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Il futuro del centro-sinistra
Dialogo sul sistema politico italiano “in fieri”
Franco Livorsi

 

 E’ bello interloquire su “Città Futura on-line”, che è rimasto uno dei pochi luoghi di discussione tra famiglie diverse della sinistra, che solitamente sanno solo combattersi come cani e gatti (anche se pure noi civesfuturi, quanto a contrasti “in famiglia”, quando ci mettiamo non scherziamo). Nel giro di un mese in ben tre occasioni ho sentito risuonare, su questo nostro giornale on-line, l’antico “De te fabula narratur” di Orazio. Indirettamente o direttamente. Nel primo caso non ero citato, ma mi sono immedesimato nel contraddittore immaginario dell’autore (avesse o no il suo contraddittore un volto). Qui mi riferisco ad un molto divertente articolo del mio vecchio amico Nuccio Lodato, con molti interessanti spunti autobiografici e, direi, all’insegna del famoso motto del compagno Bartali “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” o, più classicamente, “O tempora o mores”. Dalla sua vasta riflessione, “Candidàti [o càndidati] alla carica di sindaco (e due sassolini elettorali)”, del 26 aprile, tralascio i molti spunti anche sottilmente ironici concernenti gli eligendi di giugno - tra cui però per me PD e Rita Rossa restano senza ombra di dubbio il meglio che sia proposto sul mercato della politica - per soffermarmi solo sulla forte opzione di Nuccio per la legge elettorale proporzionale (in cui ogni voto pesa per uno nel conteggio finale dei parlamentari, e il governo si fa dopo le elezioni): non senza evocazione - da  parte di Nuccio stesso - del famoso grido multiuso: “è la democrazia, bellezza!”. Eh, no, caro amico. In caso diverso Stati Uniti e Francia (repubbliche presidenziali) e Regno Unito (in cui vige il premierato basato sui collegi uninominali e sull’incarico al capo del primo partito, che poi avrà il potere di scegliere i ministri e pure di sciogliere la Camera, e di andare a elezioni quando vorrà), non sarebbero “democrazie”. Anche quelle sono “democrazie”, “bellezza”. L’inglese e l’americana sono liberali o democratiche da diversi secoli.

   L’amico Nuccio si toglie due sassolini: uno concerne un suo amico di Casale da lui votato, passato da SEL al PD (amen), ma l’altro concerne i sostenitori di sistemi con premio di maggioranza, cui rivolge l’interrogativo perentorio: “mi si spieghi perché la ‘legge truffa nel ’53 era truffa, e invece adesso è diventata dovere civico”. Presto fatto: la legge “truffa” non era “truffa”, tant’è vero che essa era più democratica di quella or ora invocata da Bersani a Pisapia passando per Franceschini, che chiedeva il premio di maggioranza dal 40 al 55% (là era dal 50, più un voto, al 65%) non necessariamente alla singola lista, ma alla coalizione dichiarata tra liste (che si presentassero apparentate). Tuttavia la proposta del ’53, pur non essendo “truffa” in sé, era “molto pericolosa”, e per ciò da respingere, a soli otto anni dal 1945, con quel popolo ancora poco democratico nell’anima, tra cui si aggiravano - come Nuccio ci ha ricordato in altro articolo - decine di migliaia di fascisti già “sparatori” (che avevano meno di trent’anni). L’idea di dare un premio del 15%, che portasse il 50 più uno % al 65% in quel clima, con quei trascorsi recenti, con tutti quei signori “in nero” e sparatori in giro (pure rossi), e con la Chiesa reazionaria di Pio XII che due anni prima aveva voluto l’alleanza tra DC e MSI a Roma (cioè in Italia), era un azzardo troppo rischioso. Ma che dopo settant’anni abbondanti dalla Liberazione la democrazia debba tenersi la proporzionale pura perché qui c’era stato Mussolini, o per paura di Baffone, per me è stravagante. So bene che ci sono anche fior fiore di docenti universitari da me massimamente stimati, come Gustavo Zagrebelsky - con cui a Scienze Politiche a Torino nel 1981 feci pure, come collega, un corso propedeutico - che sostengono la stessa idea proporzionalista pura di Nuccio. Ma Napoleone giustamente diceva che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali; e così le costituzioni per lasciarle fare ai professori costituzionalisti, che infatti poi le studiano e meditano, ma non le fanno mai. Ad esempio è vero che non c’è nessun sistema più rappresentativo, ossia democratico, del proporzionale, ma se produce ingovernabilità bisognerà tenerne il massimo conto. Non possiamo basarci su “scelte di gusto”, come al cinema. Altrimenti io ad esempio opterei oggi, al 100%, per l’anarchia solidale (più o meno alla Kropotkin). Dobbiamo badare alle conseguenze delle nostre scelte.

