Parrebbe il titolo d’un romanzo d’avventure alpine, e
relativo film, se non serie di telefilm, ed invece è una seccatura estrema. E
se tale solo fosse, per quanto noiosa, sarebbe ancora poca cosa. Sto parlando
dei cannoni in agricoltura. “Cannoni? È una barzelletta? In agricoltura? Che
frutti sono? Spinaci che esplodono o…?”. “Beato lui!”, è la mia risposta, chi
nulla sa, tace e. Ma entriamo nell’argomento.
Circa trentacinque anni fa, o giù di lì, come
dissuasori contro animali e uccelli predatori di raccolto, allora unicamente
frumento, meliga, e girasoli quando comparvero i due o tre anni prima di
scomparire. E i danneggiatori erano unicamente uccelli, mi riferisco a quelli
alati, perché degli altri s’interessano già le donne. Ma come ne venni a
conoscenza. Succede che nell’area alessandrina vi erano due grandi agricoltori
che si facevano le corna per anticipare l’altro con le primizie
dell’agricoltura moderna, e non solo chimica, di cui le loro fattorie
primeggiavano in Italia. Sto sparlando della tenuta Aulara e della cascina Rosa,
la prima nell’agro alessandrino verso Gamondio, la seconda in gamundiensis
agro. Per farla breve un’estate, nei mie quasi quotidiani giri estivi col
fedele Patasot, un po’ sul suo seggiolino della mia bicicletta (e non sto
scherzando), un po’ a piotte, perlustravo, non solo a scopi ecologici ma anche
per svago, le rive dell’Orba, quando sentii un’esplosione: feci un sobbalzo:
son tornati i tedeschi? Gli Unni? Per cui mi precipitai nella trincea di prima
linea, nella fattispecie oltre l’argine destro dell’Orba. Con gran cautela, da
dietro, alzandola testa, non vidi nulla. Però, sui posteriori della Rosa, era
un gran campo piatto e rasato che era stato una meliga, nel cui messo giaceva
una macchia verdeggiante. Inforcato il fedele cane (aveva sbagliato, nel
parapiglia, seggiolino, e s’era seduto sul mio, quello davanti), raggiunsi il
luogo del delitto. A terra, ben mimetizzato, era uno strano basso apparecchio
verde, con un serbatoio e una specie di imbuto o non so cosa fosse, e poi delle
rotelle, un graduometro, delle leve e pulsanti, infine una finestrella: un
timer? Ma, non lo so, e prosegui nel giro quanto un’esplosione mi sradicò da
terra e ricaddi stordito. Come mi ripresi, guardai la bestia impazzita, l’apparecchio
non il cane, ma non l’ammirai oltre in quanto dovetti rincorre il mio cane che
cercava una trincea svizzera, per poi tornare e fare il partigiano, uno dei
primi come dopo l’8 settembre: il pelo che lo ricopriva dal muso alla punta
della coda, per ora deposta tra le gambe posteriori, era già una buona tuta
mimetica.
Che fare? Avrebbe detto Lenin. Non sapendo ancora che
la battaglia l’aveva vinta per ora quello della Rosa, che poi acquistò, a
prezzi di svendita, anche la tenuta Campagna (800 moggia), la Rosa (600
moggia), era della moglie, me ne andai al bar a raccontare l’avventura,
comunque a lieto fine, non essendomi nemmeno fatto un graffio, mentre il povero
Patasot, che mi diede lo sfratto, aveva perso ben tre peli neri, e due grigi
della coda, per lo d’aria spostamento, mentre, per lo spavento, il capo s’era
incanutito, e, così pettinato alla moda, non stava nemmeno male. Ma ho perso il
filo del, cioè, trambusto. Ah, ecco, ora ricordo: trainato dal folle amico
dell’uomo mi precipitai a Castelcazzo per narrare la cosa al bar, ma il vigile
comunale mi sconsigliò vivamente, in quanto avevano già approntato la camicia
di forza: chi avrebbe mai creduto...!
Ma una la posso raccontare. Un amico del bar, già da
anni scomparso, era andato, con altri cacciatori, a vedere l’ordigno, per
l’occasione trasformati in momentanei ecologisti: i cannoni anti animali facevano
loro fuggire la preda. Ma ritornarono vincitori, ridendo felici e contenti come
nelle favole: gli uccelli s’erano abituati e, sentendo il colpo, correvano sul
luogo a banchettare. Barzelletta ma fatto reale? Una cornacchia s’era
appollaiata sulla testa di un cannone e lì dormiva. Quando il cannone sparava,
il vento dello scoppio la sollevava, lei gracidava, sbatteva le ali, le chiudeva,
per colpa di Niuton ricadeva, riprendeva il sonno interrotto subito appisolata.
