Simpatico il siparietto di chi si ostina a cercare nel “passato” quello che non c’è più, che non tornerà più. Un po’ come il Rapetti di questa meravigliosa poesia in dialetto villaforese (o “forumiulianese”) che paragona l’amico Limpio, che evidentemente è passato a miglior vita, ad una placida carpa in fondo al Tanaro. Il pesce, grande, luccicante, maestoso, amante della solitudine ma anche gregario – specie se si tratta di mangiare – che a volte si riesce a intravvedere guardando con attenzione le increspature della superficie del grande fiume.
Eh sì, perché il Tanaro non sarà il Nilo ma pur sempre è un grande fiume, melmoso a volte, torbido quasi sempre, solo in rare occasioni trasparente. E in quelle trasparenze è possibile vedere di tutto. Dalle “Unio”, vere conchiglie di madreperla che si infrattano fra le rocce col didietro in alto, a far capolino con due anonimi puntini, alle decine di alghe diverse, alcune lunghissime come capelli di donna, altre con infiorescenze verdi o a colori tenui come fossero margherite subacquee. E i pesci… l’onnipresente carpa con la sua stazza da peso massimo, nelle varietà – frutto di incroci – con più o meno specchi, cioè con squame più o meno grandi e luccicanti. Il cavedano, spesso bistrattato per la sua dabbenaggine e relativa facilità di cattura, normalmente di media lunghezza ma – a volte – con esemplari di quasi un metro e con peso superiore ai dieci chili. Un taglio ad un piede, su cui tornerò tra poco, è lì a certificare la complessità della cattura di questi giganti dimenticati. Buon pranzo, tra l’altro, specie se sotto i quindici centimetri, per i siluri, novità di questi ultimi trent’anni che, per fortuna di Giovanni Rapetti, erano rarissimi ai suoi tempi. Si potrebbe continuare con gli ottimi barbi, astuti quanto “buoni” in padella. E proprio quando – in tenera gioventù – fui coinvolto in una “battuta a barbi” , seminotturna, incappai in un grande cavedano che mi costrinse ad entrare in acqua, poco a valle di Villa del Foro, in un’ansa tranquilla del Tanaro. Mio nonno e mio padre su un “barce’”, io a terra con regolare canna. Più per sfizio che per convinzione volli tenere loro compagnia. Mai avrei pensato di dover lottare con un cavedano di più di mezzo metro (fu poi misurato a casa) che si nascosi sotto le alghe infide appena agganciato dal mio amo coperto di polentina. Iniziò uno – squallido – balletto, che finì con la cattura del pesce, colpito purtroppo anche da pietre per tramortirlo , e con un vistoso taglio sotto il mio tallone sinistro. Dovuto proprio alle bottiglie (ormai rotte) usate come richiamo per le carpe. Fatto che trovo ben riassunto nelle semplici parole del poeta
Ar carpi piaz er vein, zbanatu ‘ndrèinta
sòrtu dar buti dandji ra pulèinta
cme Aladein, mila e na nùacc der stèjli
Tani l’ à cui fundon, basta quintèjli.
Ma ci sono anche altri pesci, le ambite anguille, un tempo abbondanti e i più rari gobidi o le tinche. Insieme alle reginette e ai “persici”, tipici delle lanche di fiume, amanti della calma e dell’acqua cristallina. Un vero spasso per chi non va a pescare, quindi non uccide, ma si bea soprattutto della complessità e della bellezza della natura fluviale. Infatti io, dopo la disavventura con il povero cavedano, non presi più una canna in mano, anzi, gradatamente , abbandonai l’abitudine di nutrirmi di pesci di fiume o mare.
Ma torniamo a noi. “Limpio”, citato con altri in più punti del componimento rapettiano, è la scusa per ripensare al passato, al mondo ’d na vota impossibile da riproporre. Se non come artificio letterario. E qui consentitemi ancora una digressione.
