragile ma risoluto, protagonista della storia, non è dunque il Mago pur “buono”, nella metafora di Moro lo psicoterapeuta analitico, ma il paziente (p. 109).

Tra i casi esemplari trattati da Mondo quello più emblematico pare a me quello di “Clara”, la raffinata signora intellettuale che si è chiusa agli altri come in una fortezza e che ad un certo punto in sogno vede una fotografia giovanile che si anima sicché lei e tutti gli amici s’immergono in acque chiare (p. 133), e allora lei prende a parlare, finalmente libera dalla corazza impersonale (di ruolo): liberamente. Qui c’è un gruppo di pagine che varrebbe la pena di commentare parola per parola, anche in sede di didattica analitica (pp. 133-135).

Pure molto interessante è l’annotazione finale sulle resistenze all’analisi provenienti dall’esterno, da parenti che si sentono minacciati sia dal rapporto “segreto” tra analizzato (o analizzata) ed analista, e sia dal diventare “in-dividuus” del loro caro (o cara), in precedenza tristemente a disagio ma succube. “Non di rado - nota su ciò Mondo - le persone che giungono alla psicoterapia sono, rispetto ad altri soggetti del gruppo familiare, quelli che presentano un maggiore stimolo alla trasformazione di stantie abitudini. Questo può nei fatti rappresentare un rischio; essendo la psicoterapia un potente acceleratore di crescita psichica … (p. 139).” E ancora: “Il processo d’individuazione prima o poi solleverà lo scontro con le parti psichiche, melmose e insabbianti, del gruppo di appartenenza: l’individuo irrisolto è maggiormente manipolabile e quindi più aderente a soddisfare i bisogni del gruppo. Questa educazione all’individualità non deve essere confusa con un narcisistico individualismo, ma si esplicita nella terapia con una costante ricerca dialettica tra esigenze personali e collettive. Il ‘divieni te stesso’, caratteristico del processo individuativo, teorizzato da C. G. Jung, non esclude ma include il mondo (p. 140).”

Dall’insieme esce confermata l’idea della trasformazione psichica, anzi della “autotrasformazione” psichica come significato e fine dell’analisi, intesa come potente stimolo a diventare quello che nel profondo dell’anima si sia. E ciò spiega poi perché quest’”arte” analitica, così discussa e anche discutibile, dopo che è stata scoperta, pur essendo stata tante volte criticata sia sempre risorta dalle sue ceneri.  
                 (franco.livorsi@alice.it)


[1] Questo testo è ricavato dagli appunti per la presentazione del libro di Riccardo Mondo in oggetto, avvenuta presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica di Roma l’11 ottobre 2013.





 
17/10/2013 18:22:17
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