Il secondo a utilizzare il dissuasore non fu quello
dell’Aulara, ma un castellazzese con i campi alla cascina Arnione, il quale ne
usò uno in prova, scoprendo, con sorpresa, che alla meliga non faceva nulla,
mentre impediva di schiudersi alle larve della dorifora: siccome a quelle
bastavano gli alambicchi della sua chimica, portò il cannone in Cittadella,
dove qualcuno l’ha rubato, forse il padrone della suesposta tenuta in quanto
perdente, e quindi rubare ed esporre nella sala degli allori il trofeo di
guerra, ma vattelapesca chi lo sa.
Poi i cannoni dissuasori si diffusero da noi
moltissimo, più raramente in qualche area della pianura Padana, allora non
ancora Seghista, per poi scomparire, sopravvivendo di stenti da noi. Una cosa
da aggiungere? Perché quello della rosa sparava in un campo senza nulla? Ma per
prova, e lo buttò subito via in quanto inutile, e ciò per non fare brutte
figure, a lui, il vincitore!
Fine della storia? Magari! Ultimiamola e giungiamo
all’attuale.
Quest’estate, dopo i raccolti, sono ripresi i colpi di
cannoni nel castellazzese, specie di notte, quando gli animali dormono. Che
cosa feci io per scoprire il mistero? Pedalai notte e giorno per rive e per
fossi. Ed ora devo anticipare che, dopo mie infinite proteste, il comune di
Castellazzo aveva pescato in internet il regolamento d’un comune emiliano, per
cui i cannoni possono sparare solo ogni due minuti, un’ora dopo l’alba e un’ora
prima del tramonto. E devo dire che io ho comunque protestato: se i cannoni
fossero davvero utili all’agricoltura industriale, sarebbero cannoni dagli
Appennini alle Ande, dal Manzanarre al Reno, anche senza filmini, mentre…! Cosa
rispose il comune? Niba. Io non conto nemmeno un voto, non andando mai a votare
da quando sono nato (salvo una volta che racconterò un’altra volta), mentre
ovviamente i trenta voti degli agricoltori contavano più di me, un tempo unico
ecologista del paese e zona, assieme a due o tre compagni che mi s’erano accodati,
due dei quali persi per strada. Ma allora fate rispettare i regolamenti,
intimai! Risposta: chi se li ricorda più?
Giungiamo all’oggi e giungiamo alla fine della storia.
Tutt’intorno il paese sono cresciuti sterminati campi d’insalate, sia estive
che invernali, e i camosci le brucano. Camosci? In tutta la vita, ed ho fatto
almeno 80.000 km in bicicletta da corsa cercando strade appartate lungo i campi
e praterie, e almeno 10.00 km in bicicletta normale attraverso praterie e
campi, per tacer dei fiumi le ripe, e cosa ho visto? Ho visto solo due camosci,
di cui uno ammazzato da un camion, mentre ho visto le impronte del primo
camoscio giunto in zona: le ho seguite, ci siamo trovati faccia a faccia, e, stupiti
entrambi dall’incontro troppo ravvicinato, fuggi tronando al paese per
annunziare la buona novella, dove m’han preso, come sempre, per pazzo.
Ora et semper, in tutto il mondo, i cannoni anti
camosci, nemmeno utili per fare pelle scamosciata, sono solo nel castellazzese,
una decina in tutto, ma concentrati che, certe notti, pare d’essere a Waterloo.
Niente da fare, nessuno interviene. Che sfare? Avrebbe
detto Lenin. Giungiamo così alla conclusione della favola: l’alienazione
dell’uomo non ha limiti, e questo almeno dal Sessantotto lo si sa. Ma stavolta
i limiti sono stati superati: i camosci di notte dormono, e i colpi di cannoni
impedisce loro di nutrirsi, e così facendo, non possono regalare ai campi
d’insalata le loro preziose feci ad uso ingrasso. Di giorno i camosci
mangerebbero, ed allora perché si spara di notte che dormono? E quindi muoiono
e non possono fornire gratis l’ingrasso. Però, unico risultato positivo è che i
camosci scampano di più. Com’è possibile questa contraddizione di termini che
sconvolse le penti degli epistemologhi medievali? Risposta saputa da uno di
loro, sto parlando dei camosci: non nutrendosi più d’insalata piena di veleni,
scampano più a lungo, più sani e più contenti, cosa che fa felici anche gli
agricoltori!
Prosit.
Il gamondiese Zucca Gian Domenico detto U Stuk.