Che senso ha (e già me lo chiedevo ai tempi dell’attività di insegnante in quel di Villa del Foro a metà anni Settanta dello scorso secolo) leggere e commentare poesie in dialetto ai figli e ai nipoti del boom economico? I loro nonni, quelli che in parte potrebbero capire e – a volte parlare – il dialetto locale , li hanno redarguiti fin da piccoli nel solito refrain “parla italiano” , “non rispondere in dialetto al nonno o alla zia, anche se loro lo usano”. “Farai strada solo se andrai in città, ti farai una posizione e parlerai un buon italiano”. Frasi sentite mille volte che hanno sortito il loro effetto. Più di tre quarti del territorio italiano ha perso la sua specificità dialettale, addirittura affievolendo o rendendo impercettibile la cadenza regionale durante l’eloquio in lingua nazionale.
Appunto…che senso ha riprendere queste poesie, questa lingua ostica, questi rapporti difficili tra persone burbere e concrete, questi ambienti estremi con soli forti, piogge torrenziali, paesaggi maledetti o, a volte , sublimi. Già…che senso ha? Per il momento diamo questa interpretazione: un modo per conoscerci, per conoscere altri mondi, mondi diversi da quelli in cui siamo nati e cresciuti , con lingue, accenti, modi di dire differenti…ma da conoscere e apprezzare. Il processo di “conoscenza” inverato in ben tre ripetizioni precedenti, è il vero cardine della storia. Ci si apre davanti un mondo sconosciuto, uno spaccato di vita nuovo, sempre fresco, eterno. E qui “Limpio” , il suo ricordo, il paragone con la placida carpa, ci sta tutto.
Pollice Serafina, una delle tante alunne di quel tempo, ora pienamente adulta e madre, ne è una tangibile conferma. Ascoltò, con tutti gli altri compagni racconti, fòle, poesie (anche dialettali) simili a questa (Ra carpa), ne trasse il massimo possibile per i suoi temi di quinta elementare e, soprattutto, ritornò la settimana seguente al “primo contatto”, con storie tutte sue, della sua famiglia, della sua terra. Apprezzammo, grazie a questo scambio, i racconti in calabrese stretto silano dei pastori alle prese con i tenenti delle truppe savoiarde/nazionali a cavallo fra il 1916 e il 1917, nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Con l’elenco dei morti (spiccato in stretto “silano”) appena arrivato col corriere e il conseguente atteggiamento di difesa delle famiglie, dei parroci, di un’intera comunità, teso a salvare ciò che restava dei giovani paesani.
Missione compiuta. Uno scambio di conoscenze fra giovani dieci-undicenni che, con semplicità e con la sola narrazione di pezzettini di storia, entravano in contatto con la realtà.
Ecco, “La carpa” ci porta tutte queste sensazioni. I tre amici, pescatori più per diletto che per attività vera, Fiuran, Giacu e Limpio che cercano di passare il tempo rimbrottandosi a vicenda con detti di una volta (“Chi mangia pesci caga pesci”) o con bonari insulti tra il sacro e il profano. Il “cagamiracu(l)” che tantissime volte ci è capitato di sentire in gioventù, noi che – come Rapetti – siamo di queste zone, e che praticamente non sentiamo più dire. Perché, semplicemente, i “parlanti” di quel tipo di koine’ linguistica non ci sono più, sono – prosaicamente – morti.
Rimanendo al testo poetico, bello il passaggio del come si è arrivati a chiudere in una trappola, praticamente “in secca”, un gruppo di ignare carpe. Si vede quasi il loro disperato tentativo di uscire dal fango per tornare in acqua…anche se – ormai – il loro destino è segnato.
Tucà fè ‘n fòs da scariè u lài, calanda
pòca pendèinsa l’ è ‘rmaz pein zguranda
er carpi chi balavu ra mazurca
cuj rivà a tèimp gujivu, con ra furca.
