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Esperienze tra Oriente e Occidente
Cronache dal Paese di Zarathustra, nelle terre tra i due fiumi.
Antonio Olivieri

Ankawa Mall doveva essere un centro commerciale: oggi, i lavori si sono fermati, c’è solo lo scheletro, tra pilastri, muri divisori e arcate incomplete.

Qui sono arrivati da pochi giorni i profughi cristiani di Mosul e di Karakosh, sfuggiti alle bande nere dell’ISIS: 250 famiglie, per un totale di 1.100 persone. Sono gli attuali abitanti di Ankawa Mall. Il campo che stiamo visitando è stato allestito dall’UNHCR, ma la situazione appare subito disastrosa.

La gente sta stipata in box, ricovero per una famiglia di almeno dieci persone; nuclei famigliari inferiori, devono dividersi il box. Una tenda funziona da parete divisoria. Accanto ai box, sono stati sistemati fornelli e cucine.

C’è carenza di bagni e di servizi igienici che fanno crollare il livello delle condizioni igieniche: diarrea, malattie della pelle, scottature, affliggono i rifugiati. Parecchi sono ancora traumatizzati: quasi ogni famiglia ha perso qualche parente. All’interno di un box, ci fanno notare una ragazza, distesa su una branda, lo sguardo perso nel vuoto. Da settimane non parla. Muta di fronte a tanto orrore! A breve, tra un mese, cominceranno ad arrivare piogge e freddo invernale; ed allora, i problemi si moltiplicheranno.

Con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, il Kurdistan iracheno ospita 1.300 mila profughi, quasi il 30% della popolazione. Vivono in tende, campi, anfratti, palazzi in costruzione, scuole, in condizioni disperate. Il governo autonomo della regione kurda è stato il primo attore umanitario ad intervenire, aiutando questa improvvisa marea di profughi, apprestando ripari, trasporti, cibo, acqua e medicine. Ma fa quel che può. Da febbraio di quest’anno, sono venuti meno i trasferimenti del governo centrale e le casse della regione kurda sono al collasso. E pure l’UNHCR lamenta grosse difficoltà per scarsità di fondi.

Non c’è pace per chi fugge da guerra e terrore.

 

Makhmur si trova ai margini del deserto iracheno, a circa quaranta chilometri di distanza da Hewler, antico nome kurdo della città di Erbil. Assaltato due mesi or sono dalle bande nere dell’ISIS, è stato riconquistato dai guerriglieri del Pkk dopo una battaglia che ha avuto un suo pesante prezzo in termini di vite umane: sette morti e quattro feriti. Il campo, fatto di casupole in mattoni di terra cruda e pietra, ospita 12 mila profughi, fuggiti dal Kurdistan turco, quando l’esercito di Ankara ha cominciato a bruciare e bombardare i loro villaggi di frontiera. Inseguiti dagli elicotteri turchi, hanno attraversato le montagne coperte di neve che separano la Turchia dall’Iraq e sono arrivati in questa regione. Dal 2012, il campo di Makhmur è interessato da un progetto solidale dell’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, per la realizzazione di una struttura sanitaria permanente.

Manca anche l’acqua potabile  a Makhmur, quella che c’è è inquinata da idrocarburi, e per questo, viene trasportata quotidianamente con autocisterne da una falda acquifera pulita che si trova a circa dieci chilometri di distanza. Mancano medicinali a Makhmur. Manca anche l’unica ambulanza che c’era nel campo a Makhmur, rubata dalle bande dell’ISIS. La povertà ed il disagio sono evidenti, ma vissuti con dignità. Ci invitano per il pranzo: ospitalità generosa e cibi eccellenti. Al momento di ripartire, tanti bambini ci accompagnano con sorrisi e con il classico saluto con le dita divaricate a V. Due ragazze, kefia in testa, tute da guerrigliere e kalashnikof in spalla, ci salutano, mentre tornano dal turno di guardia all’ingresso del campo.

 

Bandiera kurda a mezz’asta all’entrata della sede del Parlamento regionale kurdo. Un devastante attentato con tre camion imbottiti di esplosivo ha fatto oltre cento morti a Karatepe, settanta chilometri da Kirkuk. Jaffar Ibrahim Eminki, vice presidente del Parlamento della regione, usa toni preoccupati e parla di momenti difficili: “ISIS ha cercato di conquistare Erbil, ma i peshmerga, pur essendo dotati di armi leggere, hanno respinto l’offensiva. Oggi siamo impegnati in combattimenti per riconquistare alcune nostre città. I nostri sforzi ci hanno portato al controllo della città petrolifera di Kirkuk, da sempre contesa e per la quale avrebbe dovuto tenersi un referendum, mai fatto. Sappiamo che ISIS dispone di armi chimiche: i nostri soldati feriti ne portano segni evidenti.  E oggi in Parlamento ci sarà una presa di posizione a sostegno dei nostri fratelli kurdi del Rojava e di Kobane, sotto assedio.”

All’incontro in Parlamento, abbiamo portato una bottiglia d’ acqua inquinata del campo di Makhmur. Chiediamo che il governo regionale del Kurdistan intervenga per garantire condizioni di vita e di salute migliori, stessa richiesta che, di lì a poco, facciamo a Sokol Kondi, di origine albanese ed oggi capo del dipartimento UNAMI dell’ONU.

