«La ricchezza delle
nazioni (…) non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o
sull’ingegneria azionaria, per quanto ardita e a volte seducente: si misura
sulla capacità dell’uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai
procedimenti di produzione e di consumo».
Guido Rossi, «Possibilità
economiche per i nostri nipoti?», Adelphi, Milano 2009…
Le crisi economiche sono endemiche al
sistema di produzione capitalistico. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, il
significato che attribuisco alla locuzione «sistema di produzione capitalistico». Come cercherò di illustrare, al concetto di capitale sono attribuiti
significati alquanto diversi, alcuni dei quali hanno assunto nel corso del
tempo una valenza ideologica che è estranea al mio modo di intendere la
disciplina economica ed il mestiere dell’economista.
In una conferenza
per certi aspetti profetica, tenuta nel febbraio del 1928, John Maynard Keynes ebbe a sostenere che
«L’economia deve rimanere una materia per specialisti – come l’odontoiatria.
Sarebbe davvero magnifico se gli economisti riuscissero a pensarsi come una
categoria di persone utili e competenti: come i dentisti, appunto». Un invito,
questo, certamente disatteso dai numerosi esponenti del “pensiero unico
liberista” i quali manifestano le loro certezze quasi quotidianamente sulle
principali testate italiane e straniere. Personalmente preferisco lasciare
sempre uno spazio al dubbio.
Posso
sbagliarmi, ma ciò che resta oggi di quell’auspicio è certamente la
constatazione che l’economia è di fatto
rimasta “una materia per specialisti”. Non fosse altro che per il linguaggio in
uso in questa disciplina fatto di asserzioni controfattuali (“se vi fosse la
piena occupazione allora…”), di concetti dalla incerta quantificazione (chi
conosce davvero l’incidenza dell’«economia sommersa» nel calcolo del PIL?), e utilizzati
sovente in maniera impropria (come quando si fa confusione tra il flusso del
PIL e lo stock della ricchezza). Nel formulare le loro teorie gli economisti
pongono poi tali concetti in relazione tra di loro mediante connettori logici del
tipo, “il PIL risulta identico al
valore dell’offerta aggregata”; le decisioni di consumo delle famiglie “dipendono dal reddito, dalla ricchezza e
dal tasso d’interesse”; le decisioni di acquisto dei beni strumentali da parte
delle imprese “dipendono dalle loro
aspettative circa l’andamento della domanda per i loro prodotti” e così via. Ciò
dà luogo ad una catena di connessioni non sempre facili da ricostruire. Non c’è
da stupirsi quindi se, quando si legge un articolo di economia, a prima vista
sembra di averlo compreso, ma è sufficiente cercare di ripeterne il contenuto o
farne una sintesi, per accorgersi che non si è in grado di farlo. Dunque, l’economia è materia “per
specialisti”, difficile da comprendere e per sua natura complicata.
In una delle
sue forme più usuali, il «capitale reale» consiste nell’insieme dei mezzi di
produzione che costituiscono la capacità produttiva di un sistema economico, vale
a dire la sua capacità di produrre beni e servizi dando da lavorare ad un certo
ammontare di occupazione. In quest’ottica, il «sistema di produzione
capitalistico» altro non è che il modo di produrre le merci per mezzo di
macchine (a loro volta soggette a produzione, quindi merci anch’esse) in una sorta, parafrasando il titolo di un
fortunato saggio dell’economista italiano Piero Sraffa, di “produzione di merci
a mezzo di altre merci”.
Ora, se le cause
delle crisi sono molteplici - per non citare che i casi più recenti si possono
rammentare: le crisi da scarsità delle risorse (1974-75, crisi
petrolifera); le crisi valutarie (lira e sterlina nel 1992); quelle monetarie
(Argentina anni ’90); finanziarie con effetti locali (delle cosiddette Tigri
asiatiche nel 1997); finanziarie con effetti globali (USA nel 2008);
crisi da insostenibilità del debito sovrano (PIGS, Portogallo, Italia,
Irlanda Grecia e Spagna nel 2012) -, qualunque sia la loro causa, tutte le
crisi hanno una conseguenza comune: la trasmissione della crisi all’economia
reale. In un primo momento la crisi dell’economia reale si manifesta con un eccesso
di capacità produttiva, per rimediare il quale si innesca una successione
di nessi causali (indicati con il simbolo →) del tipo: aumento della
disoccupazione → riduzione della capacità d’acquisto dei salari → diminuzione
dei consumi → diminuzione degli investimenti → riduzione della capacità
produttiva → ulteriore aumento della disoccupazione, dando luogo ad un circolo
vizioso che si autoalimenta.
Per
contrastare la crisi dell’economia reale gli economisti di ispirazione
keynesiana suggeriscono l’attuazione di misure di «politica fiscale»
(inizialmente sotto forma di investimenti pubblici in disavanzo) accompagnati
da misure di «politica monetaria» espansiva («accomodante» nel linguaggio
macroeconomico) sul tipo del cosiddetto «allentamento quantitativo» (QE),
quella misura attuata dalla Federal
Reserve statunitense per contrastare la crisi dell’economia reale con i
risultati resi noti nei giorni scorsi sulla ripresa dell’economia USA nell’ultimo
trimestre. Oltre a una serie di condizioni politiche, istituzionali e sociali
del tutto estranee all’Europa, il successo di una politica economica di questo
tipo richiede però l’intervento di due autorità indipendenti (ma tra di loro
coordinate): un Ministero del Tesoro che attivi le misure della politica
fiscale e una Banca centrale che si occupi della politica monetaria. Niente di
tutto ciò accade in Europa in conseguenza del modo in cui è stata pensata e
costruita l’Unione Europea con il Trattato di Maastricht del 1992, con la sua
appendice di un Sistema Monetario Europeo incentrato su una Banca centrale, il
cui mandato prioritario è quello di occuparsi della stabilità dell’euro. Un insieme
di regole incentrato su un sistema di cambi fissi, ossia sulla moneta
unica, con i suoi vantaggi ed i suoi svantaggi, ma totalmente privo di una
comune autorità di politica fiscale in grado di attuare la necessaria redistribuzione
dei vantaggi di cui godono alcune aree a scapito di quelle che ne subiscono gli
svantaggi.
E’ per questo
motivo che il 12 ottobre scorso un centinaio di economisti italiani ha
sottoscritto un appello per una «Bretton Woods» per l’eurozona, avente lo scopo
di contrastare le asimmetrie dell’area euro rilanciando la domanda interna; di
varare una politica europea di rilancio delle infrastrutture fisiche e digitali
dei paesi membri; di armonizzare i sistemi fiscali nazionali, per contrastare il
fenomeno dell’elusione fiscale, dal momento che regimi fiscali diversi per le
imprese all’interno della stessa area monetaria assumono la forma di aiuti di
stato mascherati; di varare forme di unificazione politica improntata a
democrazia e partecipazione attiva dei cittadini. Ciò, nella convinzione che,
in assenza di rapido e incisivo accordo per una modifica dei Trattati, la
moneta unica è destinata ad implodere, con conseguenze devastanti sul piano
sociale. Mi chiedo, ma la mia domanda è retorica, quali siano i successi
ottenuti su importanti temi come questi dalla Presidenza
italiana del semestre europeo che sta per concludersi.
Alessandria, 25
dicembre 2014