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Esperienze tra Oriente e Occidente
Due grandi maestri della tradizione Dozgchen
Fabrizio Uderzo
Nella tradizione degli insegnamenti Dzogchen si trova un metodo di pratica che lavora al livello della mente e che  è chiamato semde: sem, infatti, significa letteralmente mente. In realtà la parola semde in questo caso è l’abbreviazione del termine changchubsem, il corrispondente tibetano di bodhicitta. Chang significa ‘puro’ o ‘purificato’; chub significa ‘perfetto’ o ‘perfezionato’: l’intero termine indica la natura della mente pura e perfetta fin dall’origine, il vero stato primordiale dell’individuo,

Nel buddhismo mahāyāna il termine bodhicitta sta a indicare la mente (citta) e l’intenzione di raggiungere l’illuminazione (bodhi), ma nello stesso tempo si riferisce alla natura fondamentale della mente che equivale all’essenza dell’illuminazione. Oltre a ciò il termine vuole denotare in generale l’aspirazione a realizzarsi per il beneficio di tutti gli esseri.

Nello Dzogchen il termine bodhicitta indica piuttosto lo stato primordiale di ciascuno di noi come sorgente di tutte le manifestazioni dell’energia: non solo una condizione di vuoto o di trasformazione. Il modo di coltivare la propria esistenza  in questo stato vien detta ‘autoliberazione’, continuare, cioè, nel puro riconoscimento non duale, senza essere condizionati dal fluire dei pensieri discorsivi. I ragionamenti e le analisi non servono più quando si tratta di incontrare direttamente la natura ultima della propria mente.

Uno dei primi grandi maestri che si soffermò sullo Dzogchen semde fu Nubchen Sangye Yeshe, vissuto nel IX secolo. Nella sua opera ‘La luce degli occhi per la contemplazione’ egli scrive:

Il veicolo chiamato Dozgpa Chempo (‘totale perfezione’) vien detto supremo perché rivela in maniera dettagliata il senso della spontanea e naturale perfezione di tutti gli infiniti fenomeni, così che possa essere compresa nella sua nudità. L’essenza di questo eccelso tesoro è uno stato spontaneo e naturale che bisogna percepire e riconoscere direttamente, in una pura presenza, senza l’intervento della mente concettuale: deve rivelarsi chiaramente alla propria pura presenza istantanea. Ma qual’è il metodo per accedere a questa conoscenza? Nella via dello yoga supremo non esiste un oggetto di conoscenza basato sulle scritture da dover analizzare con le proprie facoltà intellettive. Perché mai? Sin da’’origine la totalità dell’esistenza, senza mai mutare il pelo né cambiare colore, è lo stato naturale dell’illuminazione nella dimensione dell’unica sfera della saggezza autoriginata. Chi potrebbe mai individuarvi qualcosa di concreto da esaminare? Chi potrebbe addurvi ragioni? A quale conclusione filosofica si potrebbe arrivare? E in base a quali mezzi conoscitivi? La verità è che l’essenza di tutto, essendo inscindibile, non può proprio essere concepita dalla mente.”

Straordinariamente illuminante è stato poi un altro grande maestro e studioso della tradizione del semde, vissuto nell’undicesimo secolo, Rongzom Chökyi Zangpo, che nella sua opera ‘L’accesso al grande veicolo’ scrive:

Anche se numerosi testi trattano della tradizione Dzogchen, il suo senso fondamentale può essere riassunto in quattro punti: la natura del bodhicitta, la qualità di questa natura, i fattori che ne impediscono la presenza e il modo di renderla continua. In sostanza, se si riconoscono le sue qualità e i fattori che ne impediscono la presenza, si comprende automaticamente la sua natura. Se si riconosce la sua natura, si comprendono automaticamente le sue qualità e, di riflesso, i fattori che ne impediscono la presenza si dissolvono.”

Ma sentite come questo grande maestro si esprime circa la qualità del bodhicitta, termine che, ricordo, si riferisce non solo all’aspirazione di raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri, ma anche allo stato primordiale nella sua essenza:

“Per quanto riguarda il secondo punto, ossia la qualità del bodhicitta, in un’isola fatta di oro non esiste neppure il nome ‘pietra’, tutto è oro: in modo analogo, per la totalità dei fenomeni esterni e interni compresi nell’universo animato e inanimato non esiste neppure il nome di samsāra, di ‘stati inferiori’ e delle altre cose che consideriamo un difetto. Tutto risplende come ornamento dell’energia ininterrotta di Samantabhadra (ciò che è sempre bene’) ed è proprio questa la qualità dell’illuminazione”

Questo passo ricorda da vicino come espresse la sua realizzazione la prostituta Metsongma Parani vissuta in un epoca anteriore all’anno zero:

Poiché la mente è al di là di nascita e morte,

         anche se la si uccide non muore.

         Tutta l’esistenza è nettare:

per purezza e impurità non c’è posto dall’origine”

Dopo aver permesso a queste parole di adagiarsi sul fondo di noi stessi, è sicuro che  comprenderemo direttamente che non occorre fare più nulla. Resta il lieve calarsi nel silenzio che ci costituisce.

12/03/2016 20:35:37
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