Si è prospettata
in questi giorni l’ennesima scissione nell’area
a sinistra del PD. SEL sta perdendo i pezzi, è riuscita a dividersi sul decreto
del governo Renzi riguardante gli 80 euro di riduzione delle tasse in busta
paga. Quella che sembrava essere la formazione politica alla sinistra del PD più
aperta, meno dogmatica, quella che aveva saputo fare meglio i conti con il «nuovo
che avanza», non ha saputo reggere all’impatto di un riformismo moderato come
quello di Renzi (un riformismo che peraltro è ancora tutto da valutare nella
sua capacità di essere conseguente ed efficace). Questa notizia ha seguito di
pochi giorni l’affaire Spinelli che
ha lacerato la coalizione elettorale della Lista Tsipras.[1] Si è trattato a
quanto pare di una storia di equivoci, poltrone, spartizioni, recriminazioni,
personalismi. Anche il precedente esperimento della lista di Rivoluzione Civile, riunitasi intorno
all’ex magistrato Ingroia, era evaporato ben presto tra molte polemiche. Tutto
ciò, anziché smentire, non fa che confermare un luogo comune. E cioè la tendenza a dividersi, che è ormai
universalmente considerata una malattia cronica dell’area collocata alla sinistra
del PD e che è ormai diventata un facile oggetto dei lazzi dei comici e delle
barzellette. Dove ci sono tre militanti di sinistra, ci sono almeno quattro
correnti. Siamo evidentemente – come avrebbe acconsentito anche Marx – alla
commedia.
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Di fronte al
recente inatteso successo elettorale del PD di Renzi alle elezioni Europee si
potrebbe ritenere che il destino di quest’area sia ormai segnato e sia cioè
quello di una progressiva perdita di significato e di peso politico e, dunque,
quello di una magari lenta ma progressiva sparizione. La nuova legge
elettorale, se e quando ci sarà, non mancherà probabilmente di dare una spinta strutturale
in questa direzione. Così deve avere pensato anche la frazione di deputati che
è uscita da SEL e passata al gruppo misto, forse con la prospettiva di entrare
nel PD.
Ci si può
tuttavia domandare se una simile prospettiva di sparizione sia un bene o un
male per il futuro della sinistra in senso lato, PD compreso. La nostra ipotesi
è che la sparizione dell’area alla sinistra del PD avrebbe almeno tre
conseguenze poco desiderabili: a) un
impoverimento del panorama politico dovuto alla sparizione di un’area
culturalmente vivace e creativa, seppure assai variegata e contraddittoria, di
un laboratorio di idee e di fermenti di cui ha sempre usufruito tutta la sinistra,
sempre in senso lato; b) la sparizione
della rappresentanza di molti elettori che comunque non avrebbero alcuna
disponibilità a dare il proprio consenso al PD e che verrebbero scaraventati
nell’area dell’astensione; c) la definitiva emarginazione
politica di vari strati sociali e movimenti, già peraltro emarginati, che
si rifanno a quest’area.
Ciò avverrebbe
in una situazione in cui il PD sta accentuando sempre più la sua configurazione
di partito personale, di orientamento pragmatico, in cui il dibattito culturale
è sempre più prossimo allo zero, dove al più si discute dei mezzi piuttosto che dei fini. In tal caso la presenza di un’attiva
e combattiva area plurale alla sinistra del PD potrebbe svolgere un’utile funzione
di laboratorio politico culturale, di elaborazione, di dibattito e sperimentazione.
Sono per altro quelle funzioni che Barca, in un recente documento, aveva auspicato
diventassero la prassi politica di base di un nuovo PD profondamente riformato
al proprio interno.[2] Qualche tradizione in questo senso si trova anche nella
storia di alcune delle attuali formazioni della sinistra. Per esempio, val la
pena di ricordare la famosa «fabbrica» di Vendola.
È chiaro
tuttavia che senza un profondo processo di
riaggregazione e ristrutturazione quest’area non potrà assolvere alcuna
effettiva funzione e sarà effettivamente condannata all’irrilevanza e alla
sparizione. Si potrebbe argomentare che se questo processo non è avvenuto finora,
in condizioni assai più favorevoli, non c’è alcun motivo di pensare che debba
avvenire in un prossimo futuro, in un contesto che sarà sensibilmente peggiore.
