Salvador Dalí fu un artista eccentrico, votato alla ricerca dell’arte come specchio della realtà interiore dell’uomo. Le sue opere sono scandite da una ricerca importante dell’io umano. Il Surrealismo, di cui fu grande maestro, scava nel surreale, nel profondo dell’animo umano. Questo tratto surreale ha accompagnato da sempre anche la figura di Dalí, uomo estroso e “folle” al contempo.
Nato a Figueres in Catalogna l’11 Maggio del 1904, Dalí fu un giovane di famiglia benestante. Grande importanza ebbe la famiglia nella vita di Dalí: ebbe un padre autoritario, una madre benevola e pronta a sostenere le doti artistiche del figlio; ma forse fu la figura del fratello Salvador, morto di meningite nel 1903, quella più importante. A cinque anni Dalí fu condotto al cimitero a visitare la tomba del fratello e il futuro artista si convinse di essere la reincarnazione del fratello, viste le somiglianze nel nome e nella fisionomia. Questa esperienza lo colpì profondamente: sentiva che c’era una somiglianza netta tra i due e la considerazione per il fratello fu molto forte.
Sin dall’età di quattordici anni Salvador Dalí sembrò avere grandi attitudini per l’arte e si convinse in seguito ad iscriversi all’Accademia di San Fernando a Madrid.
Prima però di iscriversi all’Accademia un grave evento sconvolse la sua vita: la morte della madre tanto amata, quando lui aveva sedici anni.
All’Accademia lui era un autentico dandy, ai limiti della “follia” per molti suoi coetanei, vestendo secondo mode del secolo XIX.
Furono però già i primi lavori a suscitare grande interesse per la figura di Dalí: questi si avvicinavano, un certo senso, al cubismo, per poi volgersi verso il dadaismo e l’arte di Giorgio De Chirico, al quale il ragazzo si ispirò soprattutto per i paesaggi vuoti, dove in primo piano si trovano poche figure, e per l’attenzione per l’ombra, come si può vedere in Natura morta del 1924.
Dalí fu amico di Luis Buñuel e di Federico García Lorca, con i quali creò un rapporto di amicizia unico, soprattutto con il primo.
Quegli anni furono segnati da una produzione fatta di ritratti e di paesaggi, specialmente della sua terra natia, come possiamo notare nella Donna sdraiata (1926), di ispirazione picassiana.
Dalí, difatti, andò a Parigi, dove ebbe modo di incontrarsi con artisti del calibro di Pablo Picasso e Joan Miró, e lì poté ampliare le sue conoscenze in campo artistico.
Però, forse, la prima volta che Dalí riuscì a far valere la sua figura a livello internazionale fu grazie alla collaborazione con l’amico regista Luis Buñuel, che nel 1929 realizzò Un chien andalou, primo film del cinema surrealista, caratterizzato da due scene “storiche” quali il taglio dell’occhio della protagonista e la mano da cui fuoriescono insetti, ideata da Dalí, che ha nel film la parte di un chierico.
Fu così che Dalí entrò nel mondo del Surrealismo, la corrente che lo avrebbe segnato di più e per la quale divenne un pittore celebre e celebrato in tutto il mondo.
In quel periodo il pittore di Figueres incontrò Gala, moglie di Paul Eluard e futura musa di Dalí, ed ebbe grandi apprezzamenti da André Breton, creatore del movimento surrealista, il quale stimava molto le opere di Dalí, specialmente Gioco lugubre (1929).
