Siamo di nuovo impegnati in un ulteriore anniversario storico, dove con la consueta affettata cortesia la grande stampa e la grande editoria ci propina saggi, bilanci storici ben confezionati quanto poco accurati e di chiaro taglio politico più che scientifico. E così dopo il ricordo del centenario della prima guerra mondiale, dopo il centenario della ‘Rivoluzione d’Ottobre’, ecco il centenario della nascita del PCI, che avvenne a Livorno nel gennaio del 1921, come scissione della componente comunista dal corpo del socialismo italiano al temine di un drammatico congresso svoltosi in quella stessa città. La ricostruzione che va per la maggiore stigmatizza la scissione denunciando come questa, perpetuata dai comunisti, abbia causato l’indebolimento del fronte progressista e dunque l’avvento del fascismo. A parere di chi scrive tale ricostruzione non può che risultare forzata, tendenziosa nei suoi scopi, incapace di tener conto di un contesto più ampio di cause e connivenze che portarono il fascismo al potere, e che, dunque, accusare la scissione di Livorno, pur essa giudicata per il tempo e per le modalità in cui essa fu portata a termine del tutto insoddisfacente anche per un dirigente comunista del calibro di Gramsci, di essere la causa prima e ultima del ventennio fascista è francamente troppo. Tuttavia non sarà il primo e nemmeno l’ultimo tentativo di insultare i fatti storici pur di far avanzare tesi che sono solo politiche e buone sopratutto per le polemiche del presente. Credo ci sarà modo di ritornarvi sopra.
Il secolo che ci separa dalla scissione di Livorno dovrebbe essere l’occasione per riflettere su che cosa è stato il PCI nella storia d’Italia e su che cosa sia il comunismo nel mondo d’oggi. E sarà utile, al fine della riflessione, uscire da una vecchia diatriba storica a cui ormai non vi si attiene neanche più l’Istituto Gramsci guidato da Giuseppe Vacca, sul tema del PCI partito totalmente autonomo da Mosca, oppure partito meramente eterodiretto dalla centrale dell’Internazionale. Che il PCI nasca dentro lo sconvolgimento portato dalla grande guerra e dalla fiducia rinata nelle terre lontane di Russia, grazie all’Ottobre rivoluzionario, è fatto incontrovertibile. Il PCI è una sezione della internazionale comunista, i grandi spazi di autonomia dentro il mondo comunista saranno via via ampliati solo dopo che il partito si sarà rifondato al rientro in Italia dopo la caduta del fascismo. Semmai trovo più interessante indicare come chiave di lettura due elementi che determinano la dinamica e le oscillazioni e le rotture della storia comunista in Italia. Da un lato c’è l’adesione alla rivoluzione bolscevica che voleva essere la scintilla di una grande esplosione rivoluzionaria europea, e quando questo non si determinò la rivoluzione guidata da Lenin si pose l’obiettivo di essere l’avanguardia di una rivoluzione anticoloniale che liberasse dalle grinfie dell’Occidente tutti i popoli assoggettati. Come grande movimento di riscatto dei popoli un tempo colonie la rivoluzione d’Ottobre ancora sviluppa i suoi effetti nel mondo, ( si pensi alla Cina e al Vietnam attuale), ed è elemento centrale della storia del presente. Dall’altra parte il PCI, componente di un movimento comunista anticoloniale, non può che essere legato al problema della mancata rivoluzione in Occidente, della questione di quale sviluppo poteva avere nel mondo capitalista a democrazia liberal rappresentativa un partito comunista rivoluzionario e marxista.
