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Esperienze tra Oriente e Occidente
Le regole di comportamento nella tradizione "Dzogchen"
Fabrizio Uderzo
Tra gli appassionati del calcio si è  discusso da più parti, nelle passate settimane, del cosiddetto codice etico, un insieme di regole di comportamento cui i giocatori convocati per rappresentare l'Italia devono sottomettersi se vogliono continuare a far parte della nazionale. In realtà una società civile che vuole essere tale, dà una lunga serie di differenti regole che i suoi membri devono seguire nelle più svariate circostanze che la vita, soprattutto sociale, presenta.
Ma anche tutte le tradizioni religiose solitamente prevedono per il seguace una specie di codice di comportamento da seguire, ossia delle regole che impongono di fare questo e non fare quest'altro, di mangiare ad esempio una cosa e non mangiarne un'altra, di osservare delle prescrizioni eccetera. Anche se spesso sembrano incidere soltanto superficialmente, queste regole sono immaginate ed imposte perché si ritiene che esse svolgano un lavoro che non può non ripercuotersi nell'intimo dell'individuo che le mette in pratica. Per esempio si osserva che dei pasti pantagruelici, la cui digestione richieda molto lavoro ed energie, pesino troppo sull'equilibrio dell'insieme inscindibile corpo-spirito, con la conseguenza inevitabile per tutti, principianti e avanzati, di rendere greve e difficoltoso ogni tentativo di elevazione spirituale. Per questa ragione San Benedetto (480 ca. - 547 d.C.), fondatore del monachesimo occidentale, dispone nella sua Regola (capitolo XXXIX e seguenti) che il monaco si accosti alla mensa con spirito di sobrietà, affinché “... Il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
In Oriente Buddha Shakyamuni (566 a.C -  486 a.C.) consigliò ai suoi monaci e ai praticanti laici dei  pasti vegetariani. L'Induismo, il Giudaismo e l'Islamismo, da parte loro, prevedono una serie di comportamenti a cui il seguace deve attenersi, spesso  in modo assolutamente scrupoloso.
Invece nello Dzogchen che – sia detto ancora una volta – non può essere considerato una religione, si fa appello alla nostra consapevolezza responsabilizzando noi stessi. Nello Dzogchen, dunque, siamo noi stessi a dettare le nostre regole, ma ciò non significa che ognuno fa quello che più gli pare e piace infischiandosene delle leggi e delle norme di civile comportamento sociale dicendo: “Io pratico lo Dzogchen e faccio tutto ciò che voglio”. Non è così. Chi si trova nello Dzogchen, cioè nello stato primordiale che costituisce il fondamento dell'esistenza, sicuramente vede sorgere in sé – e sente intensamente – desideri, passioni e aneliti di tutti i tipi, e ciò ininterrottamente, ma li lascia scorrere e svanire naturalmente senza intervenire né per soddisfarli né per reprimerli. E allo stesso modo affronta e risolve i problemi che gli si presentano ogni giorno: e lo fa in modo tranquillo, assolutamente naturale, nel rispetto totale della società e del mondo in cui vive.
Diversamente, l'accorto praticante che non ha ancora scoperto attraverso la pratica questo stato  di autoliberazione,  adotta un codice di comportamento così come viene consigliato dall'insegnamento, e lo fa soprattutto per non creare nuovi ostacoli lungo il cammino che sta percorrendo. Ma poi, una volta entrato veramente nello Dzogchen, egli non ha più bisogno di nulla, perché la sua consapevolezza e la sua chiarezza sapranno consigliargli in qualsiasi circostanza il corretto modo di comportarsi. Il suo sarà un comportamento molto attento e nello stesso tempo spontaneo, diretto, privo di timori e pregiudizi, ben distante dal soffermarsi e indulgere su illusioni capaci di distrarlo dal suo stato.
Mano a mano che il praticante avanza sul sentiero che lo porterà alla liberazione finale, il suo comportamento può avere differenti aspetti. Spesso succede che il primo comportamento sia paragonabile a quello di un ape che vola in un prato pieno di fiori di tutti i tipi, grandi, piccoli, gialli, rossi, azzurri o di tanti altri colori. L'ape vola in cerca del polline, libera e felice, e non si fa condizionare da questo o quel fiore: si posa su uno di essi, assaggia e ne gusta un po' di nettare. Poi subito riparte e si ferma su un altro fiore e ne succhia il nettare e così via. Allo stesso modo il praticante, seriamente interessato all'insegnamento, arricchisce di esperienze la propria conoscenza finché non scopre la condizione reale.
Si dice che il secondo comportamento sia come quello di un animale ferito. Un animale ferito non va di qua e di là, perché la ferita lo ha reso debole e timoroso: si acquatta in un cespuglio per nascondersi a chi può fargli del male, cerca la tranquillità per poter guarire e diventare forte. Questa tranquillità, che nel suo stato di infermità e fragilità gli è necessaria, corrisponde, nell'insegnamento Dzogchen, allo shine, che è lo stato calmo della mente, uno stato di quiete dove i pensieri e le altre manifestazioni mentali possono non sorgere o, quando sorgono, lo fanno lentamente, di modo che non disturbano la concentrazione attenta del praticante. Come l'animale ferito rimarrà nascosto finché non sarà guarito, così il praticante cercherà il proprio stato calmo finché non sarà in grado di integrare tutti i fenomeni che sorgono nel suo vero stato esistenziale, chiamato, appunto, Dzogchen.
Poi c'è il comportamento del leone, che è libero di andare dove vuole e che non ha paura di niente e di nessuno. Questo si verifica quando si ha raggiunto una vera conoscenza e se ne è fatta l'esperienza reale. Qualunque pensiero, qualunque sensazione e qualunque circostanza sorgano, il suo stato equanime è incrollabile, la sua mente ferma e la sua libertà inviolabile. Egli è padrone di sé e mai compirà atti che possano danneggiare gli altri esseri e il mondo che lo circonda.
Volendo fare un esempio, possiamo dire che l'onestà pubblica e privata – che nel mondo d'oggi sembra molto spesso ridursi ad un lontano, pallido ricordo di un retaggio di passati tempi migliori  – per un tale praticante non è da considerarsi nemmeno una virtù, ma un semplice modo di essere e di agire, naturale e spontaneo, non un imperativo dell'etica imposto da un autorità morale o dall'ordinamento giuridico. E questo perché egli non viene condizionato dalla visione illusoria dei fenomeni che genera la cupidigia e tutto il resto.
C'è, infine, il comportamento che all'uomo comune potrebbe sembrare quello di un folle che non resta nei limiti. In realtà succede che il praticante ha raggiunto la capacità di integrare nel proprio stato sia il bene che il male senza distinzioni. A questo punto egli è in grado di superare i limiti concettuali creati dagli altri o dalle circostanze, perché egli si trova in uno stato dove i concetti non esistono nemmeno.

 
27/03/2014 22:40:49
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