L’argomento in effetti non fa una grinza. L’unica speranza ormai è che il
pericolo incombente della sparizione possa fungere da spinta per il
cambiamento, anche se il cambiamento determinato da vincoli esterni spesso
finisce per essere più esteriore appunto che autentico.
.oOo.
Del resto in
proposito c’è un esempio a portata di mano. Le recenti elezioni europee hanno visto
all’opera la cosiddetta Lista Tsipras (L’Altra
Europa con Tsipras). Si tratta di un cartello elettorale nominalmente ampio
come non si era mai visto nel nostro Paese. Comprendeva infatti SEL, PdRC,
Azione Civile di Ingroia, la Lista Pirata e altre organizzazioni minori. Il
PdCI, dopo una iniziale adesione, si è tuttavia defilato. L’aspetto più significativo
è senz’altro il fatto che la Lista Tsipras sia stata promossa da un gruppo di
intellettuali dell’area della sinistra (Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais,
Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale), che poi l’hanno
anche di fatto egemonizzata nella stesura dei programmi e nella scelta delle
candidature. Ha goduto dell’attenzione di aree d’opinione come quelle de “il
manifesto”, di MicroMega, del Fatto Quotidiano, di talune organizzazioni
sindacali di orientamento radicale come la FIOM. Nel corso della campagna
elettorale la Lista ha raccolto la solidarietà di molte personalità dello
spettacolo, della cultura, del giornalismo.[3] Per la prima volta è accaduto
che le tradizionali organizzazioni dei partiti della sinistra abbiano condiviso
il campo con l’area di opinione e con gli intellettuali. Non a caso sono nati
problemi con il PdCI e si è sviluppata una questione di rappresentatività degli
eletti che ha visto contrapposti la Spinelli e i candidati esclusi. Il carattere
proporzionale delle elezioni europee unito ai contenuti prettamente politici
della consultazione avrebbero comunque consentito di saggiare la capacità di
impatto elettorale di quest’area ampia e variegata.
La valutazione
della prestazione elettorale del cartello è stata alquanto controversa. Alla
soddisfazione per il superamento della soglia di sbarramento del 4% si sono
contrapposte valutazioni negative circa l’ammontare dei voti ricevuti. Ad
esempio, ha scritto recentemente Paolo Flores d’Arcais con un piglio assai
critico: «Un anno fa Sel prendeva il 3,2 per cento e Rivoluzione civile
(Ingroia + Comunisti italiani + Rifondazione) il 2,25%. Il 4,03 della lista
Tsipras è perciò l’1,42 per cento in meno
delle percentuali raccolte lo scorso anno e considerate da tutti fallimentari.
In termini assoluti va ancora peggio: 1 854 420 lo scorso anno (senza la Val d’Aosta
che ha liste sue), 1 009 643 oggi (sempre senza la Val d’Aosta): un’emorragia
di 754 786 suffragi, il 40,7 del proprio (e già fallimentare) zoccolo duro. Nel frattempo, quasi metà dei voti del
M5S dello scorso anno hanno cambiato indirizzo, come evidenziato dalle indagini
sui flussi, mentre Renzi malgrado il vento in poppa non raggiunge i consensi di
Veltroni nel 2008, per non parlare dei milioni e milioni in più di renitenti
alle urne. Il potenziale reale per una lista di sinistra della società civile
era gigantesco, è rimasto invece al pugno di mosche».[4]
Sia che si
veda il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, è indubitabile che, anche alla
luce della recente scissione interna di SEL, il problema fondamentale di quest’area
è quella di riuscire a innovare la
propria cultura politica, consolidarsi
organizzativamente e contrastare le
tendenze alla frammentazione. Ciò implicherebbe tra l’altro passare dal
cartello elettorale a una forma di organizzazione
più matura. Si tratta di comprendere se tutto ciò sia realisticamente
fattibile.