Entrambi ci assicurano un loro interessamento. Staremo a vedere se alle parole seguiranno fatti concreti. Intanto, fuori, nei giardini difronte al Parlamento, kurdi siriani, turchi, iraniani ed iracheni hanno istituito da sette giorni un presidio per chiedere supporto ed interventi concreti a favore del Rojava e della cittadina di Kobane, la città che resiste, la “Stalingrado” kurda.

In Iraq, gli yazidi – o ezidi come amano definirsi in lingua kurda – prima che arrivassero le bande dell’ISIS, erano circa 600 mila; di questi, 400 mila vivevano in villaggi, tra i monti del Gebel Singiar, la zona al confine con la Siria.

Siamo saliti con il pulmino a Sexan (o Shaykhan), una città di 140 mila abitanti, dove vivono 6 mila yazidi, a cui se ne sono aggiunti altri 4 mila, profughi, in fuga dai massacri delle orde nere. Per arrivare fin qui – ci raccontano – hanno camminato su sentieri di montagna per dieci giorni.

Lo yadismo, insieme all’ebraismo, è la più antica religione del mondo.

Perseguitati da sempre. “Eravamo 17 milioni, siamo rimasti in 700 mila”, ricorda un loro detto. Gli islamisti sostengono che “adorano il diavolo”. Ma non è vero. La loro religione deriva dalle predicazioni di Zarathustra.

Gli yazidi sono una comunità chiusa, gli sono proscritti i matrimoni interreligiosi e sono coperti da un alone di segretezza. Sono di lingua kurda, festeggiano il Capodanno il primo mercoledì di aprile, pregano guardando il sole, propiziando prima per il prossimo e poi per se stessi. Il loro leader politico è l’Emiro (Amir), che nomina il capo spirituale, il “maestro” (Shaykh).

Nel villaggio di Baadre, poco distante, 12 mila abitanti, quasi tutti yazidi, siamo arrivati per incontrare una ragazza yazida di 17 anni, scappata dalla regione di Singiar, dove è rimasta prigioniera dell’ISIS per due mesi e dieci giorni. Richiede l’anonimato per paura di rappresaglie nei confronti dei suoi parenti ancora nelle mani dell’esercito nero. Ci racconta delle donne che venivano portate nei mercati per essere vendute come schiave. Lei, dopo ripetuti tentativi di fuga repressi con la prigione, è riuscita a fuggire, raggiungendo una prima casa che però le ha rifiutato l’ospitalità e quindi una seconda famiglia che l’ha aiutata nella fuga.

Lalish è la “mecca” degli yazidi. Si trova a 60 chilometri a nord di Mosul. ISIS ha tentato di attaccarla, per distruggere questo luogo simbolo. Senza però riuscirci. A Lalish si trova la tomba dello sceicco Adi Ibn Musefir, morto nel 1163, figura preminente della religione yazida. Almeno una volta nella vita, gli yazidi sono tenuti ad un pellegrinaggio di sei giorni per visitare la tomba dello sceicco e altri luoghi sacri. Ci muoviamo nel tempio tra otri piene di olio di oliva che si usano per alimentare le lampade votive; dalle colonne pendono drappi di sette colori diversi, a rappresentare i sette angeli di Dio. Tutt’intorno a Lalish ci sono profughi scampati alla furia dell’ISIS. Sono accampati ovunque, in tende, ripari di fortuna. Sono curiosi di noi.

A Sulemanya, cuore pulsante del commercio e dell’attività industriale, incontriamo il PYD, il partito dell’unità democratica del Rojava (Kurdistan siriano), il più importante partito kurdo della regione. Ci ricevono con la formula consolidata del tandem uomo/donna, ovvero un presidente e una co-presidente. Sono tre ore di confronto e di discussione, dove, al centro sta l’esperienza del l’autogoverno dal basso del Rojava, le assemblee popolari, l’autodifesa popolare armata di uomini e donne contro le bande assassine dell’ISIS, la democrazia paritaria.

In Siria, vivono 3 milioni e mezzo di kurdi, due e mezzo nel Rojava. Kobane, che fino a qualche mese fa, era solo un puntino sulla carta geografica della Siria, oggi è conosciuta in tutto il mondo, per la strenua resistenza contro le forze dell’ISIS. Dal 2012, il Rojava è stato suddiviso in tre cantoni: Cizire, Afrin e Kobane.

Ciascun cantone con un’autonomia amministrativa, una propria Costituzione ed una rappresentanza parlamentare comprensiva di tutti i gruppi etnici e religiosi. Per ogni carica, c’è un corresponsabile uomo e donna. Le donne sono rappresentate in tutte le istanze nella misura del 40%. Ci sono tre lingue ufficiali: il kurdo, l’arabo/siriano e il siriano (aramaico).

“Purtroppo, in questo momento di guerra, l’economia è a pezzi - ci dicono – l’esempio del Rojava con la sua democrazia partecipata e paritaria, rappresenta un modello dirompente per tutto il Medio Oriente. Per questo, vogliono  cancellare questo esperimento”.

E l’ISIS prontamente esegue. Ma i burattinai stanno da un’altra parte; da un lato, fanno parte anche nella coalizione dei settanta Paesi che si battono contro l’ISIS, ma dall’altro, finanziano e coprono le gesta degli uomini del terrore. Hanno ambizioni di potenza nello scacchiere mediorientale.

In questo i kurdi sono veramente soli. Non hanno ripari, non hanno amici, gli unici amici siamo noi, sono i popoli.

26/10/2014 15:16:27
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