Cosa serve per un partito nuovo

Al netto delle buone intenzioni – che non mancano mai – il proposito di Zingaretti di rifondare il Pd un risultato l’ha già ottenuto. Ed è un paracadute – molto ampio – nel caso andasse male in Emilia. Pre-annunciare un congresso di rinascita serve innanzitutto nel caso il partito uscisse con le ossa rotte dalla sfida del 26 gennaio. A quel punto, invece di uno psicodramma collettivo e la richiesta di dimissioni, ci sarebbe già in calendario la mobilitazione catartica. In cui lo stesso Zinga potrebbe provare a resuscitarsi. Sul piano tattico, dunque, chapeau al Segretario, e a chi lo consiglia.

Paradossalmente, le cose sarebbero più complicate se le elezioni dovessero andar bene. Conoscendo la mentalità degli oligarchi e relativi apparati correntizi, a quel punto il riflesso sarebbe di incassare il risultato e godersene le prebende. Innanzitutto nei confronti degli alleati coltelli di governo, che farebbero la figuraccia di aver corso da soli mettendo inutilmente a rischio l’Emilia – e lo stesso governo. Ma anche verso il Segretario, che avrebbe tutto da guadagnare da un congresso che lo consacrerebbe come il vero vincitore della controffensiva a Salvini. Se Zingaretti ha qualche chance di cambiare – finalmente – qualcosa nel partito, sarà, dunque, solo grazie al pre-annuncio su cui sta insistendo in questi giorni. Chiarito che il principale obiettivo è quello – legittimissimo – di rimanere in sella, c’è anche dell’arrosto dietro il fumo dei fuochi di artificio annunciati per dar vita al partito nuovo?

Il nodo – ancora sottotraccia – è il solito. Se per rinnovamento del partito si intende dare spazio a nuovi protagonisti e nuove idee, senza chiarire tempi e modalità, i notabili di vario ordine e grado possono starsene tranquilli. Resteranno sempre loro a gestire gli svincoli del potere interno: le elezioni degli organismi dirigenti, la selezione per le cariche elettive, le zuffe per il sottogoverno. Tutt’altra musica sarebbe, invece, se il nuovo corso mettesse in discussione il meccanismo attuale basato su circoli e tesseramento. E spalancasse le porte a tre riforme fondamentali dell’organizzazione.

La prima riguarda il ruolo delle primarie permanenti. C’è una norma nello statuto recentemente modificato che prevede obbligatoriamente l’iscrizione a una anagrafe elettronica per partecipare alle primarie. È una vera rivoluzione. Che pone le basi per un partito con una base di oltre un milione di militanti web, mobilitabili e consultabili su una gamma infinita di questioni. Quella pratica di democrazia elettronica che su Rousseau è rimasta confinata a una ristretta cyberelite e a pochissimi appuntamenti referendari, potrebbe trovare nel Pd un orizzonte fertilissimo di innovazione e sperimentazione. Offrendo all’arcipelago delle sardine, e a quello ancora più vasto dei militanti delle primarie, un laboratorio – per ampiezza e intensità – senza precedenti in Occidente.

A questa infrastruttura telematica di partecipazione permanente andrebbe agganciato un meccanismo moderno di finanziamento. L’attuale tesseramento presuppone l’adesione a un sistema di valori e obiettivi di stampo ottocentesco. Nei fatti, dà – con una manciata di euro – il diritto di partecipare alla tombola del potere interno. Da decenni, negli altri paesi, gli elettori pagano – volentieri – somme rivolte a promuovere obiettivi o candidature specifiche. Passare dalla piattaforma ideologica alla piattaforma elettronica come strumento di raccolta fondi darebbe al partito nuovo la forza finanziaria e professionale per competere nella giungla ipertecnologica in cui – America docet – la politica è costretta a lottare per la propria sopravvivenza.

Infine, per dare un segnale di concretezza e di vicinanza ai territori, sarebbe decisivo il ruolo – e il peso – di governatori e sindaci. Nella formulazione originaria – sbrigativamente liquidata – del nuovo senato renziano, c’era un esplicito riconoscimento dalla funzione dei primi cittadini nel ridisegno istituzionale. Non si tratta di un «partito dei sindaci». Ma semplicemente di un partito in cui i sindaci pesino di più. Portando nelle decisioni politiche lo stesso pragmatismo che orienta il loro agire amministrativo.

Messe in fila queste tre riforme – partecipazione elettronica allargata, finanziamento diffuso per obiettivi, sindaci in cabina di regia – danno subito la misura di quanto sia ancora lunga la strada tra i propositi di cambiare tutto e la capacità di farlo davvero. Colmare questo gap, non è impossibile. Ma occorre una fortissima leadership. Un ingrediente che, fino ad oggi, Zingaretti ha usato con grande parsimonia. Ma non è escluso che possa saltare fuori al momento giusto. In un’epoca di leadership steroidi che non reggono un mojito di troppo, quelle a rilascio lento potrebbero durare un po’ di più.

Mauro Calise

(“Il Mattino”, 13 gennaio 2020)

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