   La tesi proporzionalista è ribadita con forza anche in un post del mio vecchio amico Brunello Mantelli, con cui dialogo da cinquantadue anni, direi  nell’insieme con affetto e stima reciproci, pur con qualche asprezza a lunghissimi intervalli di tempo. Brunello - in un “post” al mio articolo “Renzi e le primare in Alessandria e in Italia” (qui, 2 maggio) - si mostra molto favorevole al sistema elettorale proporzionale, ricordandomi quanto si stia bene nei paesi che ce l’hanno dalla Germania alla Finlandia. E perché non qui? Why not? Ma, caro Brunello, perché noi siamo italiani e latini, con altra storia. Vedi che Angela Merkel è al potere in Germania da dodici anni consecutivi e probabilmente sarà rieletta per altri quattro. Vorrà pur dire qualcosa, no? Se noi adottassimo quel sistema, qui sarebbe senza gli anticorpi non solo etico-spirituali, ma istituzionali, che là ci sono. Tratti etico-spirituali: tutti quei paesi sono protestanti da secoli, abituati a confrontare la coscienza personale con Dio (o con se stessa quando abbiano smesso di crederci), da cinquecento anni, senza l’esercito di preti che col cancellino assolvono; e senza la doppia morale di noi latini, che a parte Giovanni Gentile e pochi altri, per fortuna non hanno mai creduto allo Stato etico (ma neppure nell’etica pubblica, purtroppo). E inoltre se dovessimo andare a vedere quei sistemi proporzionali in dettaglio, vedremmo che contengono anche tante clausole di salvaguardia che qui in quarantasette anni di proporzionale (1946/1993) non ci sono mai state e che nessuno dei proporzionalisti in campo oggi (dal principale, che è Berlusconi, a Sinistra Italiana), vorrebbe mai introdurre qui: tipo la germanica sfiducia costruttiva, con impossibilità di sfiduciare un governo se non ce ne sia un altro già pronto, e la clausola del 5% per entrare in Parlamento. Adesso il PD propone un sistema simil-tedesco, firmato dal renziano capogruppo alla Camera Ettore Rosato, ma sarà molto difficile che la “semplice” clausola del 5%, proposta dal neopresidente di Commissione del PD, Fiano, resti: perché vorrebbe dire liquidare Alleanza Popolare, Sinistra Italiana, il Movimento Democratico Progressista, Fratelli d’Italia, eccetera. E’ vero che questi gruppi potrebbero coalizzarsi (su un versante col PD, o almeno da Fratoianni a Pisapia, e sull’altro da Giorgia Meloni  a Matteo Salvini), ma poi per tante ragioni non riescono mai a farlo, e quindi lo sbarramento del 5% non lo vogliono (poi scende sempre al 3, che è tutta un’altra roba, perchè lascia il “veto” sui governi ai “piccolini”).

   Io, poi, ho ben presente, e tengo presente più di tutto, la storia del nostro Paese. Qui la proporzionale pura ci ha regalato 65 governi in settant’anni. (Ma anche la Francia “liberata” era come noi, sino alla svolta gollista del 1958, che per ironia “hegeliana” della storia è stata poi la via dell’alternativa di sinistra da Mitterrand in poi, anche se oggi questa è in crisi grave). Da noi la proporzionale pura è stata scelta per garantire governi deboli. Per evitare i rischi di golpe rosso o di golpe bianco nel ‘47/48. Poi non si è riusciti più a modificarla né in modo parziale né traumatico (finché nel 1993 perciò  è implosa una Repubblica). Dopo la morte di Moro (1978) quest’immodificabilità si è data non tanto per l’antica paura dell’”uomo forte” o “uomo solo” al comando (ormai risibile a democrazia consolidata), quanto per i reciproci veti. Questi durano.  “Se il doppio turno, che proponevamo da quarant’anni, lo proponi tu, allora non mi va bene. E così l’abolizione o la sterilizzazione politica del Senato. E ogni cosa insomma, compreso il 50% di collegi con il maggioritario, e domani anche col 50% di proporzionale anche se tu mettessi una preferenza nei collegi con la proporzionale. Ci siamo capiti. L’importante è che tu ti tolga dai cabagigi, perché il problema sei proprio tu.”

