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Cinquant'anni con Ronconi: rappresentare l'Irrappresentabile
Nuccio Lodato

L'occuparsi di spettacolo, dice un amico che se ne intende, significa ormai sempre più spesso dedicarsi a una sorta di culto dei morti: sapendo, alla fin fine, che è di sé e del proprio destino finale che forse in realtà si parla.

Da parecchio desideravo scrivere di Luca Ronconi qui. Avevo rinunciato a farlo un anno fa, quando -non esito a confessarlo- la sua Celestina (laggiù vicino alle concerie in riva al fiume di Michel Garneau da de Rojas) mi aveva vagamente deluso. Poi altre concause di silenzio: scadenze diverse di consegna via via incalzanti, con l'accentuarsi della lentezza, e la conseguente overdose da scrittura; la pigrizia di pensionato ormai a tempo pieno, che finisce per accordare nostalgica preferenza ai rewinds degli sceneggiati anni '60-'70 di Sandro Bolchi su Rai5; un po' infine, con tutta franchezza, il vago disagio psico-politico di antico collaboratore-lettore del sito, oggi talvolta un po' faticante a ritrovarcisi (ma in fondo, a ben pensarci, è proprio questo il bello...).

Avrei voluto per la prima volta farlo nell'autunno del 2012, quando Laterza pubblicò la magnifica intervista con lui di Gianfranco Capitta Il teatro della conoscenza, originata dal Festival della Mente di Sarzana: sintesi a posteriori, insieme coltissima e umanissima nella sua sommessa sapienza, che il critico del «manifesto», sicuramente il più acuto e sensibile lettore del mondo ronconiano (ma mi verrebbe da dire: dell'intero nostro teatro) dopo la scomparsa di Franco Quadri, aveva saputo trarre, provocandola, dall'analisi di una parabola registica oggettivamente senza pari.

E ancora, di slancio (mancato...) un anno fa, quando stavolta Einaudi pubblicò, al n. 436 della rinata "Collezione di teatro" che fu di Grassi e Guerrieri, lo straordinario testo della Lehman Trilogy di Stefano Massini, con una magnifica prefazione ronconiana che già dall'esordio («Fino dalla prima lettura, nell'estate 2012, ho trovato la Lehman Trilogy una novità inaspettata e sorprendente») faceva intuire il suo proposito di allestire questo neo-capolavoro "impossibile": degno per ricchezza e profondità, forza di penetrazione e originalità evocante, tanto del miglior Brecht quanto dell'Istruttoria di Peter Weiss. Dal suo testo introduttivo trapelava tutta la "giovinezza" dell'ottantenne regista, infaticabile esploratore di opere, lettore inarrestabile di copioni d'ogni tempo e paese (credo sia stata questa encomiabile ossessione, da sempre apertamente ammessa dall'interessato, il primo segreto perdurante della sua grandezza). Come la sua meraviglia nel trovarsi di fronte a una proposta forse ancora più attraente di quelle, che già l'avevano "provocato" negli anni immediatamente precedenti, dell'altrettanto giovane argentino Rafael Spregelbund, del quale aveva inscenato tra il '12 e il '13 al Piccolo La modestia e Il panico. Testi magari sconcertanti nella loro novità radicale, ma inscenati in maniera ancora più avanzata: chi abbia visto in questi giorni il pur assai discutibile film fresco premio Oscar Birdman potrà particolarmente apprezzare, a posteriori, l'abilità ronconiana nel creare perfetti quanto inusitati "piani sequenza" teatrali.

E nuovamente, infine, in altre tre occasioni connesse e più recenti. La prima: l'emozione di averlo finalmente rivisto da vicino, appassionato e generosamente eloquente (per come poteva esserlo un uomo dalle sue irraggiunte timidezza e riservatezza...) al Torino Film Festival, il tardo pomeriggio di fine novembre in cui presentò, scortato con vigile discrezione dall'onnipresente e insostituibile Roberta Carlotto, il magnifico lavoro di debutto registico di Jacopo Quadri, La scuola d'estate, sulla sua inarrivabile e generosa esperienza didattica di Santacristina, insieme a Maurizio Porro, Emanuela Martini e allo stesso autore. Indimenticabile la serenità olimpica con cui parlò ai convenuti, senza che nessuno glielo chiedesse, delle modalità della sua vita, stretta fra la dialisi a giorni alterni e il divieto categorico di bere. Un magnifico sorriso sereno faceva dimenticare del tutto le purtroppo assai evidenti difficoltà fisiche.

