Sono spariti i partiti. Non che se ne sentisse la mancanza, frammentati e litigiosi come erano diventati. Ma, tra gli effetti politici immediati della emergenza sanitaria, c’è stata l’eclisse delle sigle, dei segretari, delle coalizioni. Perché la crisi – come ogni vera crisi – richiede decisioni rapide, e protagonisti autorevoli. Il contrario di quello che i partiti sono, oggi, in grado di offrire. Nessuna sorpresa, quindi, se la scena se la stia prendendo Conte, forte dei poteri del premier e del carisma che sta tirando fuori dal cilindro. La vera novità di questa fase sono, però, i governatori, che hanno fatto irruzione sui media e – per la prima volta da decenni – nel cuore dei cittadini. Un mutamento del sistema politico che avrà molte conseguenze future.
Fino a ieri, l’elezione – e la legittimazione – dei Presidenti di regione avveniva attraverso un circuito molto particolare. Fondato sulla moltiplicazione delle liste territoriali, certosine strategie di alleanze, scambi più o meno clientelari di consensi. Un meccanismo molto diverso da quello d’opinione con cui vengono scelti, nelle città, i sindaci. E anche da quel mix di Tv e social media che ha segnato, negli ultimi anni, l’ascesa dei Cinquestelle e di Salvini, partiti e leadership a forte imprint mediatico. La ragione di questa differenza è semplice: fino a poche settimane fa, non esisteva un’opinione pubblica regionale. I governatori erano poco visibili al loro stesso elettorato, per non parlare di quello nazionale che a malapena ne conosceva il nome. Lo tsunami del coronavirus li ha scaraventati – volenti o nolenti – alla ribalta.
Il cardine di questa svolta è stata la titolarità dell’assistenza sanitaria. Una responsabilità che, in passato, era valsa solo ad accumulare lamentele. Ma che, in questo frangente drammatico, li ha trasformati nell’ultima trincea contro il dilagare del virus. Spazzando – almeno per il momento – le polemiche su eventuali inefficienze, e mettendo sulle loro spalle il peso enorme della salute pubblica. A far da traino al fenomeno è stata la regione più colpita. Il presidente della Lombardia, noto per il proprio understatement e per dovere la propria elezione in toto al voto del suo partito, si è ritrovato sotto il fuoco incessante di tutti i network nazionali. Con un salto di personalizzazione e esposizione – per entità e rapidità – senza precedenti. Un ruolo in cui, all’inizio, ha faticato non poco a calarsi. Ma che, col passare dei giorni, ha imbracciato con convinzione, fino allo scontro di queste ore con il governo centrale. Zaia e Bonaccini, alla guida delle altre due regioni settentrionali nel ciclone, si sono volentieri adeguati al nuovo trend.
Naturalmente, in questa vera e propria mutazione genetica dell’identità pubblica dei governatori, le – maggiori o minori – doti di comunicatore giocano un ruolo decisivo. Lo si è visto con lo sfondamento di Vincenzo De Luca, che sta utilizzando a pieno la sua collaudata vis oratoria e di battutista, su una linea di interventismo decisionista che gli è particolarmente congeniale. Uno stile che già in passato gli era valso il rimbalzo – e moltiplicatore – satirico di Crozza, e che in questi giorni gli sta conquistando un’audience in crescita esponenziale sui social. Certo, De Luca è ben consapevole – come i suoi colleghi delle altre regioni – che questo picco di popolarità coincide con una sfida improba, e molto incerta. E che il conto che gli verrà presentato, quando l’emergenza sarà infine superata, potrebbe essere amaramente in rosso. Ma questo è il prezzo di ogni leadership. Quale che sarà il saldo finale, resta il fatto che, per la prima volta in Italia, i Governatori si presentano come una figura chiave, una delle architravi del paese. Mentre i partiti restano in panchina, nuovi leader scendono in campo. Determinati a restarci.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 16 marzo 2020).
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