   Ci sarebbe poi da fare tutta una riflessione per vedere come arrivano le dittature di destra (oggi le democrature, le democrazie dimezzate, con rischio che arrivino poi le dittature “vere”). Ad esempio il passaggio al sistema proporzionale nel 1919 (in Italia, sotto Nitti), dopo innumerevoli decenni di maggioritario di collegio (seppure sino al 1913 a suffragio limitato), fu un coefficiente importante, sebbene non unico né decisivo, della crisi dell’Italia liberale culminata nel ’22 nel governo Mussolini. Comunque in linea generale io sostengo che i regimi autoritari o semiautoritari non vincono praticamente mai per “virtù propria” - come direbbe Machiavelli - ma grazie alle sconfitte altrui, ossia a causa dell’incapacità della parte contraria di fare, a modo suo ma fermamente, cose attese come il pane da immense masse di cittadini. Ad esempio il vero incubo di Mussolini nell’ottobre 1922 era il ritorno di Giolitti alla testa di un governo di grande coalizione, “forte”, ossia di colui che nel Natale di sangue del ’20 aveva sloggiato l’uomo-mito D’Annunzio e i suoi legionari a cannonate da Fiume; insomma, temeva il governo forte liberale invece che fascista (ma i suoi avversari erano troppo fessi per capirlo). Inoltre, a furia di spingere la gente a essere schifata, spesso per motivi veri grossi come grattacieli, ma molto spesso anche in riferimento a manchevolezze penalmente irrilevanti ingigantite dal continuo martellamento (oggi televisivo), non ci si deve stupire se poi sorge, tra le grandi masse, il bisogno del “salvatore”, che è tornato ad aggirarsi sulle strade del mondo, mettendo a rischio la democrazia.

  Per ora in Occidente è andata benino. La testa non ce l’hanno rotta. Gli anticorpi delle democrazie sembrano reggere. Forse Trump verrà mandato via per impeachment , dopo essere stato stoppato in tante scelte fascistoidi gravi dal potere giudiziario e da quello legislativo. Macron ha vinto, in Francia, al secondo turno, nonostante la cecità dell’estrema sinistra di Melenchon che gli ha negato il sostegno aperto persino “in extremis”, rischiando di far vincere il Front National di Marine Le Pen. Per un pelo un verde ha vinto su un mezzo nazista in Austria. E così via. Però è ormai un fatto che i movimenti della destra estrema hanno acquisito basi di massa, come mai era accaduto dal 1945 in poi. Perché rischiare? Non è saggio puntare sul tipo di forza democratica che dappertutto li sbaraglia? Anche se questa forza è più riformista di centro che riformista sinistra (io preferirei “riformatrice” perché la camicia “riformista” mi sta stretta persino ora)?

 

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Il mio articolo del 2 maggio “Renzi e le primarie in Alessandria e in Italia” ha avuto l’onore di commento in forma di lettera-articolo a me rivolta pure da parte di Carlo Viscardi. Tralascio alcune perle, come quella per cui metà dei paesi del mondo sarebbero dittature e l’altra metà a rischio di diventarlo: Cina a parte, la dittatura non mi pare certo la tendenza dominante. E’ vero che Russia e Turchia sembrano un annuncio forte di fascistizzazione della democrazia, ma in contesti in cui dispotismo, dittatura e governi militaristi sono di casa da tempo immemorabile. Taccio pure sul carattere superato - secondo Viscardi - della distinzione tra destra e sinistra. C’è del vero (ha perso la sua nettezza ideal-tipica “bobbiana”), ma al tempo stesso non si può non vedere che il nazionalismo “sovranista”, che è destra purissima, non era mai stato così forte a livello planetario dopo il 1945. Invece m’interessa il giudizio, pure un po’ spiccio, di Viscardi, sul carattere “partitico” che avrebbe la mia analisi. Potrei cavarmela molto facilmente ricordando che io NON sono mai stato iscritto né al PD né a SEL. Dal 1991 non ho più voluto avere tessere in tasca, anche se al tempo della grande crisi della prima Repubblica avevo sperato nell’unione socialista di tutta la sinistra e anche se Renzi ha acceso in me una nuova speranza. Ma il “renzismo” potrà realizzarla – questa speranza - solo se i suoi avversari non riusciranno a tornare al proporzionale. Se a ciò Renzi stesso, ad esempio per intoppi al Senato, si arrendesse – sia detto qui chiaro e forte - per me potrebbe andare alla malora anche lui col suo PD. Il “proporzionale”, infatti, ci farebbe tornare … al 1948. Ma questa volta questo sarebbe annuncio di rovina politico-economica del Paese (Michele Salvati mi pare il solo che, sul “Corriere”, l’abbia spiegato bene).

