Meglio dire che non lo sappiamo. Che non abbiamo ancora idea di quale potrà essere l’impatto di questa nuova infodemia – come l’ha definita l’OMS – sul sistema economico globale. Ed evitare battute a effetto, come quella del Ministro Speranza difendendo la sua decisione di tagliare – senza concerto con gli altri paesi europei – i voli diretti con la Cina. Certo, dire che la salute viene prima dell’economia attira subito facili consensi. Ma se fosse proprio così – e se fosse così semplice farlo – riverseremmo tutto il bilancio pubblico a migliorare i nostri ospedali. La realtà è che per porre divieti – spesso inefficaci – alla circolazione basta un decreto, e, nell’immediato, può pararti le spalle. Ma le reazioni a catena che si innescano nelle fabbriche, nelle infrastrutture, nei servizi sono incalcolabili. E hanno costi che, prima o poi, incidono su occupazione e condizioni di vita di fasce amplissime di popolazione.
Detto in modo più brutale, quante morti scaturiranno dallo stop alla crescita che sta colpendo il gigante cinese? Quando tireremo un bilancio, saranno più quelle da coronavirus – documentabili con sufficiente precisione – o quelle da malnutrizione e malattie nelle immense periferie urbane e nelle campagne più arretrate? Basta avere negli occhi Parasite, il capolavoro coreano che racconta visivamente questi luoghi, per farsi qualche calcolo da brividi. In questa chiave, ci sono pochi dubbi che – in questa macabra contabilità – il virus sta dando un ulteriore colpo alle fasce più deboli, meno protette e meno mobili. Certo, come non dispiacersi per i turisti bloccati sulle dreamship da crociera, o per quelli che stavano passando all’estero le vacanze e si ritrovano costretti a prolungarle in quarantena. E non possiamo che augurarci che lo stop ai loro viaggi contribuisca a salvargli la vita biologica.
Ma questo stesso stop – in maniera molto meno eclatante, ma estremamente più penetrante – sta fermando la vita lavorativa di decine di migliaia di persone. Che potrebbero diventare milioni, se l’infodemia non si arresta. E – forse – anche dopo che si sarà arrestata. Abbiamo, purtroppo, imparato fin troppo bene la rapidità con cui le crisi economico-finanziarie, una volta innescate, finiscano fuori controllo. Il crollo del 2008 fu causato dall’intreccio tra titoli spazzatura e speculazione immobiliare, un gioco sporco che, in pochi giorni, sfuggì di mano ai grandi player. Ma oggi, c’è qualcuno capace di prevedere le prossime mosse, del virus, delle multinazionali e dei governi? Luca Fraioli, ieri su Repubblica, ha tracciato lucidamente il bilancio dei numeri che dovrebbero contare, se non cadiamo in preda all’isteria. Numeri che – sul fronte della salute pubblica – sono preoccupanti ma non hanno ancora la mortalità di altri flagelli della modernità, dai decessi per normale influenza alle vittime innocenti sul lavoro. Mentre, sul fronte della economia, già stanno facendo intravedere il rischio di una recessione.
In questo clima di angosciosa incertezza, non servono le rassicurazioni di facciata. Meglio sforzarsi di spiegare che quella che stiamo vivendo è una – durissima – lezione di globalizzazione. Da cui dobbiamo provare a uscire più consapevoli e – possibilmente – più forti. Mettendo da parte la paranoia del contagio e cercando di guardare al di là delle prossime settimane. Quando l’unico dato oggi – purtroppo – già certo diventerà ancora più evidente. La Cina uscirà da questo tunnel più debole, ferita nel suo brand di potenza risorta, in pochissimi anni, da un letargo plurisecolare. A questa Cina dobbiamo dare fiducia, e solidarietà. Non per un calcolo politico – che comunque va tenuto presente. Ma per un laico sentimento evangelico. Se domani toccasse a noi, se un nuovo virus si propagasse dall’Italia, come ci sentiremmo, e reagiremmo? Aspettarci da una popolazione notoriamente molto scaramantica la famosa frase che Kennedy pronunciò nella sua visita a Berlino, è un po’ troppo. Ma invece di raggomitolarci sulle nostre paure, sforziamoci di allungare lo sguardo. E trasformiamo l’istinto di chiusura in una sfida di maggiore apertura.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 10 febbraio 2020).
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