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I nostri editoriali
Ci siamo seduti? E quando?
Giancarlo Patrucco
Belle domande, a cui dovrebbe corrispondere un’adeguata, approfondita e complessa rivisitazione storica delle vicende attraversate dal nostro Paese nel periodo più recente della sua storia. C’è chi dice l’ultimo ventennio (berlusconiano), c’è chi dice l’ultimo cinquantennio (repubblicano) e c’è chi allarga ancora l’arco temporale, sostenendo che dovremmo cominciare la nostra rivisitazione dall’impresa del Mille e dall’unità d’Italia.
 
Io non pretendo tanto. Non saprei mettere insieme la storia d’Italia nell’ultimo secolo e nemmeno nell’ultimo ventennio con il linguaggio categoriale dello storico di professione. Non intendo neanche prestarmi al gioco illusorio delle facili generalizzazioni giornalistiche e politiche: il nord e il sud, l’accentramento e il decentramento, la caduta del muro, l’ingresso nell’euro. Credo che tutti questi snodi abbiano avuto un peso, ma sono convinto che la loro influenza sull’Italia sia dipesa dal segno che la politica, le forze sociali, le rappresentanze imprenditoriali, gli indirizzi confessionali, gli intellettuali hanno inteso attribuire loro. In altre parole, si può trasformare un avvenimento in crescita o in rovina, se non lo si prepara in tempo, se non ci si organizza, ci si attrezza, lo si segue e se ne correggono eventuali distorsioni.
 
Poiché mi esprimo più facilmente per sintesi narrative, proverò a condensare in una di queste ciò che penso in merito alle due domande del titolo. Ci siamo seduti? No. Piuttosto, siamo abbarbicati all’angolo, come farebbe un pugile suonato, intontito dai colpi ricevuti e timoroso di prenderne ancora se solo prova di nuovo a farsi avanti. E quando? Quando abbiamo perduto la speranza.
 
Intendiamoci subito. La speranza è un sentimento, un atteggiamento, una disposizione d’animo che ha molte sfaccettature. Una è quella che afferisce alla sfera individuale. Ognuno di noi coltiva (o ha coltivato) speranze per sé di diventare ricco, o potente, o famoso, o bravo nel suo mestiere. Insomma, di realizzare un futuro di crescita che lo renda sicuro, soddisfatto, almeno sereno se non felice.
 
Se questo atteggiamento si dispiega in modo corretto, per realizzarsi ha comunque bisogno di un ambiente che gliene dia modo. Di una collettività che fornisca gli stimoli, gli strumenti, le opportunità necessarie affinché esso si traduca nel concreto. In caso contrario, la speranza si affievolisce, si ripiega su se stessa e si attacca alle corde come il pugile suonato di cui parlavo prima.
 
L’altra sera ho visto un reportage televisivo che mostrava un piccolo campionario degli “Italiani d’America”. Non quelli della prima emigrazione, che sbarcavano a Staten Island pieni di stracci e ricchi solo di speranze. Per l’appunto. No, quella del reportage era l’emigrazione nuova, fatta di giovanotti e giovanotte che del mondo sanno molto più dei loro trisavoli e dagli USA vogliono una sola cosa: la possibilità di crescere. Quella che, all’unisono, dicono essergli stata negata da noi. E c’è da credergli.
 
Io ho vissuto, da ragazzo, la fase del nostro primo (e ultimo) miracolo economico. Ho toccato con mano la voglia individuale di crescere, di tirarsi fuori dalle macerie, alzarsi e correre. Essa si congiungeva in un proposito collettivo, in una volontà di progresso individuale e collegiale a cui il Paese si prestava e si apprestava volentieri. I nomi delle automobili erano numeri – 500, 600, 850, 1100 – che sembravano seguire simbolicamente il progredire della ripresa. Oggi abbiamo la Punto, ma da quel punto non siamo più riusciti a proseguire. Anzi, andiamo indietro.
 
Ora, che i giovani riescano a trovare altri luoghi dove spendere le loro speranze fa bene a loro, ma non risolve certo i problemi di noi che restiamo. Possiamo anche illuderci, dicendoci che faranno le esperienze che devono e poi torneranno qui. Dove si vive meglio che in Italia? Già, l’Italia ti sorride, ma solo se tu sei già tu e ci vieni in vacanza. Un’impresa che può riuscire alle nuove generazioni, ma è improponibile per tutti quelli che stanno negli “anta”, già affardellati di loro dal peso della vita e da quello delle abitudini consolidate. Tutt’al più, potremo farci qualche viaggetto, in quei paesi alieni, e potremo dirci, fra noi, che prima o poi non torneremo. Ma lo sappiamo bene: il pugile suonato difficilmente esce dall’angolo. Tanto più, quando è gravato dall’età e dalle tante botte prese.
 
Noi staremo qui. Tanto vale, quindi, che ci attrezziamo per far diventare questo posto migliore. Cominciamo evitando di affidarci a qualcuno nella speranza che ci pensi lui. Già abbiamo commesso questo errore con Berlusconi, ora lo stiamo ripetendo con Renzi. Questo Paese è afflitto da troppi guai, e troppo in profondità, per confidare nel salvatore della patria. Dobbiamo metterci in testa che di ciò che avviene o è avvenuto anche noi siamo corresponsabili. Ognuno per la sua parte, ovviamente, ma ognuno deve metterci del suo. Sono stati soltanto i potenti a devastare il nostro territorio, a determinare un’evasione di proporzioni colossali, a praticare una corruzione che non conosce limiti?  Sono stati soltanto i potenti ad allevare una burocrazia elefantiaca, una giustizia macchinosa, un sistema clientelare dove conta soltanto chi conosci e non cosa sai fare?
 
Sento già le risposte: noi ne siamo stati fuori. Sì, ma abbiamo visto. Abbiamo visto e molte volte, troppe, abbiamo fatto finta di non vedere. Di non vedere lo scempio del bene comune compiuto sotto casa nostra. Di non vedere che la ricevuta al ristorante era tutto fuorché uno scontrino fiscale. Di non vedere che c’era chi spacciava per progresso un hotel a quattro stelle davanti a una cascata.
 
A meno che. A meno che non entrassero nel cortile di casa nostra. Allora, comitati spontanei, striscioni, slogan e le immancabili televisioni.
Facciamo che il cortile di casa nostra sia l’Italia. Altrimenti, non ci salveremo.
 
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