   Infatti quel che ha consentito al Paese di funzionare abbastanza bene dal 1946 al 1993 (in realtà solo sino al 1978), nonostante la proporzionale pura, e sia pure dissestando in modo stratosferico le casse dello Stato, sono state due condizioni oggi totalmente inesistenti.

   La prima era la Repubblica dei partiti (come la chiamava Pietro Scoppola). Questi partiti non sono stati spazzati via dal maggioritario o dall’elezione diretta del sindaco, ma perché da anni e anni erano marci, sicché non appena la magistratura, approfittando della loro crisi estrema, nel 1993 si è svegliata, e non appena il preteso pericolo comunista è cessato da Berlino a Vladivostock, la gente ha cacciato via TUTTI quei partiti a calci nel sedere come mercanti dal tempio. Oggi esistono solo come partitini, cui solo un pazzo potrebbe dare i poteri sullo Stato che avevano un tempo. Il PD è dieci volte più piccolo nell’Alessandrino che ai miei tempi il PCI; e gli altri “partiti”, finite le elezioni, spesso chiudono persino le botteghe. Se in una città come Alessandria si desse ai 300 del PD il potere che una volta avevano i 3400 del PCI, 30 persone, perché poi l’attivo è sempre dieci volte più piccolo (o fossero pure 50) si dividerebbero posti chiave in modo puramente oligarchico. E’ meglio che siano i cittadini a scegliere il sindaco, con tutte le conseguenze. E’ pure meglio il “sindaco d’Italia”.  

   L’altra condizione che una volta consentiva al proporzionale di essere “nonostante tutto”, efficace, era un assetto il cui plinto permanente era la Democrazia Cristiana: potere democristiano durato dal 1945 al 1993 perché l’opposizione fondamentale, la forza potenzialmente alternativa alla DC, non era incarnata da un grande partito socialdemocratico europeo, ma dal PCI (per cui i russi furono sempre “compagni”, e più affidabili degli americani). Il PCI, nel mondo dei blocchi, non poteva succedere alla DC senza ingenerare la crisi del sistema. (I primi a saperlo erano Togliatti e Berlinguer, che infatti miravano non a scalzare la DC, ma a governare con essa).

   L’idea di fare la proporzionale pura senza nessuna delle due condizioni richiamate sarebbe l’anticamera della crisi di tutto il sistema e per ciò della dittatura o “democratura”. No, grazie.

     Il tutto si riverbera sulla questione della forma-partito che si dice democratica in senso progressista, ma senza dirsi espressamente né socialista né comunista. Stavo ancora a Torino, dove mi ero trasferito nel 1985, quanto tanti anni fa mi telefonò Viscardi per farmi aderire ad Alleanza Democratica in Alessandria (dov’ero sempre “di casa”). Era il 1993. Gli dissi, al pari del mio amico Giorgio Canestri, lui pure ex psiuppardo e lui pure consultato da lui, che io avrei potuto aderire solo ad un’Alleanza Socialista (e non solo “Democratica”). Per Viscardi questo era “novecentesco”. Benché AD in Alessandria avesse come portavoce quello che in questa città è stato il mio migliore amico, Luciano Stella, dissi di no. Per me era storia vecchia. Intorno al Sessantotto (per l’esattezza dal ’62 al ’71), come tanti, avevo creduto che una rivoluzione democratica ma socialista fosse in cammino nella storia: potere dei lavoratori nelle fabbriche e governo dei partiti dei lavoratori nello Stato (per me). Poi, mentre dal ’72, sciolto il PSIUP, ero nel PCI (sino allo scioglimento del 1991), Berlinguer riprese la linea di Togliatti aggiornandola, proponendo un “compromesso storico” in specie tra PCI e DC, con il PSI come terzo (più o meno incomodo). Ci credetti poco. Nel ’78 Moro fu assassinato delle Brigate Rosse. Capii che il compromesso storico era morto. Allora sostenni che sinistra e Repubblica avrebbero potuto salvarsi solo unendo la sinistra sotto le bandiere del socialismo nella democrazia di tipo europeo, mandando per ovvia conseguenza i Paesi pseudo-socialisti e dittatoriali alla malora (finché erano tali). E creando così la condizione per l’alternativa di sinistra al sistema di potere democristiano (e dei satelliti). Non fu fatto: la seconda cosa fu cominciata del 1981 (il cosiddetto “strappo”, pur tardivo, del PCI dall’URSS), ma poi, con Gorbaciov, il PCI tornò filosovietico (i sovietici per esso furono sempre “compagni”, e lì “nessuno” negava che in URSS ci fossero le pretese “basi del socialismo”; non si poteva neanche dire). Sostenevo pure, specie dal 1989 n poi, che la nuova socialdemocrazia europea dovesse emulare la Francia, ossia la repubblica semipresidenziale, ma soprattutto il suo maggioritario a due turni. Anche la nascita del PD mi lasciò molto perplesso (come l’AD cara a Viscardi e anche a Stella). Perché – pensavo - fare un Partito Democratico e non fare un grande Partito Democratico Socialista da buoni europei?