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Tutto quel che
si può dire dell’area alla sinistra del PD, complessivamente considerata, è proprio
che attualmente si tratta di un’area e
niente più. La cosa davvero divertente è che non ha neanche un nome. Finora abbiamo dovuto usare la
circonlocuzione «a sinistra del PD». Se andate su Wikipedia a cercare qualche
ragguaglio troverete degli articoli assai imbarazzati, pieni di contestazioni,
dove si parla, senza alcuna chiara definizione, di sinistra radicale, oppure di
estrema sinistra o anche di sinistra antagonista e di sinistra extraparlamentare. Con tutti
questi termini si possono costruire le intersecazioni più strane. Per
convenzione, in questo articolo noi useremo il termine «sinistra» tout court, in modo da abbracciare tutta l’area alla sinistra del PD nel
modo più ampio possibile (questa scelta ha un qualche fondamento se consideriamo
il PD – com’è giusto – un partito di centro
sinistra). Si tratta comunque di un’area terribilmente eterogenea, sia dal
punto di vista delle culture politiche che dal punto di vista organizzativo.[5]
Poiché ormai la presa del Palazzo d’Inverno
non è più di attualità, poiché a tutti coloro che si collocano in questa area
non piace il riformismo renziano, posto che per costoro non sia una buona
strategia entrare in massa nel PD per rafforzare le sinistre interne (sono più
d’una anche lì,…), avrebbe senso per loro elaborare una piattaforma comune, un programma
di governo chiaro e distinto, un programma che sia tuttavia fattibile, per un riformismo più robusto
e più radicale di quello del PD. Su un simile programma sarebbe possibile fare
una campagna intensiva, nel «sociale», «tra la gente», chiedendo, alla fine, il
consenso degli elettori. Con un simile programma si potrebbe andare alla ricerca di alleanze allo scopo di
conquistare un ruolo nei governi locali e di portare avanti in parlamento
qualche significativa battaglia di civiltà.
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La
ristrutturazione che abbiamo prospettato non sarebbe del tutto impossibile
poiché, in effetti, al di là della marea di parole dei distinguo e dei gerghi,
quello che gira e rigira nelle analisi e nelle proposte che si fanno nell’area
ha molto in comune. Anzi, si ha l’impressione che i nuclei tematici, i
tormentoni, che ritornano, siano sempre
gli stessi. Fino alla noia. Fino a far sospettare che, al di là di pochi
stanchi motivi conduttori, quest’area abbia ben più poco da offrire. Se non
andiamo errati nell’area della sinistra ci sono almeno cinque motivi che ritornano con grande insistenza. Li prenderemo in
esame uno per uno, fabbricando ovviamente dei tipi ideali, ma sviluppando anche nei loro confronti una serie di
osservazioni critiche, allo scopo di evidenziare i loro punti deboli, quelli
che necessiterebbero di una migliore elaborazione, magari di un qualche aggiornamento.
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1) Una parola
d’ordine che ha molto successo nell’area è quella dei bisogni. Bisogna partire dai
bisogni della gente, si sente dire, sottintendendo che questo non è fatto
dal centro-sinistra. In genere ci si riferisce ai bisogni dei precari, dei
disoccupati, degli emarginati, di quelli che «non arrivano alla fine del mese»,
e così via. I bisogni tuttavia vengono spesso generalizzati, diventando così
una categoria bio-politica astratta, riferita agli esseri umani in genere,
indipendentemente da qualsiasi determinazione. Si tratta di dare voce ai bisogni
elementari di chiunque si trovi in una condizione di privazione (bisogno della casa, del lavoro, di assistenza medica,
di asilo, di cittadinanza, di espressione, di aggregazione). Tutto ciò si rifà
a una concezione, non certo nuova, secondo cui un cambiamento radicale del
sistema deve partire dai bisogni. Il sistema
tenderebbe a eludere i bisogni delle persone anziché soddisfarli, per cui la rivendicazione a partire dai bisogni,
lo scatenamento dei bisogni, avrebbe
di per sé un valore rivoluzionario. All’estremo, anche le forme di devianza, quali che siano, sono
interpretate come espressione radicale dei bisogni insoddisfatti.[6] Le diverse
forme di devianza che albergano nel «sociale» sono considerate come potenzialmente
antisistema e dunque guardate con simpatia, per le proprie potenzialità politiche.
Strategicamente, si pensa che il «partire dai bisogni» possa costituire un linguaggio unificante, dalla forza
ineluttabile, basato su ciò che è comune
per definizione, capace quindi di aggregare, passando di bisogno in bisogno,
una massa di opposizione sempre più grande.
Purtroppo
questa teoria è piuttosto semplicistica e finora non ha retto alla prova dei
fatti. I bisogni non sono mai oggettivi, sono sempre percepiti, interpretati,
filtrati. Possono essere indotti, possono essere soggetti a effetti curiosi,
come nel caso della privazione relativa.