Del 1929 è L’enigma del desiderio, dove vediamo in mezzo a un paesaggio deserto una strana roccia e dove troviamo incavi nei quali è scritto ma mere, ovvero “mia madre”, come se quest’opera volesse mostrare l’ossessione dell’artista di Figueres per la perdita della madre. A completare l’opera, troviamo immagini oniriche tipiche di Dalí, su tutte il leone che ruggisce, simbolo di tutti i desideri. Ma è forse Gioco Lugubre l’opera più onirica e più scandalosa del periodo: Dalí lesse L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, che fu di grande ispirazione per la realizzazione di tale opera. Gioco lugubre contiene chiari riferimenti alla nevrosi sessuale di Dalí: denso di simboli onirici tipici (cavalletta, simboli fallici e sessuali, volto senza bocca…) e della vita di Dalí (la mano con la sigaretta richiama la figura del padre, e così cappelli borghesi…), il lavoro attira per la somiglianza con De Chirico, soprattutto nella statua, che sembra colpita dalla vergogna della masturbazione (vedere la mano destra anormale e quella sinistra che richiama un gesto di vergogna); c’è nell’opera un uomo dal volto grottescamente sorridente con le mutande sporche di escrementi e con una mano con un fazzoletto di stoffa insanguinato, simbolo dell’evirazione… Altra importante opera di Dalí è Il grande masturbatore (1929), dove al centro c’è una faccia senza bocca e con un grande ciglio (rappresentante Dalí), colpita da sogni o incubi sessuali: i simboli sessuali hanno il sopravvento, come la donna con la bocca vicina a un pene, il leone con la lingua oscenamente rosata, ma pure simboli classici come la cavalletta in decomposizione…
Dalí definì il suo approccio artistico “metodo paranoico-critico”: «Metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’oggettivazione critica e sistematica delle associazioni e interpretazioni dei fenomeni deliranti».
Questo metodo prevede una rappresentazione di certi simboli onirici ed irrazionali, componendo figure reali collocate in posizioni irreali e spesso deformate innaturalmente (anamorfismo), cosicché il Surrealismo risulta un’arte libera dai condizionamenti della ragione.
Nel 1930 uscì il film realizzato da Luis Buñuel, in collaborazione con Dalí, L’age d’or, che scandalizzò molte persone per i suoi attacchi alla morale cristiana e alla società borghese; con l’uscita di questo film, estremisti di Destra si dedicarono a distruggere opere di stampo surrealista come protesta a tale proiezione.
Tra il 1930 e il 1931 Dalí si trasferì con Gala a Port Lligat, dopo importanti scontri con il padre, che voleva diseredare il figlio “impertinente”: questo posto diventò per lui fonte di ispirazione per una delle sue opere più famose, La persistenza della memoria (1931). Quest’opera ritrae il paesaggio di Port Lligat con al centro la classica faccia dalla lunghissima ciglia, che sembra formare una roccia, e vari orologi molli che ricordano pezzi di un formaggio dalla consistenza tenera, come quella di un Camembert. Ma il tema principale di questo lavoro è la concezione del tempo, tematica cara all’artista spagnolo e al mondo surrealista.
In opere come Donna con testa di rose (1935) e Giraffa in fiamme (1937) troviamo evidente la pratica dell’anamorfismo, ovvero una deformazione innaturale di forme, che troviamo presente già in un’importante opera del Cinquecento come Ambasciatori di Hans Holbein.
Negli anni Trenta e Quaranta, oltre a opere riguardanti ritratti, paesaggi, immagini oniriche, sono da segnalarsi opere riguardanti l’angoscia di Salvador Dalí per la guerra, in particolare la Guerra Civile in Spagna, come Morbida costruzione con fagioli bolliti (1936), con una figura che si strazia da sola, come in un delirio di autolesionismo, e in basso fagioli, simboli di alimentazione e autoconservazione.
L’enigma di Hitler (1939), quadro oscuro, con un grande telefono rotto, simbolo di accordi non ottenuti, e pipistrelli che svolazzano sopra la foto di Hitler, annuncia la Seconda Guerra Mondiale.