   Può darsi che Viscardi intuitivamente abbia capito prima di me che non si poteva farlo, anche se mantengo la convinzione che avrebbe potuto farsi (persino dando uno sbocco unitario e di sinistra alla nostra grande crisi italiana, ma anche comunista e soprattutto socialista, di quel tempo); ma non fu fatto, né sull’humus dei grandi partiti storici della sinistra (PCI e PSI) né su quello della nuova sinistra. Non fu fatto e non è fatto. Ormai bisogna prenderne atto. Dopo un quarto di secolo o più.

   La conseguenza però è una democrazia che non può più poggiare sulla partitocrazia (come in ogni assetto proporzionale più o meno puro), ma sulla “democrazia del leader”, come in America e ora anche in Francia e come in Inghilterra (premierato). Insomma, volenti e persino nolenti (io non l’ho voluto sino al 2013, più o meno), non è più il leader, di ogni ordine e grado, dal sindaco del più piccolo Comune al vertice dello Stato, a ballare sulla musica del partito, ma è il partito a ballare su quella dei leader (appunto da quello del paesino allo Stato). La forma partito è necessariamente debole, non ci sono più né le grandi collettività unitarie dette classi né le grandi idee aggreganti (o non sono ancora rinate, in una forma necessariamente nuova, ad esempio rosso-verde, a livello di massa, purtroppo; ma non possiamo far finta che ci sia a livello sociale quel che vistosamente non c’è, confondendo la Storia con i nostri pruriti). Tale forma-partito oggi può solo essere un movimento d’opinione e un insieme di comitati elettorali che supportano la rappresentanza istituzionale. La forma partito serve ancora moltissimo, ma da supporto (mentre quelli che decidono “chi comanda” possono essere solo i cittadini). Come in America. A me non piace, ma l’americanizzazione è avvenuta. Già il PD, che assumeva come modello i Democratici (americani), e mimava e mima le primarie (americane), l’aveva compreso. A me non piaceva, ma ormai, salvo che nel Nord Europa, è così ovunque. Debbo riconoscerlo. Gli altri sono residui, più o meno nobili, in ogni campo (tipo SI a sinistra, Alleanza Popolare al centro o Fratelli d’Italia a destra, che per quanto “scontenti” cantano sullo spartito dei partiti di campo più votati). Lo scontro è tra democratici riformisti e destra moderata (finché lo sarà). Il fatto che la sinistra sia Democratica (perché non ha saputo e voluto essere socialista né innovare l’idea socialista, e neanche innovare il suo sindacalismo tradizionale), implica che in essa l’ala puramente democratica, il “centro” della sinistra – finché l’altra non maturerà – sia egemone nel centrosinistra. Sugli altri versanti le cose sono più complicate perché oltre al centrodestra da Berlusconi a Salvini e Meloni c’è il M5S di Grillo. Salvini, essendo il più forte del centrodestra, ha tutto il suo interesse ad avere un sistema almeno al 50% maggioritario, che gli consente di egemonizzare Berlusconi (Forza Italia), ora proposto dal PD; ma anche “da quelle parti”, fuori dall’orbita che ruota attorno al PD e al suo centrosinistra, il più forte alla lunga sarà il centro (in quel caso della destra). Berlusconi, per non farsi da parte, impedisce a un nuovo leader del centrodestra che sia centrista, come vorrebbe essere lui, di emergere. Ma la nuova legge elettorale, col maggioritario di collegio al 50%, lo costringerà ad allearsi con Salvini accettandolo come pifferaio o ad accettare primarie per un nuovo leader del centrodestra (una delle due cose le dovrà fare se avremo, o avessimo, anche solo il 50% di collegi di tipo maggioritario, com’è proposto ora dal PD).