Storicamente le macchine desideranti
all’opera possono avere ottenuto qualche successo locale, ma non hanno mai prodotto aggregazioni durature,
anzi hanno spesso prodotto ulteriori spaccature e frammentazioni. Accade che
chi si mobilita in nome di un bisogno impellente non si mobiliti mai per tutti
gli altri meno impellenti. In altri termini, dalle lotte per i singoli bisogni
particolari non si passa mai a un impegno politico di tipo universalistico.
Solo il disciplinamento dei bisogni, il loro inquadramento in un progetto universalistico
può portare alla politica, ma ogni sovrapposizione della politica viene considerata come un elemento repressivo, come un
incanalamento nel «sistema». Si tende in altri termini a restare in balia dei
bisogni, aspettando la radicalizzazione che verrà sicuramente dal peggioramento
della situazione.
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2) Un’altra
parola d’ordine è costituita dalla radicalizzazione
dei diritti. Il linguaggio dei diritti è antitetico a quello dei bisogni,
perché i bisogni sono tipicamente di carattere induttivo, mentre i diritti sono di carattere deduttivo. Siccome l’elenco dei diritti che vengono rivendicati è
molto lungo, e ogni giorno ne viene aggiunto qualcuno, è piuttosto facile
confrontare le più varie situazioni specifiche di privazione con l’elenco dei
diritti, per denunciare le inadempienze, per mobilitare gli interessati in nome
di qualche diritto. Ci sono almeno quattro varianti: i diritti già guadagnati che vengono tolti, i diritti nuovi che devono essere guadagnati, i diritti scritti (specialmente sulla Costituzione)
che non sono attuati e i diritti umani in generale che devono
trovare attuazione.
Fin qui non ci
sarebbe nulla di male. Ma la radicalizzazione dei diritti di cui stiamo parlando
va ben oltre la legittima battaglia che chiunque può intraprendere per l’affermazione
di un qualche diritto. Il fatto è che la rivendicazione dei diritti viene
spesso formulata in nome di un’etica dell’intenzione
e al di fuori di qualsiasi etica della
responsabilità. Tutto ciò si traduce nella proclamazione di una serie di rivendicazioni senza alcuna
fattibilità. Come quando si dice che poiché «siamo in una Repubblica fondata
sul lavoro» tutti devono avere un
lavoro. Questo rituale rivendicativo, più che a un effettivo allargamento dei
diritti, mira principalmente a produrre un atteggiamento di indignazione, a mostrare che il sistema
non è in grado di garantire diritti che proclama o scrive. Ciò finisce per
svolgere, nelle intenzioni, la solita funzione antisistema: mostrare che solo
cambiando radicalmente il sistema, si potranno avere i diritti che spettano di diritto.
Oltre agli
inevitabili scivolamenti retorici, la
lunga marcia attraverso i diritti va incontro a due scogli di cui spesso
non si vuol parlare: la legalità e la
fattibilità. Anzitutto, la
rivendicazione dei diritti implica spesso il
conflitto con i diritti di altri soggetti, con norme e leggi preesistenti:
le imprese non possono licenziare, la casa ce la prendiamo, sequestriamo i
dirigenti, entriamo illegalmente nel Paese, sabotiamo i cantieri. Secondariamente,
purtroppo, i diritti costano, cosa da
cui derivano ulteriori conflitti tra i soggetti dei diritti. Poiché le risorse
sono limitate, finanziare i diritti di alcuni significa subito togliere finanziamenti
ai diritti degli altri. Di fronte a questa obiezione il discorso viene di
solito archiviato facendo l’elenco di alcune spese statali palesemente inutili,
evocando l’evasione fiscale, oppure usando lo slogan secondo cui «i soldi si
prendono dove sono», oppure, nella versione più soap, secondo cui «anche i ricchi devono piangere». Del resto, qualunque
forma di razionalizzazione della spesa pubblica che miri a trovare risorse
viene accusata di voler infierire con dei tagli indiscriminati allo Stato
sociale. In fin dei conti questa tendenza ha sempre considerato gli sprechi e
la corruzione come fenomeni di routine,
e non come la principale causa dell’insostenibilità dello Stato sociale. Appare
chiaro che bisogni e diritti diventano, in questa prospettiva, solo due facce
della stessa medaglia, cioè l’espressione di una volontà «senza se e senza ma»
che non si pone particolari problemi di
fattibilità. Le macchine desideranti
sono sempre al lavoro.
