L’esecutivo presidenziale e i suoi limiti

Da trent’anni le democrazie occidentali sono accomunate da un trend. Si rafforzano l’esecutivo e i loro capi, ai danni di parlamento e partiti. In gergo politologico si chiama presidenzializzazione. E si realizza per tre canali: organizzativo, mediatico e normativo. In Italia ha iniziato Berlusconi, con Prodi all’inseguimento. Ma l’apice l’ha toccato Renzi. Ora Conte prova a superarlo. Perché il leader di IV si meraviglia?

La risposta – andreottiana – più semplice è l’invidia. A quel posto vorrebbe esserci lui. Per un politico di professione di rango e lungo corso, c’è da impazzire di rabbia al pensiero che un homo novus venuto – quasi – dal nulla si trovi al vertice di una piramide di potere senza precedenti. Sentimenti calorosamente condivisi da tutti gli inquilini del Palazzo. Se ci fermassimo, però, a Guicciardini, il premier potrebbe continuare nel suo slalom, guardandosi un po’ più attentamente le spalle. Ma c’è un altro elemento che comincia a premere insidiosamente alle porte di Palazzo Chigi. Il deficit di legittimazione popolare.

La risposta che al Presidente del Consiglio, in Italia, i voti li dà il Parlamento è valida solo per metà. E comunque è una metà traballante. Il vero problema, per Conte, è che lo schema della presidenzializzazione prevede che il capo dell’esecutivo sia anche capo indiscusso del partito – o di una coalizione di partiti – e l’abbia trascinato alla vittoria grazie al suo carisma mediatico. Di questo, nella resistibile ascesa dell’avvocato-professore, notoriamente non c’è traccia. Il suo premierato double-face è frutto di una – faticosissima – intesa parlamentare, e di un ancor più faticoso ribaltone di quella intesa. Ma allora – pretende Renzi – è al parlamento che deve rispondere! La presidenzializzazione di Conte funziona per due dimensioni, rafforzamento organizzativo e normativo. Tutto a botta di DPCM, e ora pure l’idea di una sorta di panopticon tecnocratico per gestire il Recovery Fund. Due rafforzamenti – forzature – che ci potrebbero pure stare se fossero supportati da un solido retroterra elettorale. Ma Conte questo retroterra non ce l’ha.

Con buona pace di tanti giuristi che urlarono al colpo di stato all’epoca del referendum costituzionale, l’emergere di esecutivi più autorevoli e monocratici è una tendenza di questo secolo. Che sembra rispondere all’esigenza di governare in modo più efficiente le troppe sfide della complessità globale. E sarebbe più che comprensibile che il trend si accentui quando ci troviamo nel bel mezzo di uno tsunami pandemico. Ma più cresce l’accentramento del potere, più diventa importante – cruciale – un ampio sostegno popolare. Altrimenti si rischia di slittare, magari inconsapevolmente, in una spirale autoritaria.

Il problema non si risolve facilmente. A favore di Conte operano due fattori, che finora l’hanno tenuto in sella. Il fatto che sono tutti consapevoli – in primis il Capo dello stato – che, se si apre un minimo spiraglio nella compagine governativa, può facilmente trasformarsi in una frana. E allora si finisce dritti al voto. L’altro fattore – non meno rilevante – è che per provare ad adeguarsi alla tabella di marcia europea, con relativi obiettivi e scadenze, è impensabile affidarsi al coacervo di commissioni e sottocommissioni in cui si tradurrebbe il fatidico coinvolgimento parlamentare.

Ma questi due fattori, ormai, non bastano a garantirgli la tenuta a oltranza del proprio esecutivo. Non solo perché la frustrazione diffusa in tutto il ceto politico – giusta o giustificata che sia – sta ormai tracimando in ribellione. Ma per un dato strategico, che sta allarmando sempre di più quanti provano a buttare lo sguardo oltre la crisi. Cosa succederà dopo? Quando finalmente ci saremo – più o meno – sbarazzati del virus, e dovremo fronteggiare una crisi sociale ed economica forse ancora più grave di quella sanitaria da cui stiamo provando a uscire. Su quale assetto politico e istituzionale potremo fare affidamento? A questo interrogativo, il centralismo monocratico di Conte non offre alcuna risposta. Se non quella dell’ennesimo partitino personale, che rischia di fare la fine impietosa di quello di Mario Monti. Ma che, anche in caso di successo, non offrirebbe alcuna garanzia sulla piega che prenderebbe il paese. A questo punto – molti cominciano a pensare – meglio voltare pagina subito. Sarebbe un salto nel buio. Ma se c’è comunque il buio oltre la siepe, che differenza fa?

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 14 dicembre 2020).

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