Molto probabilmente Marine Le Pen non aveva
previsto di poter avere un concorrente a sinistra capace di affermarsi nella
sua stessa fascia di elettorato e con gli stessi suoi cavalli di battaglia,
tranne quello dell’immigrazione. La novità rappresentata da Jean-Luc Mélenchon
al primo turno delle presidenziali francesi, in realtà, stupisce solo i
commentatori che continuano a ragionare in termini di bipolarismo tra una
sinistra definitivamente spostata al centro e una destra diventata estrema e
popolare.
Nessuno considera la presenza di un filone della
sinistra, fino a ieri minoritario, che ormai è in grado di capovolgere gli
equilibri. Una sinistra oggi in forte crisi, ma che già ha governato a lungo in
diversi Paesi sudamericani: Lula, Correa, Moráles, Chávez erano tutti esponenti
di forze minoritarie che a un certo punto, dopo un decennio di riforme ispirate
al liberismo in salsa latinoamericana, hanno saputo intercettare gli umori
popolari.
Una sinistra che in Europa ha avuto il suo primo
grande successo con la vittoria di Alexis Tsipras, nella Grecia fallita e
sull’orlo del collasso sociale. Una sinistra, quella di Podemos, che ha rotto
il bipolarismo spagnolo tra socialisti e popolari conquistando importanti città
e impedendo la nascita delle larghe intese. Una sinistra, quella dei Verdi di
Jesse Klaver, che ha contribuito a neutralizzare l’estrema destra di Geert
Wilders nei Paesi Bassi.
Ma il fenomeno non riguarda solo l’America meridionale
e l’Europa: nella corsa alle primarie per le ultime presidenziali negli USA,
l’outsider democratico Bernie Sanders aveva intercettato lo stesso malessere e
gli stessi elettori di Donald Trump, offrendo loro una prospettiva di sinistra.
Che cosa hanno in comune i leader e i soggetti
politici che spesso esulano dalla definizione tradizionale di sinistra? Sono
allo stesso tempo utopisti e pragmatici: spesso offrono soluzioni
irrealizzabili ai problemi, ma comunicandole come se fossero a portata di mano.
Sono tornati a occuparsi dei ceti popolari, cosa che la sinistra istituzionale
non faceva da decenni: sapendo che oggi i ceti popolari sono eterogenei sia per
interessi sia per provenienza etnica. Sono entrati nel cuore della guerra tra i
poveri, indigeni versus immigrati, individuandone la causa prima e proponendo
un fronte comune contro il potere: come alle origini del movimento socialista.
Parlano una lingua comprensibile: dopo anni di intellettualismi elitari, sono
in grado di farsi capire dal loro elettorato senza però cadere nella trappola
dei populisti di destra. Una destra che parla sempre peggio dei suoi elettori e
non si limita a rinunciare a educare attraverso la politica ma pare addirittura
contenta di imbarbarirla.
Questi nuovi movimenti di sinistra sono oggi in
crescita ovunque, ma non è detto che siano in grado di governare realtà più
complesse di una città o di un Paese marginale. Questo perché la loro forza
consiste nell’offrire come facili soluzioni che in realtà sono assai difficili
da realizzare. Mélenchon per esempio, oltre a prospettare l’uscita della
Francia dalla Nato, dal WTO, dalla Banca Mondiale e da tutti gli accordi
commerciali, propone la chiusura del mercato interno mediante l’imposizione di
dazi sulle merci in entrata. Un simile isolamento avrebbe costi molto alti per
una potenza globale come la Francia, che sarebbe ripagata con lo stesso
trattamento nei confronti delle merci e dei servizi che esporta.
Queste sono sicuramente suggestioni da campagna
elettorale, ma fanno comunque riflettere. Le sinistre vincenti di oggi,
ovviamente generalizzando, rinunciano alle riforme possibili per chiedere tutto
e subito, oppure fanno saltare il tavolo. Paradossalmente questa
radicalizzazione potrebbe accelerare e rendere più incisive le riforme
necessarie per salvare il sistema multilaterale e l’Unione Europea. I radicali
di oggi, insomma, sembrano avere il compito storico di risvegliare i riformisti
– quelli che si sono rassegnati all’idea che le cose non possano cambiare – e
di fermare l’avanzata delle destre estreme. Ma, come per gli aerei in partenza
imminente, si tratta dell’ultima chiamata per la politica tutta, prima che vada
in scena la fine di quel modo di convivere sempre più minoritario che i greci
chiamarono democrazia.