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3) Un’altra
parola d’ordine, questa volta di ordine più metodologico, riguarda le nuove forme di democrazia. È una diretta
conseguenza dell’abbandono della dittatura
del proletariato della tradizione comunista, ma di una non ben chiara
accettazione della democrazia. In effetti tra tutte le culture politiche che
soggiornano nell’area della sinistra, brilla per la sua assenza proprio la
cultura politica della democrazia. Questo tipo di prospettiva passa per un’analisi
che dichiara finita la politica, finita la democrazia, finito lo Stato.[7] I
soggetti (variamente interpretati come lavoratori, gente, popolo, soggetti
devianti, soggetti desideranti, oppure titolari di diritti, corpi vitali, o
simili) non hanno altra strada che mobilitarsi e dare luogo a nuove forme alternative di partecipazione e di democrazia.
La strada è naturalmente quella delle aggregazioni «dal basso», a partire dai
livelli locali, per promuovere qualche tipo di autogoverno, anche se spesso si
opera in ambiti minimali. Il modello più caratteristico di questa strada per il
rinnovamento della democrazia è da molti considerato quello del movimento
NoTAV. In altri ambiti, sono stati fatti alcuni esperimenti come quello dei bilanci partecipati, che tuttavia non si
sono diffusi più di tanto. A livello accademico si sono discussi e talvolta
sperimentati diversi modelli di democrazia
partecipativa che tuttavia sono rimasti, appunto, a livello accademico.
Questi movimenti locali che rivendicano le nuove forme di democrazia tendono a
scivolare 1) verso movimenti single issue
(e quindi perdono qualsiasi capacità di essere dei movimenti politici in senso globale e
universalistico), oppure verso 2) movimenti
referendari (dove c’è senz’altro una caratterizzazione politica
universalistica, ma dove poi tutto si consuma nella battaglia per un referendum
– si è già costatato più volte che le aggregazioni talora assai ampie nate
intorno ai referendum non si traducono poi in alcuna continuità politica).
Il problema di
fondo di questo orientamento è che, dando per finiti lo Stato, le istituzioni e
la democrazia rappresentativa (in nome di un’altra ipotetica futura
democrazia) non si fa nulla per difendere e rafforzare lo Stato, le istituzioni,
la democrazia che ci sono e si
finisce, obiettivamente, sulla stessa linea di coloro che in questi decenni
hanno giocato allo sfascio istituzionale. Purtroppo in questo caso gli sfascisti di destra e quelli di sinistra
finiscono per coincidere davvero.
Sul fronte
sindacale ci sarebbe uno spazio straordinario per questo tipo di sperimentazioni;
una volta si parlava di democrazia
economica. Il problema anzitutto è che il sindacato italiano non è mai stato un campione di democrazia
interna effettiva e che, soprattutto nei sindacati più radicali (tipo
FIOM), internamente vigono ancora le pratiche cooptative della tradizione.
Secondariamente il sindacato italiano è tipico per non avere mai voluto
sperimentare nelle fabbriche forme di partecipazione
alla gestione. Per cui, fino a prova contraria, la sperimentazione di nuove
forme di democrazia, sul terreno della democrazia economica sembra davvero
preclusa. Sarà per questo che nel nostro Paese in genere si preferisce
rivolgersi alle valli di montagna o ai Consigli di quartiere per questo tipo di
esperimenti.
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4) Un’altra
parola d’ordine ancora riguarda le varie forme
di solidarietà. Poiché c’è la «crisi dello Stato sociale», poiché urgono i
bisogni della gente, giusti o devianti che siano, poiché il sistema toglie i
diritti alle persone, allora si tratta di fare
subito qualcosa, di organizzarsi per gestire
in proprio la soluzione di alcuni problemi. Qui le iniziative, spesso
lodevoli e interessanti, si moltiplicano, seguendo il filo dei bisogni e/o dei
diritti violati (dall’ospitalità nei confronti dei migranti, ai corsi di
alfabetizzazione, alle mense per i poveri, al riciclaggio di suppellettili
usate, alla creazione di opportunità di lavoro, fino agli asili autogestiti,
alle collette di viveri e medicinali, all’uso dei beni sequestrati alla mafia,
…). Questo ampio settore di impegno e intervento trova spesso collaborazione
con il mondo del volontariato e con il mondo cattolico impegnato sul fronte del
sociale. A questa stessa tematica appartiene tuttavia anche la sperimentazione di nuove forme di socialità, che si sono
diffuse soprattutto nei cosiddetti CSA e CSOA.
