(appena pubblicato sulla rivista "Eguaglianza e Libertà")
Il protrarsi della crisi, indotto dalla
politica di austerità, funzionale a forzare riforme che sarebbe difficile far
passare in tempi normali, sta facendo crescere in vari paesi i partiti che
chiedono un’alternativa e l’anno prossimo ci potrebbero essere i primi cambi di
governo. Anche Renzi è sul filo del rasoio
La crisi si annunciò nell’autunno del
2008, dopo il collasso della Lehman Brothers, come tendenzialmente globale,
paragonabile a quella del 1929. Ma mentre entriamo nel settimo anno del dopo
crisi quel giudizio deve essere corretto. Il rischio di una crisi globale è
stato scongiurato. L’unica area che vi rimane impantanata è l’eurozona. Non si
tratta di un esito fatale. E’ sempre più evidente che il problema non è nella
natura della crisi, ma negli strumenti utilizzati per governarla. Non solo
inefficienti, ma un boomerang che ne estende e moltiplica gli effetti
disastrosi.
La responsabilità di questo stato di
cose è generalmente attribuita alla politica di austerità imposta da Berlino e,
in subordine, alla tecnocrazia di Bruxelles. Ma è una verità parziale e, per
molti versi, un alibi. Le politiche di austerità, ormai universalmente
considerate sbagliate e irragionevoli quanto devastanti, non sarebbero
applicabili senza il consenso e la complicità più o meno aperta dei governi che
condividono la responsabilità dell’eurozona.
Il caso della Francia e dell’Italia è
eloquente. Si tratta dei due paesi che, insieme alla Germania, sono all’origine
prima dell’Unione europea, poi dell’euro. Il passaggio all’euro fu in
particolare il risultato della determinazione della Francia con Mitterand e
Delors, in un quadro d’incertezza, se non di ostilità, della Germania, superato
solo in virtù dalla scelta di Kohl che considerò l’euro come un necessario
fattore di riequilibrio dei rapporti europei dopo l’unificazione tedesca.
L’austerità adottata come risposta alla
crisi finanziaria del 2008 era conforme alla tradizionale politica tedesca. In
Germania gli effetti restrittivi della domanda interna sono tradizionalmente
bilanciati da un costante ed enorme avanzo commerciale basato sulla sua potenza
industriale. Non è la stessa cosa per la maggior parte dei paesi della moneta
unica, dove la caduta della domanda interna si traduce immediatamente nel
circolo vizioso di riduzione della crescita e aumento della
disoccupazione, .
Si tratta esattamente di ciò che è
successo con la politica dell’austerità. Concepita come strumento di riduzione
del debito ha prodotto l’effetto contrario. In tutta l’eurozona il debito è
cresciuto, e in alcuni paesi in modo patologico. La Grecia sottoposta alla cura
massacrante della della Troika ha visto aumentare il suo debito fino al
175 per cento del Pil. La Spagna, che era il paese più “virtuoso” con un
rapporto debito/Pil inferiore a quello della Germania, l’ha visto salire dal 40
a quasi il 100 per cento, mentre un quarto della popolazione attiva rimaneva
disoccupata.
La domanda è come sia stato possibile
che i governi e le élite nazionali si siano ciecamente sottoposti a un tipo di
politiche così insensate rispetto alle quali i costi superano chiaramente
i benefici attesi. La risposta è nel fatto che l’austerità non è stata mai
presentata e praticata come una politica autosufficiente e fine a se stessa.
Essa è parte di un binomio indissolubile che lega l’austerità alle riforme di
struttura.
In effetti, nessun governo nega gli
inconvenienti dell’austerità. Ma, dal punto di vista delle élite economiche
dominanti, i suoi danni immediati trovano una compensazione negli effetti a
lungo termine delle riforme strutturali.
Vi è di più. L’austerità, con il clima
di emergenza che genera, un livello insopportabile di disoccupazione e
l’inarrestabile impoverimento delle famiglie, crea i presupposti di quelle
riforme strutturali (in altri tempi si sarebbero definite “controriforme”) che
per la loro impopolarità sarebbe difficile, se non impossibile, attuare in
condizioni normali. C’è da aggiungere che, a differenza dell’austerità, le
riforme di struttura hanno l’ingannevole vantaggio di presentarsi politicamente
come una formula ibrida di modernizzazione, facilmente adattabile alla retorica
della destra come della sinistra.
In effetti, al di là delle variazioni
sul tema, il cuore delle riforme strutturali si concentra in un trittico
elementare: la riduzione della spesa pubblica destinata allo stato sociale; la
definitiva deregolazione del mercato del lavoro con la liberalizzazione dei
licenziamenti; la privatizzazione dei settori manifatturieri e dei servizi
ancora pubblici in grado di generare profitti.