La seconda: avendovelo appreso lì, in diretta, il dovere, avvertito e trascurato, di avvisare i lettori del sito che il successivo lunedì 1° dicembre Ronconi avrebbe dato inizio, al vecchio "Piccolo" di via Rovello, alle prove della Trilogy. Tanto più avendo scoperto, con l'acquisto dei biglietti quasi un mese prima, che le numerose repliche previste dalla fine di gennaio ai primi di marzo erano già in novembre -del resto sacrosantamente- prossime all'esaurito, e che quindi chi fosse interessato avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.

Terza e ultima, recentissima, la gioia -e la difficoltà, che avrebbe finito di produrne l'elusione- di scriverne a spettacolo visionato, appunto quindici giorni fa, per condividere l'ammirazione per una messinscena assolutamente (ma certo, non sorprendentemente) magistrale: un capolavoro di scrittura per la ribalta che proponeva un capolavoro di stesura drammaturgica, ottenendo da tutti gli attori coinvolti, ma soprattutto dai tre protagonisti, due veterani della "compagnia invisibile" di Luca, De Francovich e Popolizio, e una "matricola" per il regista, il sempre incredibile Fabrizio Gifuni che con tutta evidenza non avrebbe certo fallito la prova, una prestazione che è soltanto stentato definire memorabile.

Mi ritrovo quindi a farlo per forza ora, in un momento autenticamente doloroso, ma nel quale sarebbe ormai insopportabile l'ulteriore omissione: nel pomeriggio di questa domenica strana, nevosa la mattina e primaverile adesso, col tavolo pieno dei ritagli già asportati dai quotidiani, che da sempre acquisto in blocco (giornali liberi eccettuati, ça va sans dire) quando nello spettacolo, nella letteratura o nell'arte si verificano queste catastrofi, solo apparentemente individuali. Un po' stupito di come presso che tutte le testate siano riuscite a confezionare pagine decisamente di livello nonostante l'ora tarda in cui l'evento si è verificato (personalmente, ci ha folgorati sul televideo alle 22.30, in una pausa della revisione ammirante di Thelma e Louise: Loretta ed io avevamo gli occhi e la mente ancora pieni del maestoso fluire della Trilogy, vista appunto, saggiamente in unica soluzione, al "Grassi" una settimana prima; erano passate solo due ore dal trapasso del Maestro).

Una regola non scritta ma precisa incombe sui testi di questo tenore: il dovere di parlare della personalità cui ci si riferisce e non di sè. Anticipo con franchezza che sto per violarla: perchè sono convinto che l'aver seguito praticamente per mezzo secolo l'attività registica di quest'uomo di spettacolo (uno dei pochi italiani contemporanei autenticamente di livello mondiale, al di fuori di ogni retorica innovativo-primaziale, puntualmente riaffacciatasi in questa inappropriata occasione anche ai massimi livelli...) faccia della mia personale esperienza, di per sè ovviamente insignificante, un parametro condiviso che è stato di molti e che può parlare a tanti.