Accade
tuttavia che l’impegno in questo tipo di forme di solidarietà, quando ha successo,
finisca spesso per essere vissuto come impegno single issue e che raramente si traduca poi in politica, nei
termini più generali e universalistici. Spesso le sperimentazioni delle nuove
forme di socialità e di self-help diventano
del tutto autoreferenziali e finiscono per costituire delle forme di auto emarginazione
(come nel caso dei Centri sociali). Sul piano teorico è poi interessante
domandarsi perché la solidarietà tendenzialmente non decolla e tende anzi a
rimanere circoscritta. Il fatto è che
mentre il linguaggio della politica è tendenzialmente universalistico (l’esempio
tipico è il linguaggio dei diritti) il linguaggio della solidarietà è sempre particolaristico, implica sempre un
contatto faccia a faccia, implica quindi
un restringimento dell’ambito comunitario entro cui si agisce. Quando la solidarietà
esce dall’ambito particolaristico, allora diventa
un diritto, ma allora si parla d’altro, si dovrebbe parlare, appunto di
politica. Si può fare il volontariato per tutta la vita senza incontrare mai la
politica.
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5) A livello
generale, infine, una parola d’ordine molto popolare, ripetuta come un mantra,
concerne la cospirazione del capitalismo
finanziario internazionale. Naturalmente la cospirazione riguarda anche e
soprattutto l’Unione Europea e ciò fa sì che, all’interno dell’area della
sinistra, prevalgano senz’altro posizioni confusamente anti UE e anti euro. La
cospirazione viene spesso data come auto evidente. Spesso è concepita come un
disvelamento, come la rivelazione di una verità che «loro» vogliono mantenere
celata. È chiaro che la cospirazione del
capitalismo finanziario ha soltanto sostituito la vecchia teoria del SIM che
piaceva tanto alle Brigate Rosse. In particolare, tutto quel che avviene in
Europa è considerato solo come effetto di un complotto neo-liberista.
Senz’altro c’è
stata un’ondata neoliberista, senz’altro il capitalismo finanziario ha avuto le
sue degenerazioni che vanno denunciate e combattute. Ci sono molte buone
analisi del fenomeno con tanto di proposte di soluzione, che attendono una
risposta dalla politica. Qui si discute della teoria della cospirazione
neoliberista usata come chiave esplicativa di tutto quel che avviene nel mondo
e come quadro di analisi principe per effettuare le scelte politiche più
disparate. Questo fanatismo persecutorio ha contribuito a mantenere tutta quest’area
su posizioni da keynesismo da strapazzo, continuando a chiedere politiche di deficit spending per finanziare il welfare, politiche inflazionistiche di aumento del debito o, addirittura,
politiche di cancellazione del debito.
Il tutto spesso condito con la proposta di «uscire dall’euro». Un incredibile
bricolage fai da te di scienza
economica casereccia che, qualora fosse adottato, porterebbe senz’altro il
Paese alla rovina.[8]
Questo
fanatismo persecutorio ha inoltre impedito di cogliere le differenze – che sono
macroscopiche – tra il neo-liberismo e l’economia
sociale di mercato che è la teoria economica prevalente in Europa, ha
impedito di valutare in maniera obiettiva le riforme del mercato del lavoro praticate ormai in quasi tutto il
nord dell’Europa, di prendere in considerazione una seria riforma delle relazioni industriali, sempre sul modello europeo, e di affrontare la questione del reddito di cittadinanza, anch’esso ormai
diffusissimo in Europa, seppure in forme diverse. Insomma, provincialismo bello
e buono: la colpa è sempre degli altri.
Si può
aggiungere che ha anche impedito di formulare l’obiettivo di una legge per la regolamentazione dei partiti, magari sul modello tedesco, che potrebbe dare
una svolta al sistema politico italiano, contribuendo a regolare il mercato
della competizione politica, che in Italia è completamente drogato dai partiti proprietari e dalle oligarchie correntizie. Invece i
partitini dell’estrema sinistra (dove ci sono sia i partitini proprietari che i
partitini oligarchici) si accontentano di una riforma proporzionale (che non avranno mai) per poter mettere a
frutto (in termini di poltrone) le loro percentuali elettorali da prefisso
telefonico. L’ala movimentista antagonista invece se ne frega dei partiti e mai
s’impegnerebbe per una loro regolazione.
.oOo.