Er fòs, i surc, pìa scus ant cula nita
pesca miracu ma fadeia mita
ra carpa arman au sicc, bìastia gnuranta
calu cou drìa, uardu dadnan s’ r’ è tanta.
Oppure quando si percepisce una larvata critica al conformismo imperante, a quel “chi mangia pesci…” che allude allo stare troppo attaccati alla stessa brigata, a chi comanda, diventando quasi come loro. Un appello alla libertà individuale e alla ricerca di una propria strada.
O, ancora, la sensibilità per quel che può determinare uno scherzo mal riuscito, anche non intenzionale.
Son schèrs da balà ‘d fiòca, zbàt sfiurìs
ma s’ ra va zì ‘nt er còl ien rei l’ aut burìs
donc Limpiu lasli stè, guài s’ us ausava
piasa u teston cme u tòr ch’ ut ancurnava.
Nuvèimber, dicèimber, da flisa o pusau
bitès dacòrdi a pschè, piè ‘r burcìa e ciau
vùa dra salit perchè i candròt s’ atacu
pruibì, ma l’ àn sèimp facc, anca s’ it bracu.
Uno scherzo che può rovinare una amicizia e una frequentazione che fa degli sguardi, dei movimenti delle mani e del corpo, della fiducia reciproca, il pane quotidiano di una vita intera.
Aspetti conosceva bene quello stato d’animo, essendo sensibile e attento per natura. Viveva, osservava, annotava nella mente, elaborava nl suo animo perennemente vivo e…ne faceva uscire fuori dei veri capolavori, sia di pittura, sia di scrittura. Un vero, eterno, amico.
…
Ra carpa
Ciancianda ‘d pesca carpi na ciapavu
auti paricc, ‘d quancc chilu, ch’i sautavu
s-ciancà ra rèi ‘d Fiuran, pùa cula ‘d Giacu
der bali nò, pitòst caga-miracu.
Ar carpi piaz er vein, zbanatu ‘ndrèinta
sòrtu dar buti dandji ra pulèinta
cme Aladein, mila e na nùacc der stèjli
Tani l’ à cui fundon, basta quintèjli.
“Chi mangia pesci caga pesci” ‘t sèinti
ma fai nèint caz, l’ è Limplu, queintu ‘r brèinti
Giacu scròla u teston, “hm”, “hm”, mìaj reji
Limpiu, “‘s pèj rus, d’ in ciuc-barbòt” , ‘t masteji.
In pes tirava l’ auter du discuri
quintà i pes ‘d Giacu, purtà cà cuj ‘d Fiuri
cuj ‘d “Tamanari”, ‘d Tani ch’ u surtiva
i camp ‘d Richein là-bàs, gran aut, j’ ampiva.
La carpa
Chiacchierando di pesca di carpe ne prendevano alte così, quanti chili, che saltavano strappata la rete di Fiuran, poi quella di Giacu delle balle no, piuttosto “cagamiracoli”. Alle carpe piace il vino, sguazzano dentro escono dalle bottiglie dandole la polenta come Aladino, mille e una notte delle stelle Tanaro ha quei fondoni, basta contarglieli. “Chi mangia pesci caga pesci” senti ma non farci caso, è Limpio, contano le brente Giacu scrolla il testone, “hm”, “hm”, meglio ridere Limpio, “ ‘sto pelo rosso di un ciucco borbottone”, mastichi. Un pesce tirava l’ altro del discorrere conta i pesci di Giacu, porta a casa quelli di Fiuri quelli di “Tamanari”, di Tanaro che straripava i campi di Richein là in basso, grano alto, li riempiva |
Tucà fè ‘n fòs da scariè u lài, calanda
pòca pendèinsa l’ è ‘rmaz pein zguranda
er carpi chi balavu ra mazurca
cuj rivà a tèimp gujivu, con ra furca.
Er fòs, i surc, pìa scus ant cula nita
pesca miracu ma fadeia mita
ra carpa arman au sicc, bìastia gnuranta
calu cou drìa, uardu dadnan s’ r’ è tanta.
