Quando - il 20 maggio 1970 - con
la legge 300 fu approvato lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, furono in
molti ad affermare che la Costituzione della Repubblica, finalmente, faceva il
suo ingresso ed entrava nelle fabbriche, negli uffici, nei luoghi di lavoro.
Dalla sua promulgazione erano dovuti trascorrere ben 22 anni, ma, infine, si
poteva affermare che i principi fondamentali della Carta, in particolare gli
articoli 1, 3 e 4 iniziavano ad avere effettiva applicazione.
Lo statuto ha un padre: il
socialista Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro in un governo di
centrosinistra alla fine degli anni sessanta. Fu lui a concepire quell’insieme
di norme, con l’apporto di un fine giurista come Gino Giugni, ma, per una grave
malattia, non poté assistere all’approvazione della suo ambizioso progetto che
fu portato a termine dal suo successore: Carlo Donat Cattin, leader della
corrente Forze Nuove della Democrazia
Cristiana.
Se lo Statuto ha un padre, ha
però anche degli antenati: in primo luogo Filippo Turati e Giuseppe Di
Vittorio. Era
il 26 giugno del 1920, alla vigilia del fascismo, quando il deputato socialista
Filippo Turati presentò nel Parlamento nazionale un programma ispirato alla
Confederazione generale del lavoro che conteneva, insieme alla proposta di una
partecipazione attiva dei lavoratori alla ricostruzione del Paese, alcune
rivendicazioni materiali come le otto ore di orario giornaliero, la previdenza
sociale, la parità salariale e normativa tra uomini e donne, il riconoscimento
dei contratti collettivi. E vi era anche l’indicazione di uno “Statuto di
diritti civili, politici e sindacali”. La proposta incontrò, naturalmente,
l’opposizione netta degli industriali, ma anche l’ostilità della direzione
massimalista del Partito socialista. A tale proposito va ricordato che anche
nel 1970 non tutta la sinistra accolse come un grande successo il varo della
legge 300. Il gruppo parlamentare comunista, ad esempio, si astenne perché non
completamente soddisfatto del risultato, mentre altri esponenti politici,
appartenenti a gruppi di estrema sinistra, considerarono lo Statuto come “dei
diritti dei sindacati” e non dei lavoratori.
Giuseppe Di Vittorio, segretario
generale della Cgil, ritornò sul tema dopo la fine della seconda guerra
mondiale e la rinascita del sindacalismo. Erano gli anni della repressione,
delle cariche della polizia nei confronti dei cortei sindacali, con morti e
feriti tra i manifestanti, gli anni del ministro dell’Interno Mario Scelba che
aveva, tra l’altro, disposto la schedatura degli attivisti sindacali. Una fase
nella quale gli stessi principi costituzionali erano platealmente violati. Una
realtà che indusse Di Vittorio a presentare nel 1952, al terzo congresso della
Cgil, un progetto di Statuto volto alla conquista di uno strumento giuridico a
presidio dei “diritti civili” del lavoratore, della sua libertà di “sviluppare
la propria personalità morale, intellettuale e politica”. Ma i tempi non erano
ancora politicamente maturi e non se ne fece nulla.
Quei diritti, dopo la ripresa
delle lotte sindacali dei metallurgici nei primi anni sessanta, entrarono con
forza nelle piattaforme rivendicative dell’autunno caldo, per i contratti del 1969. In particolare i
metalmeccanici indicarono tra le priorità non solo l’aumento dei salari, ma un
insieme di diritti, tra cui il diritto di assemblea, il diritto di riunirsi in
fabbrica, anche durante l’orario di lavoro. Fu così, in quella stagione di
forti scioperi, di importanti e partecipate lotte unitarie e conquiste
sindacali, che poté finalmente
realizzarsi il progetto di Giacomo Brodolini, nonostante la profonda ostilità con
la quale era stato accolto dalla Confindustria. Lo Statuto, del resto, è sempre
stato considerato, con poche eccezioni, dal ceto imprenditoriale non una
conquista di civiltà, una modernizzazione dei rapporti e delle relazioni, ma un
impaccio alla gestione unilaterale delle aziende. Questo spiega l’offensiva che
contro l’articolo simbolo dello Statuto è stata costruita nel corso degli anni.
Prima, attraverso la esplicita sponsorizzazione di iniziative referendarie per
l’abolizione dell’articolo 18 che, nelle aziende medie e grandi, obbliga al
reintegro il lavoratore licenziato senza valido motivo. In seguito, visto che
il voto popolare aveva sconfessato quella pretesa abolizione, con il sostegno,
nel 2002, al governo Berlusconi che, prendendo a pretesto le profonde
trasformazioni in atto nella società del lavoro italiana, mise sotto tiro
l’intero Statuto, con l’obiettivo di smantellare, ridimensionare, togliere
senso e significato al ruolo del sindacato e dello stesso mondo del lavoro. Un’offensiva
che si infranse contro i tre milioni di lavoratori convocati il 23 marzo di
quell’anno a Roma, nel Circo Massimo, dalla Cgil di Sergio Cofferati.
