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Libri
Eva Cantarella: "La dolcezza delle lacrime"
Francesco Roat

 

Ci invita a riconsiderare Il Mito di Orfeo, Eva Cantarella, − come recita il sottotitolo del recente suo saggio, intitolato liricamente: La dolcezza delle lacrime (Mimesis, pp. 69, € 5,90) −, guardando al celeberrimo e mitico aedo tracio come all’inventore di quel canto: “grazie al quale la poesia acquistava un potere invincibile, che superava, vinceva e stravolgeva le leggi della natura”. Non a caso Orfeo era figlio della musa Calliope e forse non già del re di Tracia Eagro bensì del dio Apollo, che un giorno donò al futuro cantore una lira, a cui quest’ultimo aggiunse due corde e da cui ben presto seppe trarre melodie e armonie senza pari. Persino le fiere – narra Seneca − uscivano dalle loro tane al suono di una tale musica. Ma non basta; se prestiamo fede ad Apollonio Rodio, durante la spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, Orfeo fu in grado non solo di placare violenti marosi, ma fece persino tacere le Sirene, ammutolite dal suo canto.

Però Orfeo è celebre soprattutto per il suo tentativo di strappare agli Inferi la diletta sposa Euridice, uccisa in giovane età dal morso di un serpente. Inconsolabile − ci narrano Virgilio e Ovidio, ricorda la Cantarella −, l’aedo decide allora di scendere nel regno dei morti per riavere la consorte. Cerbero, il cane a tre teste guardiano dell’Ade, ammansito dal suono della magica lira fa passare il nostro vedovo affranto, che giunge presso i sovrani dell’oltretomba – Plutone e Proserpina −, i quali, commossi dalla supplica che Orfeo rivolge loro accompagnandosi con la cetra, concedono al cantore di riportare con sé tra i viventi l’amata. A una condizione, tuttavia. Egli camminerà davanti alla giovane, ma durante il tragitto dalle profondità ctonie alla superficie terrestre, non dovrà volgersi neppure una volta a guardare Euridice. È ben nota la fine della vicenda. Orfeo non saprà resistere a tanta prova: giunto sulla soglia dell’Ade indirizzerà lo sguardo verso la sposa, avido di riaverla, e così la perderà definitamente.

Questa la storia del tentativo di vincere la morte; sforzo vano che ovviamente vuol rimarcare l’ineludibilità dello statuto transeunte e precario proprio degli esseri umani. Quantunque, nota l’autrice del saggio, i miti greci trattino altrove di un’eccezionale resurrezione: quella di Alcesti, generosa moglie di Admeto, che scelse e ottenne da Apollo di morire in luogo del marito e alla quale fu poi concesso ritornare in vita – come sottolinea Platone nel Simposio – per la nobiltà del suo gesto sacrificale. Tutto il contrario della hybris/tracotanza di Orfeo che, da citaredo qual era, secondo il filosofo greco non avrebbe dovuto mostrasi così fragile e al contempo così presuntuoso.

In ogni caso, nel corso dei secoli innumerevoli volte il dramma di Euridice e del suo incauto sposo è stato rivisitato da poeti, prosatori, pittori e musicisti. Dal Poliziano a Rilke, da Monteverdi a Gluck, dalla Doolittle a Cocteau; ma sono anche tanti altri i nomi degli artisti e degli intellettuali che si sono misurati con questo mito. A tale proposito mi sembra opportuno ricordare il testo narrativo di Claudio Magris, Lei dunque capirà (Garzanti), splendida novella dolce-amara sull’amor coniugale: racconto tanto breve (giusto una cinquantina di pagine) quanto pregnante per intensità espressiva, tenuta narrativa e levità di scrittura.

Tornando al nostro saggio, Eva Cantarella – rifacendosi a L’inconsolabile-Orfeo di Pavese – s’interroga su quale sarebbe potuta essere una motivazione alternativa a quella tradizionale del volgersi da parte del cantore verso l’amata. E la trova (modernamente e disincantatamente) considerando quell’atto cruciale non certo istintivo/inconsapevole ma piuttosto volontario; dettato cioè dalla consapevolezza che la defunta rappresentasse una stagione della vita destinata a non più ritornare. Così, nel suo viaggio in quelle che si potrebbero interpretare come le profondità dell’inconscio, Orfeo era alla ricerca di sé stesso più che della definitivamente scomparsa Euridice.

In conlusione − prima di parlare del rapporto fra mitologia e storia, trattando del matriarcato secondo  Bachofen − l’autrice cerca di dare una risposta su cosa possa indicarci/insegnarci oggi questo intramontabile mito. Al di là, infatti, di varianti e significati simbolico-allegorici, un file rouge attraversa questa o quella versione: la magia potente del canto poetico, la sua forza impareggiabile. Giacché, è pur vero: “Gli esseri umani non possono vincere la morte, ma la poesia e la musica possono farlo e lo fanno. Poesia e musica sono immortali”.

07/08/2015 20:59:27
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