Combinando in
vario modo 1) la teoria dei bisogni,
2) la teoria dei diritti, quella
delle 3) nuove forme di partecipazione
4) delle nuove forme di solidarietà e
della 5) cospirazione finanziaria si
riesce a riprodurre i due terzi dei discorsi che comunemente tengono banco nell’area
della sinistra. Se si aggiungessero alcuni riferimenti all’ecologismo (declinati
spesso in termini fondamentalisti) e all’antimilitarismo, il quadro sarebbe
pressoché completo. Il terzo restante è costituito da recriminazioni 1) nei
confronti dei traditori, rappresentati
dal vecchio PD, ma ancor più dal PD di Renzi; 2) nei confronti degli elettori
che votano in modo «contrario ai loro interessi», oppure 3) nei confronti dei media che «condizionano gli elettori». Non
mancano, per completare il quadro, ma bisogna proprio andare a cercarli, sprazzi di quasi tutte le vecchie ideologie della
sinistra dell’Ottocento e del Novecento, che vengono custoditi e coltivati con
cura forse degna di miglior causa. Si tratta proprio di sprazzi, perché l’area
della sinistra dal punto di vista culturale, pur con le debite eccezioni, è
complessivamente piuttosto carente, rasenta anzi spesso un vero e proprio preoccupante
analfabetismo culturale.
È chiaro che
se i cinque punti distintivi che abbiamo individuato vengono preferibilmente declinati
in forma radicale, se le recriminazioni nei confronti dei traditori sono così
rancorose da impedire ogni alleanza e se per giunta spuntano qua e là
fondamentalismi vecchi e nuovi, allora tutto è fatto per chiudersi, per diventare
sempre più autoreferenziali e irrilevanti.
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Se tutto è davvero
riconducibile ai pochi punti che abbiamo visto, ne consegue che in teoria non
dovrebbe essere troppo difficile elaborare un programma comune di governo della sinistra (magari facendo qualche sforzo di approfondimento in più, tenendo
anche conto delle obiezioni che abbiamo avanzato – che del resto sono del tutto
risapute e ben lungi dall’essere originali). Naturalmente un programma comune
di governo dovrebbe implicare un’organizzazione
comune la più ampia possibile, abbastanza flessibile da poter praticare una tattica di tipo elettorale, una politica delle alleanze altrettanto
flessibile e, contemporaneamente, abbastanza pluralista da lasciare ampi margini di autonomia pratica e teorica
agli aderenti, siano essi singoli individui o gruppi, collettivi o quant’altro.
Date le diverse prospettive politiche e organizzative che potenzialmente si
ritrovano nell’area, che paiono alquanto irriducibili, l’unica struttura che
realisticamente potrebbe dare un minimo di organicità all’area stessa sarebbe
una struttura federale. Si potrebbe ipotizzare
una federazione come quella del Labour
Party inglese, cui si possa anche aderire in quanto gruppi locali. Una federazione però munita di organismi, statuti,
congressi, programmi, leader ufficiali, maggioranze e minoranze. Insomma un’organizzazione
compatta, tatticamente molto flessibile, dotata strategicamente di un grande
pluralismo interno e di una grande capacità di fungere da area di dibattito, da
laboratorio di idee e di sperimentazioni.
Perché non si
fa qualcosa del genere? Perché non ci si pensa neppure? Gli ostacoli a un percorso
del genere sembrano purtroppo riguardare quasi esclusivamente i limiti soggettivi, sia degli individui
che della miriade di micro organizzazioni di cui è costituita l’area. Per federarsi, occorre riconoscere gli altri, su un piano di pluralismo e di parità.
Occorre avere interesse per gli
altri. Occorre una grande flessibilità
mentale per distinguere quel che è tatticamente
conseguibile in ciascuna situazione dai principi
di fondo che - come si dice sempre– sono non negoziabili e che ciascuno potrebbe continuare a professare. Questo
però è proprio quello che gli appartenenti all’area della sinistra non sono mai
stati in grado di fare. Storicamente sono invece sempre stati portatori, chi
più e chi meno, di un atteggiamento personale di presunzione, di
autosufficienza, di insofferenza, di fondamentalismo che si traduce nella più
totale incapacità di aggregazione, un
clamoroso limite per gente che parla
tutti i giorni di socialità e di comunismo.
.oOo.
