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Esperienze tra Oriente e Occidente
Oltre la speranza
Fabrizio Uderzo

 

Forse per esorcizzare un presente penosamenteoscuro e tanto pieno di problemi di varia natura, in generale si fa spesso ricorso alla cosiddetta “speranza”. Si invita da più parti il cittadino, le famiglie e soprattutto i giovani a “non perdere la speranza” (Immagino nel futuro di questa società).

Più di qualcuno, in altri termini, ci invoglia a nuotare nell’illusione della speranza che presto o tardi arriverà una nuova età dell’oro e con essa la spensieratezza, l’allegria, l’ottimismo a prescindere, i brindisi con coppe ricolme.

Ma se non è un’illusione, cos’è in realtà la speranza? Se vogliamo riferirci alla sua accezione più elevata scopriamo che i cristiani cattolici la annoverano tra le virtù teologali insieme alla fede e alla carità. Ma è mia personalissima e modesta opinione che tale catalogazione sia pensata al solo scopo di spiegare, chiarire e descrivere tre aspetti diversi di un’unica virtù, quella che trae diretta origine dalla grazia e che genera uno stato indicibile e inspiegabile: come infatti si può pensare ad una speranza senza fede e ad una carità senza che vi sia fede e speranza? In riguardo alla speranza, si specifica che si tratta di una virtù teologale (cioè infusa nell’uomo da Dio) per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità (consisterebbe proprio in questo l’età.

Tutto ciò si evince dalla lettura del catechismo di Santa Romana Chiesa e dallo studio delle opere dei suoi teologi. Ma il mistico “sa” che possedere una virtù che per essere tangibile sottintende in modo imprescindibile la presenza pervadente e concreta dello stato di grazia, è già “regno dei cieli”, è già incomparabile felicità. È uno stato dell’essere in cui ciò che sorge viene assaporato come nettare che fluisce spontaneamente dal profondo e che pervade ogni piega della nostra dimensione, anche nel suo aspetto fisico e materiale.

Lo stato di grazia è la grazia detta “abituale” (Tommaso d’Aquino), cioè quello stato consistente nella partecipazione alla natura divina e, quindi, dono essenzialmente soprannaturale, e che, proprio perché soprannaturale, lo si direbbe incompatibile con la nostra natura umana, terrena e materiale, in particolare con il nostro corpo fisico. Ciò farebbe supporre che il ricevere un simile dono, la grazia, presupponga una raggiunta capacità di saper andare oltre la propria fisicità, oltre la pesantezza della nostra materialità, in altre parole (e più esattamente), oltre l’attaccamento al nostro corpo, che molto spesso fa sì che l’uomo si identifichi soltanto in esso, sorvolando tranquillamente e senza remore i propri aneliti interiori, le proprie vive e a volte prepotenti aspirazioni verso l’esperienza dell’Infinito. È commovente constatare come questo modesto essere appartenente al genere umano per sfuggire all’angoscia e allo smarrimento in cui lo getterebbe una seria ricerca sulla profondità della sua essenza interiore, finisca per attaccarsi in modo drammatico, spasmodico e irrazionale a quell ‘ elemento che lo costituisce e che è il più facile da percepire, data la sua materialità e la sua limitatezza: il corpo, che in realtà (sembra una disdetta), è destinato, per sua natura intrinseca, all ‘ inesorabile decadimento, all ‘ inevitabile declino che porta alla malattia e, alla fine, alla sua estinzione, ovvero a quel processo che comunemente viene  “morte”.

Capire con l’intelletto e ragionare su questi argomenti sembra cosa abbastanza elementare, ma il cammino, per colui che non si accontenta delle verità verbali, è ancora molto lungo e pieno di sorprese. Si può andare “oltre la speranza”.

Vieni, scopri questa strada quasi sempre nascosta e non importa se le mani sono trafitte, se il cuore giace in una pozza di stanchezza, se la mente si è perduta nella vuota landa del cosmo, non importa se i piedi sono scorticati e sanguinanti: questa è la via, questa è la strada che porta a dimensioni sconosciute e qui non si odono più i moti del mondo: questo è essenziale, una sorta di “conditio sine qua non”. Si esiste e basta. Ma si vive nella pienezza dell’essere, senza rifiutare nulla, senza giudicare nulla. E ad un tratto, improvvisamente, si viene folgorati dall’immensità, e questo capita nella notte squarciata da lampi lievi e assolati ad un tempo, mentre ormai abbiamo smesso di cercare l’incanto di strumenti.

Lasciar cadere l’immagine costruita ad arte, per abituarsi al disfacimento del corpo, senza più un fardello, senza pianto distorto. Tuffarsi in un deliquio profondo, abbandono completo del corpo. Uscire di casa, e non far più ritorno.

Nel cielo campi sconfinati, non più solo un orto.

01/05/2016 10:39:35
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