[Nel pomeriggio di sabato 28 settembre, alle 17.30, presso la Sala Convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona (via Emilia 168) il locale Circolo del Cinema organizza il convegno 1979-2019: 40 anni di Alien. Riflessioni a cura di Danilo Arona, Stefano Priarone e Nicola Santagostino. Si anticipa qui uno degli interventi contenuti nell’apposita pubblicazione prevista per la circostanza]
Ci sono nessi assai evidenti tra il lavoro sul fantagenere di Ridley Scott e quello di David Cronenberg, del quale il Circolo si è occupato a fondo a inizio d’anno, come suggeriva allora nella sua eccezionale relazione anche Emanuela Martini. E non sono soltanto, ovviamente, di carattere intrinseco, come si accennerà tra poco, ma anche attinenti la solo apparente estrinsecità della vita, nelle rispettive parabole biografiche.
Cronenberg, tornato recentemente in Italia per la vernice dell’ennesima versione dell’amata mostra Red Cars al MAC di Lissone e la coerente riproposizione di Crash restaurato a Venezia, è stato chiarissimo nelle dichiarazioni (le riporto da “Repubblica” del 5 settembre, consapevole della loro…gravità): “Non faccio più film perché sono stanco e annoiato di fare cinema. Pensavo di avere chiuso. Ma guardando delle serie su Netflix ho iniziato a pensare: ‘Questo sì che è interessante’. Mi piacerebbe girare una serie dal mio primo romanzo, Divorati. Non vado mai al cinema, non è più piacevole: c’è la pubblicità, la gente guarda lo smartphone e mangia popcorn. Guardo i film a casa, ormai abbiamo grandi schermi piatti con audio surround, la qualità è molto buona. L’idea del cinema come di una meravigliosa esperienza comune è un’esagerazione, forse valeva negli anni Quaranta o Cinquanta quando non c’era la tv. Credo che si possa avere un’esperienza cinematografica vera a casa, con gente che ti piace. Mentre al cinema spesso capiti con gente che non ti piace. Credo che il modello Netflix sia il futuro del cinema. Il nuovo cinema sarà fatto di serie tv in streaming”.
Così siamo messi, inutile girarci intorno: Barbera dalla sua trionfale Venezia ci rassicura sulle magnifiche sorti e progressive del cinema in questo quadro “evolutivo”, e vogliamo almeno fingere di credergli. Ma il sospetto allora avanzato che anche l’immatura scomparsa della consorte-collaboratrice Carolyn due anni fa possa aver contribuito a inaridirne, se non la vena, la voglia, è legittimo e fondato: così come quello che l’altra dipartita tragica, sette anni or sono, del fratello e collega Tony, cui era da sempre legatissimo e col quale divideva anche imprese produttive di assai vasto impegno, non abbia aiutato il progredire del lavoro dell’altrettanto grande Ridley Scott.
Lasciando ai decisamente più competenti e appassionati amici qui compresenti l’analisi della sua opera oggetto del convegno e del presente quaderno, qualche parola sulla restante, imponente produzione dell’oggi presso che ottantaduenne maestro anglosassone. Meno intellettuale del collega canadese, ma non meno appassionante.
Bisogna riandare al remotissimo 1977, l’anno in cui scomparvero uno dopo l’altro Rossellini, Chaplin e Hawks. Ma Rossellini stesso, presidente di giuria a Cannes, dodici giorni prima di morire improvvisamente fece in tempo a entusiasmarsi per la sua opera prima, I duellanti, sebbene gli facesse poi preferire per la Palma -il Signore, soggetto del suo conclusivo Il Messia, avrà anche in ragione di questo provveduto a perdonarlo…- Padre padrone dei Taviani, pur rimediando col premio speciale della giuria eccezionalmente a un’opera prima. Entusiasmo che sarebbe stato da lì a poco e per l’intera annata successiva condiviso via via dagli spettatori di tutto il mondo: e ancora oggi l’ininterrotto affrontarsi dell’ancor giovane Keitel e del giovanissimo Keith Carradine -prodigiosi entrambi dentro un cast di gruppo da manuale- sullo sfondo di un’impeccabilissima ricostruzione del primo quindicennio dell’Ottocento, col trapasso dall’apoteosi napoleonica alla Restaurazione, resta nel ricordo (ma anche nel ritorno alla visione) un’emozione profonda tra quante scaturite dal grande schermo. Poi cominciarono ad arrivare anche le docce scozzesi: dopo il passo doppio fondamentale e consecutivo di Alien e Balde Runner, ero presente all’inaugurazione di Venezia 1985 con Legend, e ricordo ancora benissimo il senso di sorpresa e smarrimento che pervase uniformemente tanto la sala grande che l’arena, di fronte a quella pur raffinatissima, ma inusitata e fine a sé stessa fantasia fiabesca. A favore della quale poi mi pare che neppure il Tempo Galantuomo abbia stavolta lavorato.
Da quel momento si cominciò ad imparare salutarmente l’esistenza parallela di due diversi Ridley Scott: uno manifestamente “autoriale”, talora persino troppo; l’altro esplicitamente “imprenditoriale” e grandeggiante, seppur capacissimo di cogliere altrettanto e anche più nel segno. Negli oltre venti film congedati da allora, nel trentennio intensissimo 1987-2017, ha assemblato passaggi fondamentali (Black Rain e Thelma e Louise soprattutto: ahimè sono i più indietro nel tempo…), blockbusters epocali (Il gladiatore, Le crociate, Robin Hood, Exodus – Dei e re) e operazioni che avrebbe potuto francamente anche trascurare (Soldato Jane, Hannibal, Un’ottima annata, per infilarne qualcuna a caso: senza la pretesa di passare sistematicamente in rassegna una prolificità pervicace e talora decisamente sovrabbondante).
Ma è proprio sul finale delle rispettive carriere che le parabole di Cronenberg e di Scott sono parse venir sintomaticamente ricongiungendosi, anche nell’intrinseco, in significativo parallelismo. Alien Covenant segna, in un crescendo wagneriano anche esplicito, il massimo livello descrittivo della contaminazione fisica neoxenomorfa: un tema che serpeggia neppur troppo implicitamente in tutti i precedenti sviluppi -quelli effettivamente coerenti e centrali- della parabola Alien. Nello stesso modo con cui è esplicitamente presente in maniera costante e misura ricorrente in grandissima parte del lavoro cronenberghiano, già a partire dagli anni Settanta nei primi film. Una costante tematica che Nicola Santagostino ha illuminato nel convegno Cronenberg (lo si veda ora in “Cineforum”, 583, aprile 2019) e sviluppa adeguatamente qui e ora.
Non è casuale che dal primo Alien si sia sviluppato un immane movimento multiplurimediale, forse senza precedenti, in quanto paragonabile o addirittura superiore a quelli suscitati da Star Trek nel decennio Sessanta, o da Guerre stellari in quello successivo. Ma Alien è anche il film che, quarant’anni fa, ha impresso una svolta al cinema americano. Assieme a un secondo coevo, Apocalypse Now di Coppola. Di questo però un’altra volta, ove se ne presentasse l’occasione…
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