I Lunatici del '66, con la compagnia Fortunato-Fantoni: una regìa stravolgente, unica, fino ad allora "mai vista", nel ritorno degli elisabettian dimenticati Middleton e Rowley. Faceva subito venire voglia di non perdere ove possibile nulla di quanto sigliato in futuro da quel nuovo nome in fondo al programma: e Giuliana ed io tentammo per molti anni di tenervi fede.  L'Orlando furioso con Sanguineti, già famoso per più di un anno di tournée, la sera di san Silvestro del 1969 al Palasport di Genova (non racconto neppure che a fine spettacolo contribuii a far scendere dagli altissimi cavalli lignei di Mario Ceroli tanto Mariangela Melato/Olimpia che Ottavia Piccolo/Angelica: non mi crederebbe nessuno...). L'amicizia e la collaborazione con Franco Quadri e il suo "Sipario", con la Bompiani ancora al 16 di via Senato e il temuto conte titolare al di là della porta: lì si capiva a fondo la portata innovativa di questo "nuovo teatro" ronconiano, che Franco avrebbe poi sintetizzato da par suo nel Il rito perduto (Einaudi 1973). L'indimenticabile, tra tutte, serata in ogni senso unica di Utopia (dagli "Uccelli" di Aristofane) dei primi di settembre '76 a Vigevano in piazza Ducale, con la conclusione dello spettacolo resa impossibile dal non aver tenuto conto della sensibile pendenza che la stupenda area da sempre presenta. Dopo circa un'ora di spettacolo, anche con qualche uccello imbalsamato proditoriamente asportato da ignoti spettatori, Rosabianca Scerrino cade malamente dall'asse di equilibrio che percorreva, e Ronconi, già da un po' visibilmente impaziente, tronca di persona la rappresentazione, suscitando la furia dello strabocchevole pubblico. Ne segue un'altrettanto pubblica e gremita assemblea nella vicina sala consiliare del Comune, dove si confrontano il regista e il sindaco pro-tempore, l'amico Gigi Bertone, che si protrae con toni accesi per concludersi in atmosfera quasi amichevole non molto prima dell'alba.  Il Don Carlo diretto da Abbado alla Scala nel '77, quando si poteva ancora accedere al gran teatro appena riaperto nel bicentenario: e una stupenda Anatra selvatica, forse superata l'anno dopo al Duse di Genova dall'accoppiata schnitzleriana Al Pappagallo Verde – La contessina Mitzi: uno dei suoi spettacoli "piccoli" più conchiusi e perfetti.

Ad Alessandria, nell'84, quando per lo Stabile di Torino riprende e riallestisce al Comunale, provandovi per parecchi giorni, la Fedra di Racine con la Guarnieri, la Bacci e Luciano Virgilio. Forse non il suo allestimento più riuscito tra i moltissimi: ma impagabile l'emozione di vederlo quotidianamente lavorare lì, nel nostro teatro allora aperto e splendidamente funzionante.

Poi Prato: la due giorni interminabile e fulminea con le cinque donne -Aldini/Boccardo/Fabbri/Gherardi/Nuti- in abiti maschili di Ignorabimus di Holz (e di nuovo non racconto della spaghettata notturna al rientro in albergo con Marisa Fabbri e Franca Nuti che ci avevano salvati dalla pioggia, tanto anche qui nessuno crederebbe...). Come non crederebbe, due anni dopo a Torino all'Alfieri, a Giuliana che fuma una sigaretta nell'intervallo, nel corridoio dei camerini, ancora con Nuti e Fabbri vestite entrambe da badessa, la prima già... morta nell'atto concluso, la seconda appena... entrata in carica e destinata a permanervi per il resto dello spettacolo, fino alla ghigliottina: i Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos.

La rivelazione folgorante di Galatea Ranzi, non ancora diplomata allìAccademia, quale protagonista inattesa della Mirra alfieriana, resa ascoltabilissima e godibile, al Carignano nell'88, con la Piccolo e Girone. E due anni dopo, tra le tante altre cose messe in campo una dopo l'altra nel fecondo periodo della direzione artistica subalpina, il culmine assoluto della tragica, mastodontica epopea collettiva de Gli ultimi giorni dell'umanità al Reparto Presse del Lingotto appena dismesso dalla Fiat.