   Ma c’è pure una terza possibilità, Mi sbaglierò ma nel futuro del Paese io vedo un centro riformista che incorpora ed egemonizza una sinistra riformista  (da Renzi a Pisapia) e un centro conservatore e populista, che ha lo stesso rapporto con la destra (da Grillo a Salvini e alla Meloni, e in cui “l’egemone” sarà il leader - a quel punto neocentrista e basta - a cinque stelle). Il tripolarismo per me prefigura un bipolarismo che nella parte di sinistra sarà egemonizzato dal PD (centro aperto a sinistra, in un unico contenitore o area) e nella parte di destra sarà egemonizzato dal M5S (centro aperto alla destra); con gli altri come soci di minoranza.

   Che le cose a sinistra siano andate così è colpa solo dell’incapacità di essere socialdemocrazia europea. Non l’hanno voluta, non l’hanno creduta, non l’hanno potuta, non sono stati capaci di farla, da Occhetto a Bersani. Nel 2013 sono finiti nel ridicolo, non potendo o sapendo fare né il governo né un presidente nuovo della Repubblica pur essendo il primo partito. Nel dicembre 2016 hanno dato un contributo decisivo alla sconfitta del referendum sulle riforme costituzionali proposto dal PD, che era il più importante da oltre trent’anni. E nel 2017 hanno addirittura fatto la scissione più assurda della storia della sinistra dal 1892: una scissione legata a date congressuali e soprattutto al ripudio di una singola persona (Renzi).

  Ma anche quelli non figliati direttamente, “per li rami”, da partiti tipo il  PCI non sono stati da meno. Guardate come la Liguria è stata regalata alla destra – per un seggio - dalle ripicche di un ex segretario della CGIL. Guardate il no al sistema tedesco modificato proposto in questi giorni dal PD, respinto da Bersani mentre Pisapia interloquisce positivamente con esso. A me, tra l’altro,  sembra del tutto ovvio che il solo leader unificatore in quell’area alla sinistra del PD sarebbe Pisapia, davvero erede del grande riformismo di sinistra lombardo e l’unico che abbia capito che col PD di Renzi ci si deve per forza incontrare a mezza strada (incontro-scontro): insomma, al di là delle parole, è il solo neosocialista in senso forte (e “Dio” gli dia salute, perché o con Renzi e pure “dopo Renzi”,e forse pure meglio di Renzi, è il solo grande leader possibile della sinistra unita, tra l’altro da posizioni da “sinistra inclusiva” che Città Futura ha scelto dall’inizio come suo humus e fine). Credete che Sinistra Italiana o il Movimento Democratico Progressista gli daranno una mano per realizzare a lato del PD renziano un partito a due cifre (diciamo del 10%), che sarebbe, quello sì, neosocialista, e non l’erede di Cossutta o Niki Vendola, ossia o del “komunismo” o di ogni sinistra delle cause perse? - Neanche per sogno. Non hanno neanche capito che l’idea di contrapporre Roberto Speranza (o Fratoianni) a Renzi, oltre a tutto avendo un Pisapia a disposizione (ma solo accettandone la “politica socialista”, ossia riformista di sinistra e necessariamente dialogante col PD di Renzi), è infantile.

   E dunque viva il PD e viva Renzi. Purché non tornino alla proporzionale pura pure loro, e tengano duro sul progetto  presentato da Fiano il 18 maggio: metà proporzionale e metà collegi maggioritari e sbarramento al 5% (speriamo). Per esso bisognerà avere candidati veri sia nei 315 collegi proporzionali (speriamo con una preferenza) che nei 315 di tipo maggioritario alla Camera e 150 al Senato, cioè gente capace di vincere sul campo e con buone garanzie di governabilità. Se accadesse almeno questo, in termini istituzionali potremmo dire che “’a nuttata” sta passando. Resterebbero gli immensi problemi economico-sociali, ma avremmo almeno il livello di governabilità indispensabile per affrontarli (invece di limitarsi a urlare sui tetti).

                                                                                                         (franco.livorsi@alice.it)

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