Tocca fare un fosso da scaricare il lago, calando
poca pendenza, è rimasto pieno scolando le carpe che ballavano la mazurca quelli arrivati in tempo raccoglievano, con la forca. Il fosso, i solchi, piedi scalzi in quella melma pesca miracolosa ma fatica muta la carpa rimane all’ asciutto, bestia ignorante calano col dietro, guardano davanti se è tanta. |
T’ ài mai finì d’ amprèindi stè da sèinti
te fa u gnurant ch’ it mustru piè ‘r patèinti
cugnesu j’ animal e u teritòri
ma ciama anuà ch’ j’ è i fonz, ‘t mandu per mòri.
Hai mai finito di imparare a stare a sentire
tu fa l’ ignorante che ti insegnano a prendere le patenti conoscono gli animali e il territorio ma chiedi dove sono i funghi, ti mandano per more |
“Chi mangia pesci caga pesci!”, “Taz, giai!”
an dil nèint fòrt ch’ u sèinta, ch’ ui s-ciòd i guai
Limpiu, s’ ul diz, l’ è ciuc e j’ aucc arjivu
s’è mai capì cuj pes ‘nuà ch’i cazivu.
“Chi mangia pesci caga pesci”. “E dàj”
Giacu na tèsta dira: “Giai pista l’ àj…”
dùai sic, a bati ‘nsèma u siv, ‘s la s-ciapu
ch’ l’ è zà sucès, j’ ansigu e dòp i scapu.
“Chi mangia pesci caga pesci!”, “Taci, biondo!”
non dirlo forte che senta, vengono fuori i guai Limpio, se lo dice, è sbronzo e gli altri ridono non si è mai capito quei pesci dove cadevano. “Chi mangia pesci caga pesci!”. “E dai” Giacu una testa dura: “Biondo pesta l’ aglio..” due zucche, a battere insieme la fronte, se la spaccano che è già successo, si istigano o dopo scappano. |
Son schèrs da balà ‘d fiòca, zbàt sfiurìs
ma s’ ra va zì ‘nt er còl ien rei l’ aut burìs
donc Limpiu lasli stè, guài s’ us ausava
piasa u teston cme u tòr ch’ ut ancurnava.
Nuvèimber, dicèimber, da flisa o pusau
bitès dacòrdi a pschè, piè ‘r burcìa e ciau
vùa dra salit perchè i candròt s’ atacu
pruibì, ma l’ àn sèimp facc, anca s’ it bracu.
Sono scherzi da palla di neve, sbatte e sfiorisce
ma se va giù nel collo uno ride è l’ altro patisce dunque Limpio lascialo stare, guai se si alzava piazza il testone come un toro che ti incornava. Novembre, dicembre, da fiocina o da rete a sacco mettersi d’ accordo a pescare, prendere il burchiello e ciau ci vuole della salute perché i candelotti si attaccano proibito, ma lo hanno sempre fatto, anche se ti braccano. |
Rivà i curnacc ‘d muntagna, cujlà nèi
dròmu ‘nt ra gronda ‘d Tani, squazi ramèi
is pòzu a sira, da pesca ‘r mumèint gist
che ‘r carpi mòrdu, bugiu, ma Tani è trist.
Ra lucelina d’ Aladein s’ anvisca
len-na cou rùa, o vèint o brùa, s’ ambrisca
sa j’ èisu ‘r cmand di mòrt, turnè ‘ndrìa j’ ani
Limpiu sarèis na carpa ‘n fond a Tani.
Arrivano i corvi di montagna, quelli neri
dormono nella gronda di Tanaro, quasi infrattati, si posano a sera, da pesca il momento giusto che le carpe mordono, si muovono, ma Tanaro è triste. La lampada di Aladino si accende luna col cerchio, o vento o brodo, il tempo si fa rigido se avessimo il comando dei morti, far tornare indietro gli anni Limpio sarebbe una carpa in fondo al Tanaro. |
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