In questa fase si inserisce purtroppo, non tanto per me quanto per Alessandria e il suo teatro, la lacrimevole pagina del mancato trapianto della neonata "scuola di recitazione" da lui voluta, all'epoca (siamo tra il '91 e il '92) e destinata in prima battuta al Comunale di Alessandria (!). Risale a quel momento il brivido del mio unico colloquio personale con il Maestro negli uffici dello Stabile. Con me c'era Egidia Morando, allora mia vice all'ATA: dall'altra parte del tavolo, i due mitici cagnoni simmetricamente disposti, calmi e monumentali, alle opposte estremità, la simpatia immensa di Ola Cavagna, allora sua assistente, e Ronconi. Non saprei più riferire una parola del colloquio: nonostante la veste ufficiale e il tentativo di darmi un contegno, i battiti cardiaci mettevano in scacco già lì, a tempo reale, la memoria. Mi sorprese come parlasse con quella voce profonda ma bassissima con cui la successiva epoca multimediale ci avrebbe fatto prendere confidenza, così come la dolcezza del suo accento profondamente centroitalico, anche se non proprio "romano": avevo sentito parlare così solo Cesare Garboli, un altro immenso. Ricordo invece nettamente come l'acquisizione della decisiva risorsa didattica fosse praticamente cosa fatta: ma gli ultimi bagliori del tardivo craxismo periferico, nonostante il bussare alla porta di Tangentopoli, in perfetto asse tra Torino e Alessandria,  ne impedirono (autolesionisticamente, per quanto riguarda il polo alessandrino) la concretizzazione. Non bisognava dare "ai comunisti" la soddifazione di realizzare sul serio un sogno di decentramento, che tutto dimostrava positivo. L'iniziativa, affidata all'ottimo Mauro Avogadro, sarebbe finita così, qualche anno dopo, per restare nel capoluogo di regione e nel diretto ambito dello Stabile. I Pasolini torinesi, e poi la sua magnifica, analitica prefazione fondante al volume Teatro nell'opera omnia dell'autore per i Meridiani. Il passaggio da Torino a Roma e la fiammeggiante intuizione del tradurre scenicamente in via "diretta" dei romanzi, con l'esplodere inusitato del magnifico Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, grazie a uno sterminato cast stellare (in cui trovavano posto anche la cara Paola Bigatto, del resto degnissima ronconiana di lungo corso, e la "nostra" Caterina De Regibus). Una nuova felice stagione: filone ulteriore che si arricchirà via via, negli anni romani e poi in quelli "milanesi", successivi alla morte repentina di Strehler e più vicini a noi, dei monumentali Karamazov del '98, del vieppiù sorprendente Lolita sceneggiatura del 2001, di Quel che sapeva Maisie l'anno successivo, e via dicendo. La strabiliante gara di bravura tra Mariangela Melato ed Elisabetta Pozzi ne Il lutto si addice ad Elettra di O'Neill, siamo nel '97. Ulteriore filone aggiuntivo anche quello dei testi antichi siracusani fatti poi rivivere all'interno del Piccolo, con Le Baccanti e Le Rane del 2002; e il recupero di classici caduti nel dimenticatoio, da La centaura di Andreini ancora una volta con una Melato suprema, all'Europa riconosciuta di Salieri alla Scala nel 2004, a trent'anni dai suoi debutti wagneriani nel massimo teatro lirico: scelta quale simbolico momento di riapertura del gran tempio milanese, che aveva inaugurato, senza più esservi ripresa, nel 1778. Il resto è storia ancora viva e impressa dell'ultimo decennio.