La trappola dell’eurozona ha funzionato
perfettamente con i governi di destra, come si è visto nella Spagna di Rajoy o
nella Grecia di Samaras. Niente di anomalo fin qui. L’anomalia sta piuttosto
nelle politiche dei due governi di centrosinistra di François Hollande e Matteo
Renzi. Entrambi hanno posto le riforme strutturali al centro dei loro programmi
con l’obiettivo di ottenere dalla tecnocrazia di Bruxelles qualche misera
indulgenza rispetto ai vincoli dell’austerità che impongono una marcia forzata
verso il pareggio strutturale del bilancio e la riduzione del debito.
Hollande e Renzi, alla testa della
seconda e della terza economia dell’eurozona, potevano mettere in discussione
con ragioni inoppugnabili la politica dell’austerità. Non l’hanno fatto.
Hollande, divenuto il più impopolare presidente della storia della V Repubblica,
cerca di conservare l’apparenza di una tramontata partnership con la Germania;
mentre Renzi cerca di ottenere un’illusoria benevolenza della Germania e,
secondariamente, di Bruxelles, in cambio delle riforme, tra le quali non a caso
spicca la riforma del lavoro.
E’in questo quadro d’impotenza e
rassegnazione che Francia e Italia affidano le speranze di una svolta al piano
Junker e alla nuova strategia annunciata da Mario Draghi. Ma il piano Junker si
rivela un puro strumento di distrazione di massa. La cifra di 315 miliardi di
euro da suddividere in tre anni tra 28 paesi è una goccia d’acqua nel deserto
degli investimenti. La prima manovra di Barack Obama, quando s’insediò alla
Casa Bianca, fu uno stanziamento, a carico de bilancio federale, di 800 miliardi
di dollari – un ammontare considerato insufficiente da molti economisti
americani, probabilmente a ragione, ma che contribuì a bloccare la caduta
dell’economia e a incentivare la ripresa dell’occupazione.
Al di là dell’esiguità del piano, in
realtà i trecento miliardi non esistono, dal momento che i fondi messi a
disposizione dalla Commissione europea, sommati a quelli della Banca europea
degli investimenti, corrispondono a 21 miliardi, mentre un ammontare quindici
volte maggiore dovrebbe provenire dal settore privato. Una bolla di sapone che
dovrebbe offendere la normale intelligenza di un qualsiasi rispettabile
governo.
Più seria appare l’attesa di una svolta
della Banca centrale europea che nelle intenzioni di Mario Draghi dovrebbe
immettere nell’economia reale almeno 500 miliardi di euro, offrendo liquidità
alle banche private e – la grande novità – acquistando direttamente
titoli di Stato.
Ma, quanto alle banche, il problema
fondamentale non è la mancanza di liquidità, ma la mancanza di domanda di
credito da parte delle imprese. Lo dimostra il fatto che le banche non stanno
utilizzando, se non in misura molto ridotta, la disponibilità di risorse già
messa a disposizione dalla BCE a tassi prossimi alo zero, in funzione di un
ampliamento del credito a favore delle piccole e medie aziende e delle
famiglie. Un rilancio degli investimenti non può venire da questo lato.
La novità di un “quantitative easing”
europeo acquista senso solo nella misura in cui gli Stati nazionali possano
attingere alle risorse offerte dalla BCE non solo per il rinnovo del debito in
scadenza, ma per finanziare un grande piano di investimenti pubblici
immediatamente operativo, in grado di mobilitare risorse private inattive e
rilanciare crescita e occupazione.
In questo caso, si tratta di spesa
pubblica destinata nel breve periodo ad accrescere il disavanzo oltre le soglie
dei vincoli europei. In altri termini, si tratterebbe di operare una netta
distinzione fra la spesa corrente, da contenere, e la spesa per investimenti da
accrescere in una misura idonea a rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma è
esattamente questa distinzione che le autorità dell’eurozona e la
Germania non consentono. Ne discende che anche l’attesa messianica di un
intervento salvifico della BCE finisce con l’urtare e infrangersi contro gli
irragionevoli vincoli dell’eurozona. Un cane che si morde la coda. L’auspicata
espansione monetaria in un quadro di restrizione fiscale è un circuito che non
si chiude con l’impossibilità di rilanciare investimenti, crescita e
occupazione.
La rimozione dei vincoli che paralizzano
l’eurozona è un problema politico che implica una chiara svolta nei confronti
dell’asse Berlino-Bruxelles. E’ un obiettivo possibile, oltre che auspicabile?
La risposta rimane fortemente incerta. E, tuttavia, il 2015 presenta un quadro
in movimento che lascia intravedere nuovi possibili scenari.
