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Letture, incontri e convegni
Poesia e Nostalgia
Patrizia Gioia
 Sono molte le “piccole rivelazioni ” che mi sono portata a casa dall’intensa relazione che venerdì scorso Antonio Preti ha tenuto al centro Convegni Monte Verità, nella magica cornice del lago di Ascona, in quel pezzo di terra ticinese che ancora brilla dell’energica vitalità che alcuni eutopici profeti dei primi del 900 hanno lì portato e lì lasciato.

Non a caso il tema era “la Nostalgia”, quel “dolore del ritorno” a cui un medico svizzero ( mi si perdoni se non ricordo il suo nome) diede la dignità di un sentimento umano, più o meno negli stessi anni dell’insediamento della folle comunità – ironicamente soprannominata dei  balabiòtt – al Monte Verità.

E’ infatti solo nel 1867 che la parola “nostalgia” appare in un dizionario, prima la si poteva trovare, con altri nomi e come patologia, solo nei capitoli di medicina militare e , successivamente, coloniale. 

Strana vita ha “la malattia”, che rimane tale sino a quando qualcuno non le dà voce e sentimento, la sola vera cura che cura l’umano, così che la luce della Coscienza e della Conoscenza arriva ad illuminare quel buio che ammalia e ammala, quel buio che vive e si nutre dell’ignorare quel che siamo e che da sempre giace inciso nel marmo della memoria dei templi e dei tempi.

 

Nostalgia come reversibilità dello spazio e irreversibilità del tempo; desiderio di voler tornare in un tempo che non c’è più, lo spazio c’è ancora,( quella casa, quel luogo nel bosco, quella trottola ...),  ma forse, oggi, anche lo spazio diventerà irreversibile come il tempo, tanta è la velocità che ci porta a distruggere quel che siamo e che abbiamo con tanta fatica edificato.

E’ un dolore per me vedere esseri - non ancora umani - spaccare con trapani e picconi le meravigliose e sacre costruzioni che fanno parte della comune memoria.

Mnemosine in nove notti d’amore con Giove dà alla luce le nove Muse, se le Arti non sono attraversate dalla Memoria, arte non sono, perché Arte è dare presenza a quel che non c’è, ed è di questo che noi siamo fatti, di assenza o, come dice il sommo Poeta inglese : della stessa sostanza dei sogni.

Ma anche Baudelaire dice che la Poesia è completamente reale, perché vera  in altra dimensione, che è la dimensione della Nostalgia.

Nostalgia di un luogo in cui ancora non siamo stati, scrive Hermann Hesse, sì, perché è proprio dall’assenza che nasciamo e diveniamo.

Siamo figli della Nostalgia, ma figli ingrati.

La riempiamo di cose, affastelliamo tutto e il più velocemente possibile, tutto dentro,  alla rinfusa,  credendo che così ci libereremo per sempre di ogni nostra umana memoria.

Ma siamo dei poveri illusi, c’è sempre un archeologo che aprirà quella porta  e, come nella tomba di Tutankamen, quei nostri reperti tornano tesori, ori argenti e mirra che avevamo dentro e in dono e che abbiamo sacrificato per la paura dell’assenza, del vuoto, che è invece sostanza e Vita. 

Se non iniziamo a dialogare con l’Invisibile non sopraviveremo, è lì dentro che vive quel che ci trasforma, che ci appartiene, a cui siamo indissolubilmente legati. Api dell’invisibile, scrive un altro Poeta, Rilke, saper sottrarre ogni cosa e noi stessi alla caducità, al deperimento per depositarci e depositare in altra arnia: invisibile.

La Poesia è sorella della Nostalgia, oltre che della Pazzia.

Perché la Poesia è rischio di dire quel che non si può dire, è un’intensità della lingua che ci trascina sempre e che sempre ci chiama all’ospitare quel che non c’è più e non ancora.

C’è qualcosa di più bello di una bella cosa, e sono le rovine di una bella cosa.

E’ in quelle rovine che viviamo, viviamo ancora con quella bambola, con quell’orma di nostro padre seduto sul letto la sera, con quello sguardo materno, con quel primo bacio.

Non è un optional quel che Proust fece, ricercare il tempo perduto.

Siamo fatti di tempo consumato, di addii irrevocabili, siamo nutriti d’assenza.

Siamo il mandala colorato costruito nella sabbia, ma prego ogni giorno per non essere e fare come i generali cinesi, che camminarono sopra i mandala tibetani, costruiti con quella mitezza che sa accogliere la violenza, che sa allargare le braccia al nemico, pur sapendo che quelle braccia potrebbero essere subito incatenate e anche brutalmente sacrificate e uccise.

Diveniamo violenza a causa di quel che di noi uccidiamo, ciecamente spacchiamo sigilli e statue per esserci scordati che siamo ombre, ma disegnate dalla Luce.

Una luce che illumina il cammino dove tutti camminiamo, dove vive il dialogo, il solo luogo dove può avvenire il miracolo della relazione umana e divina di un Io con un Tu.

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patrizia gioia

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marzo 2015

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