Dovevano trascorrere ancora dieci
anni e incrociare le conseguenze della più grave crisi economico-finanziaria
capitata all’occidente dal ’29 - che ha colpito pesantemente i lavoratori,
aumentato le diseguaglianze, accresciuto il disagio sociale e, per effetto
della disoccupazione, soprattutto giovanile, indebolito e diviso il sindacato -
perché la rivincita delle destre
cogliesse un primo importante risultato. Il governo dei tecnici guidato da Monti - culturalmente affine alle politiche
liberiste dettate ai paesi europei dalla troika
(Commissione Europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario
internazionale) che con le politiche del rigore e dei sacrifici a senso unico ha
concorso a creare nell’Unione europea oltre 25 milioni di disoccupati -
utilizzando lo sconcerto del dopo Berlusconi ha ridotto le possibilità di
reintegro dei lavoratori licenziati previste dall’articolo 18 dello Statuto e
colpito duramente le pensioni. Per questo secondo aspetto con uno spropositato
innalzamento dell’età e dei criteri necessari per raggiungere la pensione che
ha prodotto il dramma degli esodati:
decine di migliaia di lavoratori i quali sono stati costretti per diversi anni
a rimanere, contemporaneamente, senza lavoro e senza reddito da pensione. Per
motivare questa ricorrente ossessione dei fautori delle teorie liberiste volta
a rendere più facili i licenziamenti - pudicamente nascosta sotto la locuzione “per
favorire la flessibilità in uscita” - e ricattabili i lavoratori, negli anni sono
stati utilizzati diversi argomenti: che in realtà oggi i lavoratori
ricorrerebbero assai raramente all’articolo 18; che tutelerebbe solamente
quelli con un contratto a tempo indeterminato considerati in qualche modo
“garantiti”; che vi sarebbe incertezza circa i tempi di applicazione della
norma e le lungaggini ricadrebbero tanto sugli imprenditori che sui lavoratori…
La verità è che con la
manomissione dell’articolo 18 tutti sanno che si mette in gioco l’intero
diritto del lavoro. La possibilità, infatti, di annullare un licenziamento
avvenuto senza giusta causa o giustificato motivo non rappresenta solo una
tutela reale del posto di lavoro, ma ha un potente effetto deterrente contro
possibili licenziamenti di ritorsione. E rende effettivo, da parte del
lavoratore, l’esercizio degli altri diritti che investono numerosi aspetti del
rapporto di lavoro e sono compresi in norme contrattuali e leggi. Chiunque
abbia frequentato una fabbrica, un luogo di lavoro sa benissimo come risulti
arduo, ad esempio, rivendicare un passaggio di qualifica, il riconoscimento
della propria professionalità, denunciare condizioni di rischio, sotto la
potenziale minaccia di essere licenziato senza motivo. L’eliminazione di questa
norma - come ha sostenuto, tra gli altri, il giurista e docente Piergiovanni
Alleva - è un colpo ad un’intera impalcatura che fa dell’operaio, del tecnico,
dell’impiegato un individuo in grado di difendersi: di esercitare, appunto, i
propri diritti.
Un colpo che, infine, si è deciso
ad assestare il governo Renzi. Prima escludendo l’apporto e la mediazione del
sindacato nella definizione delle leggi riguardanti il lavoro e sostenendo le
posizioni di quella parte di imprenditori - in primis Marchionne e la Fiat - che
non riconoscono forme di rapporto sociale collettivo e pensano ad una società
basata sulla individualizzazione pressoché totale dei rapporti di lavoro. In
seguito con il Job act, il cosiddetto
“contratto a tutele crescenti”, che per i nuovi assunti elimina la tutela
fondamentale: quella al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa
e, in più, estende questa possibilità anche ai licenziamenti collettivi. Per
dimostrarsi più avanzato e moderno l’attuale governo interviene,
ridimensiona e modifica in peggio due altri articoli dello Statuto: il 4 che
vieta “l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, e il 13, rendendo possibile
la modifica in peggio delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto:
varando il “demansionamento”.
Non credo di forzare se sostengo
che per l’atteggiamento assunto nei confronti dei sindacati e per i
provvedimenti compresi nel Job act il
governo Renzi mette in atto sui temi del lavoro una regressione culturale che
ci riporta indietro a prima delle conquiste degli anni ‘60/’70 e a prima dello
Statuto voluto da Giacomo Brodolini. Un progetto, quello dell’attuale governo,
da respingere che non interessa solo il mondo pur ampio di coloro che lavorano,
ma tutti i cittadini italiani gelosi delle prerogative di libertà, democrazia,
dignità nel lavoro che la Costituzione afferma come principi fondamentali, in
particolare, agli articoli 1, 3 e 4.
Alessandria, 24 febbraio 2015