Sorprendentemente, proprio la Grecia che
innescò la crisi finanziaria dell’eurozona oggi si presenta come una possibile
traccia di svolta politica. Syriza, il partito della nuova sinistra di Alexis
Tsipras, è secondo tutti i sondaggi d’opinione, il più che probabile vincitore
delle prossime ravvicinate elezioni generali. La novità che potrebbe cambiare
le sorti della Grecia ma anche aprire un nuovo scenario nell’eurozona è
nell’originalità della posizione di Tsipras. Il suo programma esclude in linea
di principio un’uscita dall’euro, mentre rivendica una ristrutturazione del
debito e una rinegoziazione dei vincoli di bilancio come strumento di
un’inversione delle politiche sociali, a cominciare dall’aumento del salario
minimo legale, la riduzione delle tariffe pubbliche per le famiglie più povere,
un aumento dell’occupazione nei servizi pubblici. In sostanza il superamento
del binomio austerità-riforme di struttura che ha massacrato la Grecia,
riducendo di un quarto il prodotto nazionale e portando la disoccupazione a u
disastroso 25 per cento della popolazione attiva.
Si tratta di un fondamentale cambiamento
di scenario politico non solo per la Grecia, ma per l’eurozona nella misura in
cui sarebbe superata l’alternativa ricattatoria: dentro o fuori dell’euro. Il
rifiuto da parte delle autorità europee di ridefinire i termini di un
ragionevole rapporto con uno stato membro, che non professa una politica anti-europea
(come accade per l’UKIP in Gran Bretagna, e nemmeno anti-euro, com’è il caso
del Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia) non potrebbe rimanere chiuso
nei confini greci. La scelta di una prima rottura con la Grecia, fino alla sua
espulsione, aprirebbe la strada a una probabile reazione a catena.
Il primo dei paesi a trovarsi in una
condizione analoga a quella greca è la Spagna con la sconfitta del governo
Rakoy, che alle elezioni europee ha perduto il 20 per cento dei voti.
L’emersione di Podemos, erede del movimento degliIndignados e oggi
dato come primo partito dai sondaggi di opinione, potrebbe aprire la strada a
una nuiva alleanza col Partito socialista, in direzione di un'alternativa
a una potica votata al binomio austerità-riforme strutturali, che ha compiuto
il "miracolo"di far esplodere il debito e portare la disoccupaizone
allo stesso livello della Grecia..
Il paradosso politico dell’eurozona è
che dove governano i partiti di destra si delinea come possibile un’alternativa
di sinistra in linea di principio non contraria all’euro ma decisa a cambiarne
la politica autodistruttiva. Al contrario, in Francia, dove governa il Partito
socialista, l’alternativa è l'avanzata della destra di Marine Le Pen con un
programma di uscita dall’euro.
L’Italia si presenta con un quadro
economico disastroso, reduce da tre anni di recessione e destinata a una lunga
fase di ristagno e di disoccupazione, già più che raddoppiata rispetto
all’inizio della crisi nel 2008. E non è un caso che, secondo i sondaggi condotti
per conto della Commissione europea, per la prima volta la maggioranza degli
elettori si dichiari contraria all’euro o, quanto meno, alla politica corrente
dell’eurozona.
Il governo di Renzi corre sul filo del
rasoio. Il consenso plebiscitario ottenuto alle elezioni europee appare
fortemente logorato dalla persistenza e dall’aggravamento della crisi. Nel caso
probabile di elezioni anticipate alla prossima primavera, il movimento di
Grillo, che chiede un referendum sull’euro, consoliderà verosimilmente la sua
posizione di secondo partito, mentre al terzo posto potrebbe emergere la Lega
di Salvini schierata sulle posizioni del Fronte nazionale di Marine Le Pen. Con
la probabilità che ciò che resta del fronte berlusconiano, una volta esaurite
le ragioni del sostegno implicito al governo, adotti formalmente una posizione
di rottura con le politiche europee.
Il rischio che si riproduca in Italia
una situazione di tipo francese con altri protagonisti è tutt’altro che remoto.
Sarebbe la riconferma di una prospettiva che fa delle forze di centrosinistra
storicamente europeiste, le vittime eccellenti dell’assurda e masochista
politica dell’eurozona.
In questo quadro appartiene al normale
buon senso constatare il fallimento dell’eurozona, proprio quando la crisi del
2008 avrebbe dovuto mostrarne ed esaltarne le capacità di reazione ed esiti più
apprezzabili rispetto a quelli verificatisi in altri paesi o aree ugualmente
colpiti. Ora la crisi economica con la sua deriva sociale minaccia di corrodere
in profondità le basi della democrazia dei paesi più in difficoltà. Ogni
previsione sul futuro dell'eurozona a medio termine si presenta
problematica. Ma non è un azzardo ritenere che il 2015 si annunci per molti
aspetti come un anno cruciale per il suo destino.