Il rapporto dell’area
della sinistra con la cultura poi è quanto mai rivelatore di una profonda mancanza di un’identità culturale,
soprattutto se pensiamo a possibili prospettive future. In effetti, anche se
non lo ammetterebbero mai, le possibilità per quest’area di trovare un’identità
di qualche tipo è legata proprio allo sviluppo di una prospettiva culturale unificante. È legata quindi alle fabbriche del sapere e agli intellettuali. Non a caso sono stati
proprio gli intellettuali relativamente indipendenti che hanno fatto da
collante alla recente Lista Tsipras.
Nell’area della
sinistra non mancano intellettuali e istituzioni culturali di primordine. Tra
gli intellettuali abbiamo personaggi come Rodotà, Gallino, Zagrebelsky. C’è una
rivista come MicroMega. Ci sono dei bravi giornalisti che sono molto competenti
e attivi. Il fatto è purtroppo che questa area
intellettuale, che si colloca per lo più su posizioni neo illuministe, si trova spesso radicalmente in opposizione con le
culture politiche assai diversificate e con le burocrazie (dirigenti e militanti) sia dei partiti parlamentari che
dei partitini extraparlamentari. Entrambe poi queste due aree, che già si
oppongono tra loro, si trovano in opposizione (o in un rapporto di vera e
propria estraneità) con la galassia dei
centri sociali e dell’autonomia, la base movimentista, anarcoide e pre-politica che vuole vivere e
gridare il proprio dissenso esistenziale,
spesso affascinata dalle filosofie nichiliste e dai guru postmoderni. Sono almeno tre mondi difficilmente conciliabili che
rischiano di continuare a riprodursi e di riprodurre le loro inconciliabili
differenze identitarie. Non esiste per ora un dizionario che sia in grado di
mettere in comunicazione questi mondi. Forse non hanno alcuna voglia di essere
messi in comunicazione. Magari non ne sentono proprio alcun bisogno.
9/07/2014
Giuseppe Rinaldi
TESTI CITATI
2013 Barca, Fabrizio
Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di
governo, documento on-line.
2014 Flores d’Arcais, Paolo
Per la critica dei risultati elettorali, in MicroMega 4/2014.
NOTE
[1] La coalizione si è presentata
in occasione delle recenti elezioni europee (maggio 2014).
[2] Cfr. Barca 2013.
[3] La lista ha ricevuto
l'appoggio, tra gli altri, di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Carlo
Freccero, Michele Serra, Furio Colombo, Fausto Bertinotti e Luciano Canfora. In
seguito hanno sostenuto la lista anche Carlin Petrini, Nicola Piovani, Rita
Borsellino, Vauro Senesi, Sergio Staino, Leo Gullotta, Valerio Mastandrea, Gino
Strada e Sabina Guzzanti, Andrea Scanzi.
[4] Cfr. Paolo Flores d’Arcais
2014: 12-13.
[5] Dal punto di vista
organizzativo abbiamo 1) ampie aree di opinione (“il manifesto”, oppure la
rivista MicroMega); 2) organizzazioni single issue (movimenti referendari, il movimento
per l’Acqua, i NoTav); 3) movimenti generalisti non strutturati (Occupy, Se non
ora quando e simili); 4) movimenti dei centri sociali e simili (CSA, CSOA); 5)
partiti vari parlamentari (SEL, Rifondazione, PdCI, Italia dei Valori e simili)
e cartelli elettorali temporanei di partiti (Rivoluzione Civile, Lista
Tsipras); 6) piccoli partiti extraparlamentari della tradizione marxista (PMLI,
Lotta Comunista, PCdL); 7) organizzazioni extra-parlamentari semi clandestine
(gruppi anarchici, black block e simili); 8) organizzazioni sindacali
(tipicamente la FIOM, ma anche i COBAS). L’elenco è sicuramente incompleto.
[6] Secondo questa concezione,
quando fossero soddisfatti i bisogni degli esseri umani questi diventerebbero
buoni, mansueti, socievoli. La devianza è frutto della mancata soddisfazione
dei bisogni. Insomma la devianza è il prodotto di una società malata.
[7] Molti di costoro tuttavia non
disdegnano di ricevere finanziamenti pubblici, di essere eletti e di ricoprire
cariche pubbliche.
[8] La cosa divertente è che
mentre da un lato si continua a ripetere il mantra dell’ineluttabile fine di
sovranità degli Stati nazionali, dall’altro si propone la politica economica
keynesiana, cioè una politica economica che implica la piena sovranità degli
Stati. Ma la coerenza spesso è un optional.