Ricostruire la sanità pubblica

Cambiare il sistema basato sul DGR che stabilisce una tariffa per le prestazioni sanitarie e ha trasferito quote enormi di soldi pubblici alla sanità privata, sottraendoli alla prevenzione e al territorio

L’epidemia da Coronavirus ha drammaticamente messo alla luce i limiti e le carenze del Servizio Sanitario Nazionale italiano e di quanto sia essenziale il valore della salute per una collettività. Un diritto fondamentale indispensabile per consentire alle persone di studiare, lavorare e vivere in sicurezza.

La difficile esperienza che stiamo vivendo, per tornare utile, deve adesso fornire le indicazioni per ricostruire la sanità pubblica, correggendo gli errori e le degenerazioni di questi ultimi 10-15 anni, riscoprendo la vera missione del SSN: tutelare la salute pubblica dei cittadini, il diritto alla salute, non alla cura. E rafforzare l’idea principale che sottostà alla sua fondazione: erogare le cure migliori per tutti e gratuitamente.

Per ottenere questo occorre, però, avere il coraggio politico di mettere in discussione la concezione “aziendale” e speculativa della sanità, introdotta nel 1995 con il DGR (Diagnosis Relatid Groups), il sistema che stabilisce un prezzo, una tariffa per le prestazioni sanitarie che le regioni rimborsano agli ospedali. Come è successo soprattutto in Lombardia, la regione italiana che più di tutte ha orientato la sua politica sanitaria sui DGR spostando enormi quote di soldi pubblici sul privato convenzionato. Dove, come sostiene Giuseppe Remuzzi, il direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, l’obiettivo principale diventa il fatturato e non la salute delle persone. Soldi pubblici in grande quantità finiti impropriamente alla sanità privata che avrebbero dovuto essere investiti sul sistema socio-sanitario del territorio.

Una decisione che ha penalizzato la medicina territoriale e i dipartimenti di prevenzione i quali, permettendo di anticipare e curare la malattia fanno, a medio termine, risparmiare il sistema e, soprattutto, evitano nelle fasi pandemiche che vada in crisi e collassi il servizio. Ma la prevenzione nell’attuale sistema non “rende” e gli ospedali per reggere economicamente devono realizzare un certo numero di “prestazioni”, di interventi chirurgici. Un sistema che di fatto ha messo in crisi anche l’ospedale pubblico.

Quando tutti invocano la necessità di rafforzare la medicina del territorio, la rete dei distretti, potenziare l’assistenza domiciliare, valorizzare il ruolo e ampliare i compiti dei medici di base, investire in risorse umane, strutture, servizi più vicini alla cittadinanza, occorrerà che, analogamente, gli ospedali pubblici tornino ad essere valutati e compensati in base alle vere esigenze epidemiologiche del territorio. Riassegnando alla prevenzione un ruolo di guida e di indirizzo. E occorrerà fare presto visto il numero di dipendenti che il SSN ha perso dal 2010 per pensionamento o emigrazione e con un personale sanitario con una età media che supera i 50 anni. Nei prossimi dieci anni si prevede mancheranno 22 mila medici di medicina generale, nonché 48 mila medici del Servizio sanitario. Di infermieri, con il blocco del turnover e delle assunzioni, ne servono attualmente 53 mila e non è facile trovarli, visto che gli stipendi, per un lavoro come il loro, pesante e di responsabilità, sono i più bassi d’Europa.

Uno studio e una riflessione specifica è poi necessario per valutare l’impatto avuto dal Covid-19 sulla popolazione anziana in relazione all’efficienza e all’efficacia dimostrata dal servizio sanitario e assistenziale. Qui un discorso a parte meritano le RSA, le Residenze Sanitarie Assistenziali, in questi mesi falcidiate dal contagio del virus. Prima di denunciare le carenze organizzative o le decisioni improvvide delle regioni che hanno favorito il contagio, è necessario discutere se ha senso esistano strutture che ospitano centinaia di persone non autosufficienti in ambienti che non possono offrire una vita degna. La tragica esperienza delle morti nelle Rsa devono portare tutti a ragionare su come superare le attuali strutture come soluzione ordinaria alla fragilità delle persone.

Non è una questione di spesa pubblica in quanto è dimostrato che l’assistenza a domicilio costa meno e garantisce una qualità di vita di gran lunga migliore. E’, principalmente, una questione culturale, perché dobbiamo imparare a rispettare anche chi non è più produttivo. Ma è anche una questione di forti interessi economici privati; attorno alle Rsa girano affari di decine di miliardi di euro, un settore a basso rischio per chi investe e con rendimenti medi elevati.

Un comparto non da potenziare, ma da riconvertire verso convivenze, condomini protetti, comunità alloggio, domiciliarità. Provvedendo ad un sostegno economico adeguato alle famiglie di chi assiste a casa una persona non autosufficiente. Anche in questo campo le previsioni sconsigliano di perdere tempo. L’Italia è il paese europeo che sta invecchiando di più e più velocemente: nel 1950 avevamo tre milioni di persone con più di 65 anni, adesso ne abbiamo quasi 17 milioni. Di questo passo se non si interviene e non si ricostruisce la sanità pubblica fra non molto non ci potremo più permettere un servizio sanitario universale degno di questo nome.

Renzo Penna

Alessandria 7 dicembre 2020

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