La generazione di cui faccio parte ha conosciuto un particolare destino nel suo rapporto con l'avventura splendida della sfavillante regìa teatrale italiana del dopoguerra. Autoemarginatosi incredibilmente il grande Ettore Giannini, appena in tempo per vedere due delle estreme regìe di Orazio Costa, nei personali, emozionanti primi ingressi al Piccolo e al Lirico ( un'altra Anatra selvatica del '62 in via Rovello, con un Roberto Herlitzka ventiduenne, suo allievo all'Accademia, quasi esordiente e già enorme; la cattedrale collettiva -davvero anche sorgente in scena!- del Mistero assemblato da D'Amico in via Larga due anni dopo). Troppo giovani per Visconti, che aveva dato il meglio di sé per la ribalta tra i Quaranta e i Cinquanta (resta la descrizione del Giardino dei ciliegi romano del '65, mediata dal nostro maestro Vito Pandolfi che l'aveva voluto allo Stabile romano all'inizio della sua direzione, o la tardiva tournée dell'allestimento non felicissimo della Monaca di Monza di Testori, sebbene oggi giri la testa a ripensare che c'erano impegnate Lilla Brignone e la giovane Melato...). La stessa cosa per il sommo Eduardo, che ringrazio il cielo d'avermi donato il poter ammirare almeno una volta dal vivo ne Il contratto (certo non il più memorabile né dei suoi testi né dei suoi peraltro mai siderali allestimenti...). Nutriva  invece, stagione dopo stagione, dallo Schweik e dal Galileo in poi, la piena maturità di Strehler, sebbene dell'Opera da tre soldi e del Nost Milan sarebbe stato inevitabile...accontentarsi delle pur magistrali seconde edizioni.

Con Ronconi si è avuta, come descritto, la soddisfazione piena di poterlo seguire praticamente dall'inizio. E' accaduta la stessa cosa con Carmelo Bene: ma lì era necessario piegarsi a un'idea di fine del teatro, o di inesistenza stessa dell'entità, tanto geniale quanto negratrice, radicalmente, di tutto quanto di opposto si venisse amando.

Certo, anche oggi ci rimangono la dirittura adamantina di Martone; la spinta rinnovatrice in pieno dispiegamento di Delbono o della Dante; il regolare, altissimo livello garantito dalle performances di Lombardi e Tiezzi (i magnifici Swann e Non si sa come); la qualità sempre assoluta di un Carlo Cecchi. Ma -a parte il fatto che per nessuno di questi si tratta più di ragazzini- come dire? Non è più la stessa cosa, anche se nell'affermarlo si commette con tutta probabilità un'ingiustizia nei confronti di numerose esperienze, soprattutto di giovani, che il vivere in provincia e la complessità geografica dell'Italia ci impediscono di conoscere e valorizzare.

Nel pomeriggio di sabato 28 marzo, a Tortona, nell'ambito della bellissima mostra I tortonesi e la Grande Guerra avrò il compito, e il brivido, di riproporre un'analisi anche visiva del suo indimenticabile Gli ultimi giorni dell'umanità del Lingotto.

Se si dovesse giungere a un'estrema sintesi a caldo, proprio di quelle da condensarsi in poche righe per un ipotetico manuale scolastico, cosa si potrebbe dire? Che la lezione estrema di "Luca" -che lo è stata anche di serenità e di ottimismo, rispetto a quella grande prova di regìa che riguarda ciascuno di noi, allestendo il Mestiere di Stare al Mondo- trasmessaci soprattutto attraverso momenti supremi di libera ed estremamente complessa monumentalità animata, dall'Orlando a Ignorabimus, dagli Ultimi giorni al Lehman che ancora per una settimana vivrà in scena, è stata quella della Rappresentabilità dell'Irrappresentabile. Di violare le limitanti regole non scritte che secoli di tradizione occidentale avevano severamente impresso alla scena, segnandole l'inviolabile confine invisibile della quarta parete.

Come ha scritto Melania Mazzucco: «Il teatro è fatto di voci nello spazio, di corpi nel tempo, di odori, silenzi, luci, rumori. Cose passeggere, friabili, effimere». Si obietterà che queste considerazioni potrebbero valere per qualsiasi spettacolo teatrale. Ma la scrittrice ha proseguito precisando: «Per questo è così difficile provare a raccontare, a chi non ha mai assistito a uno spettacolo del maestro Ronconi, cosa davvero abbia perso: potrà vedere la registrazione in video e nello schermo, ma l'immagine non potrà mai restituirgli la fatica fisica di coloro che l'hanno creato». Certo: la questione è che -generalmente- il valore aggiunto delle migliaia di ore di visione teatrale firmate da lui era irripetibilmente immenso.

24/02/2015 17:31:23
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