Dalí fuggì negli U.S.A. e dipinse Volto della guerra (1940), dove si nota una figura impaurita attorcigliata da serpenti, che nella bocca e negli occhi ha inquietanti teschi…
Nel dopoguerra, Dalí, “attratto” dal tema della bomba atomica sganciata su Hiroshima e poi su Nagasaki nel 1945, si avvicinò allo studio dell’atomo e della sua scissione: in Leda atomica (1949) Gala è raffigurata come Leda, sedotta da Giove nella forma di cigno, fatto che porta Leda a dare alla luce i Dioscuri (Castore e Polluce), Elena e Clitemnestra; da questa unione, con le sue implicazioni “metafisiche”, sembra così nascere, aver luogo la scissione dell’atomo e la scoperta delle sue componenti…
Dalí allora si riavvicinò al Cristianesimo e alla figura di Cristo, come si può vedere in Cristo di San Juan de la Cruz (1951): l’artista fu ispirato da un disegno di San Giovanni della Croce e da un’immagine, vista in sogno, di un cerchio in un triangolo (sorta di nucleo dell’atomo), simile al disegno di Giovanni. Originale è la mancanza dei simboli della Passione, ovvero la corona di spine e le stigmate, che Dalí giustificò come volontà di dipingere Cristo nella sua “natura divina”, e l’uso del chiaroscuro nel paesaggio, che dà forte effetto drammatico all’opera.
Fino alla sua morte (23 Gennaio 1989) Salvador Dalí continuò a dipingere e a dedicarsi ad attività artistiche; certamente, la sua sregolatezza e il suo estro, uniti ad una geniale follia, l’hanno reso veramente un artista importante nel panorama mondiale. A quelli che lo ritenevano pazzo, lui rispondeva così: «L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo».
All’inizio del 1970 mi trovavo a Ginevra, mia città di elezione. Alla Gare Cornavin c’era un cartellone che raccomandava un’esposizione di xilografie ed inchiostri di Salvador Dalí. Già allora amavo molto questo autore, la cui vena di apparente follia era così in contraddizione con tutte le scuole in voga nei primi decenni del ‘900. Alcuni critici lo contrapponevano addirittura al suo amico/nemico Pablo Picasso. Un uomo, comunque, Controcorrente (e già questo mi piaceva molto…). Trovai tempo di recarmi al bellissimo museo dell’Athénée dove pochissimi visitatori onoravano il pittore e la sua Musa, Gala. Mi attiravano specialmente gli inchiostri. Ed infine concentrai la mia attenzione su un inchiostro che mi parve bellissimo e che, qualche volta, tuttora sogno: rappresentava un toro inginocchiato, evidentemente colpito a morte da un Manolete che aveva fatto il suo lavoro, ma aveva lasciato l’animale vivo negli ultimi momenti della sua esperienza terrena. Un animale potente, forte, inginocchiato, come dicevo, ed una sorta di lunga striscia di sangue o bava legava la sua bocca al terreno. Era un’immagine forte, per certi versi meravigliosa e così diversa dalle raffigurazioni di Tauromachia che siamo abituati a vedere nei vari ritratti, soprattutto spagnoli, oppure al cinema. Un animale non violento, non mortale, ma sofferente, pronto ad essere morto, ma non senza un’affermazione visibile della propria esistenza. Mi tornavano alla mente i ritratti di Tauromachie rappresentate nei palazzi minoici di Creta, le gare pericolose fra toro e i volteggiatori che lo saltavano, e così pure tanti excerpta della pittura spagnola, che avevano rappresentato l’animale come emblema di forza, di violenza, di qualcosa che si doveva abbattere. Nell’inchiostro di Dalí nulla di tutto questo: un animale morente, da solo, senza che si veda neppur l’ombra del suo assassino, il matador, ma, raffigurato con se stesso, con la sua vita che se ne va, per una violenza ludica che si abbatte su di lui. E quella sorta di bava e sangue che gli esce dalla bocca lo ricongiunge alla Madre Terra, genitrice di tutte le cose, alla quale il toro ansimante aspira, dopo una vita breve, a ritornare per ritrovare la propria pace.