E’ qui il tema che più si aggancia al presente, ovvero la scomparsa del marxismo in Occidente, l’oblio di una cultura che comunque aveva rappresentato uno stimolo a porre il tema concreto dell’universale, ovvero dell’uguaglianza sociale e umana di fatto, dentro un sistema liberale e capitalista che nelle sue premesse sostanziali la escludeva, (l’uguaglianza), categoricamente. La scomparsa del Marxismo dalle nostra regioni non ha una data precisa, è un processo, anche se si può dire che la speranza di attivare una ‘rivoluzione in Occidente’ resiste fino a poco dopo il 68’. Tuttavia il declino culturale, prima fra le masse e fra i movimenti poi, è determinato dalla sempre pregnante opera di livellamento della cultura consumista presente nel capitalismo, e inoltre, dalla scarsa egemonia che esercita su questa parte del mondo il cesarismo di stampo sovietico, che già Gramsci segnala nei Quaderni negli anni trenta, e che l’intellettualità europea e americana dagli anni cinquanta in avanti stigmatizza teoricamente; si pensi agli scritti di Adorno, Arendt e Foucault, alla loro continua e incessante opera di distruzione della dialettica marxiana e hegeliana.
Già nel 68’ i nuovi movimenti sono egemonizzati, per la loro posizione filosofica e ideale, da una cultura antistoricistica fondamentale. La crisi del marxismo, della sua cultura, si accompagna al declino della politica comunista, ovvero al persistere di quell’elemento di alterità, di indicazione di un altro modello, rispetto alla società presente e alle sue istituzioni intese nei loro limiti formali invalicabili. Come scrisse anni fa bene Adalberto Minucci, in un saggio contrario allo scioglimento del PCI, la politica di Togliatti rifiutava l’adattamento riformista al modello Occidentale capitalista, ma allo stesso non accettava l’ esclusione dal sistema istituzionale. Togliatti pretendeva che il suo partito fosse una contraddizione vivente e presente nel sistema istituzionale dato, mantenendo viva la fiamma di una possibile alternativa. Quando nel PCI il senso di questa felice contraddizione si è sciolta perché si riteneva di non poterla più sostenere il PCI ha decretato la sua fine, si è consegnato con rassegnazione al nemico raccontando al popolo che si era all’alba di una nuova avanzata. Ciò che è sopraggiunto dopo, compreso il PD, non ha più veri legami con il nocciolo storico della vicenda dei comunisti italiani.
Il caso di Rifondazione Comunista è conseguenza di questa storia. Divisa al suo interno dal significato da attribuire ad una eredità difficile come quella del PCI e del movimento comunista internazionale nella fase del declino della presenza del marxismo nella società e nei movimenti europei e americani, eredità in buona parte rifiutata e solo simbolicamente accettata, certamente Rifondazione non ha saputo o voluto accettare le coordinate della politica togliattiana. Così ha scelto, certamente condizionata da un mondo esterno, istituzionale e sociale, diventato più ostile ai comunisti, o un corno del dilemma oppure l’altro, ovvero per un momento le alleanze istituzionali e un momento l’immersione nei movimenti, lacerandosi ogni volta nella scelta determinando così, Rifondazione, la propria fine, minata da continui scossoni al proprio edificio.
Resta da comprendere il percorso parallelo del Socialismo Democratico in Europa. Modello di successo fino a quando il principio di eguaglianza nella economia Keinesiana era accettato come compromesso. Declinato il grande compromesso capitale lavoro, l’abbandono dell’ancora marxista ha determinato nei partiti socialisti la scomparsa del discrimine che li divideva dal liberalismo. Tutto oggi è liberalismo, e se così resterà anche il Socialismo è destinato ad essere predicazione di minoranze sparute. Non meglio va per i movimenti, attivi e protagonisti dei conflitti, ma sempre per poco tempo, sempre per incidere, e spesso poco, sui margini del sistema. Disancorati dai grandi temi della alienazione nel lavoro sono pure essi ciechi e sordi alla necessità nell’azione di un richiamo strategico più ampio e consapevole. Ma questi sono temi dell’oggi verso cui tutti, nel ripensare la storia, sono richiamati ad un dovere di intervento consapevole. Che speriamo non tardi ancora molto.
Alessandria 2-01-2021
Filippo Orlando.
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