1. – Il Partito Comunista Italiano – di cui si celebra il centesimo anniversario della nascita – è sempre stato un partito diverso dagli altri partiti comunisti dell’Europa. Il nucleo vitale verso il quale ha orientato dall’inizio la sua azione e riflessione – pur a volte tra contraddizioni e incertezze – è stato quello di coniugare democrazia politica e trasformazione sociale, socialismo e garanzie formali di tutte le libertà moderne. Non è stato mai – in nessuna fase della sua storia – né un partito socialdemocratico né un partito insurrezionalista. Ha indicato un percorso storico inedito che andasse oltre, come scrive Umberto Cerroni, << le tradizionali risposte teoriche e pratiche date dal movimento socialista ai problemi della società capitalistica evoluta e dello Stato rappresentativo moderno >>, vale a dire oltre << sia l’idea di una inevitabile rivoluzione violenta,… sia l’idea che la democrazia politica implichi inevitabilmente l’accettazione del capitalismo e la rinuncia, perciò, alla socializzazione dei rapporti economici e dello stesso potere statuale >> (1). E’ stato, insomma, il partito della ricerca di una “ terza via”, sempre presente nel suo bagaglio teorico e pratico, messa poi a punto ed esplicitata da Enrico Berlinguer, dopo la rottura irreversibile con Mosca.
E’ questo il patrimonio più originale e cospicuo messo dal PCI a disposizione del movimento operaio. Nessun altro partito comunista, o socialista, o socialdemocratico si è mai posto questo obiettivo. Quando il socialismo contemporaneo ha trovato una qualche realizzazione ciò è avvenuto senza il rispetto della democrazia politica, delle sue regole, procedure e forme, e fuori da realtà sviluppate e politicamente evolute. Nell’ Europa occidentale non vi è stata mai nessuna sperimentazione socialista e il rispetto della democrazia politica è stato inteso come integrazione del movimento di sinistra entro i moduli, non solo politici, ma anche sociali ed economici, dati. L’obiezione che potrebbe essere formulata, che cioè anche nell’Europa occidentale, in paesi come la ex Repubblica democratica tedesca, la Polonia, la ex Cecoslovacchia, , si è realizzata una qualche transizione al socialismo non è del tutto persuasiva in quanto il modello di socialismo lì realizzato è stato di tipo per così dire “asiatico” per la presenza storica e politica dell’URSS e, perciò, molto distante dai problemi politici, economici e culturali dell’Europa moderna.
Anche nel PCI, naturalmente, come in ogni paese europeo, si è sviluppato un aspro e acceso confronto fra massimalisti e riformisti, fra l’opzione gradualista e quella insurrezionale, ma la sua scelta di fondo non è mai stata né l’una né l’altra, ma la via inedita di una sintesi, di una fusione di entrambe. Nella tradizione socialdemocratica il PCI vedeva il limite di una integrazione nel sistema capitalistico e l’abbandono del fine della trasformazione socialista del sistema economico; nella tradizione comunista, una concezione dottrinaria e dogmatica del socialismo che saltava il momento fondamentale della sua realizzazione mediante la democrazia con tutte le sue regole e mediante il consenso. Per questo, le << tesi massimaliste e insurrezionaliste, pure presenti al suo interno >>, non sono mai diventate azione concreta del partito e per questo la “doppiezza”, di cui è stato sempre accusato ( fino alla fine, fino ad Occhetto, suo liquidatore), bisogna dire che <<non era del PCI, ma piuttosto nel PCI >> (2).
Per esempio, Pietro Nenni, leader del partito socialista italiano, si sentiva del tutto tranquillo circa la natura pienamente democratica del PCI e in una pagina dei suoi “Diari” scriveva: << Il curioso è che si continua a parlare di pericolo comunista quando abbiamo, sì, un grande Partito comunista, ma al servizio di un obiettivo che non va oltre al riformismo dei grandi Partiti socialisti dell’Occidente europeo >>. Si tratta di un giudizio del tutto esatto nella sua prima parte, ma sbagliato nella seconda ( come è successo spesso alle figure legate alla storia del riformismo italiano) perché il PCI non ha mai rinunciato all’obiettivo di andare “oltre” la tradizione socialdemocratica europea. Del resto, esponenti autorevoli del partito non perdevano occasione per ribadire questo elemento. Umberto Terracini, ad un giornalista che lo intervistava, rammenta di averlo sottolineato perfino nella sua orazione funebre in onore di Togliatti e dice:<< Ricordo un concetto che entrambi [lui e Luigi Longo] ripetemmo: il PCI, come Togliatti lo aveva inteso, doveva essere una forza democratica e pacifica, capace di attuare nella libertà le trasformazioni sociali, di costruire il socialismo atteso dalle masse italiane>>. E ancora, in altra occasione: il PCI è stato sempre impegnato << a definire in termini precisi e operativi un concetto di socialismo che non sia la riproposizione del modello socialdemocratico>>. L’espressione più esplicita – e del tutto lontana da ogni ideologismo – dell’irrinunciabile finalità socialista da raggiungere mediante il pieno sviluppo della democrazia sarà data da Enrico Berlinguer nel suo intervento del 27 febbraio 1976 al XXV Congresso del Pcus, e a seguito del quale avverrà la rottura definitiva con Mosca. Dinanzi alle autorità sovietiche e ai numerosi rappresentanti degli altri partiti comunisti, Berlinguer afferma:<< Noi ci battiamo per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà della cultura, dell’arte e della scienza>> (3).
2.- Il PCI indicava una via nuova che andasse oltre l’uso della forza come leva della rivoluzione e oltre il riformismo socialdemocratico incapace di trasformazione degli assetti economico-sociali capitalistici. Il suo nucleo centrale duro – il suo polo di attrazione – è sempre stato ( anche quando la consapevolezza non era piena, completa) quello di rafforzare e garantire democrazia e libertà perché ritenute i soli “strumenti” in grado di dare solidità alla costruzione e al funzionamento di una società socialista, di una nuova convivenza capace di trasformare i rapporti economico-sociali dati. Il vero lavoro da compiere, allora, diventava quello di rafforzare in un organismo storico concreto – l’Italia, appunto, – il sistema delle mediazioni politiche consensuali ( la democrazia) in modo da rendere incisiva da oggi la prospettiva di un domani socialista.
Nel nostro paese questo compito risultava particolarmente arduo perché assai debole era la nostra democrazia, per ragioni storiche lontane e vicine, legate anche al modo stesso in cui era avvenuta la nostra unità politica. Tutta l’esperienza pratica e teorica del PCI procede così con la contestuale riflessione sulla storia d’Italia e sulla arretratezza democratica e civile di un paese che, per questo, viveva nella condizione paradossale di non poter né compiere una rivoluzione socialista moderna né avere una pratica riformista in grado di incidere per misure provvisorie su un capitalismo che per il suo ritardo non era compatibile con le richieste di riforma del movimento socialista. Dunque: un paese senza rivoluzione e senza una concreta pratica riformista. Il riformismo, infatti, – e vale la pena ribadirlo – può svolgere la sua azione di miglioramento graduale delle condizioni dei lavoratori in un contesto di capitalismo evoluto e di una società con valori fondamentali condivisi, con una salda identità nazionale e con solide istituzioni pubbliche.
Sono tutte “ condizioni” che l’Italia non ha avuto e che, forse, attende ancora di avere in modo compiuto. Da noi hanno sostanzialmente prevalso il particolarismo, il settarismo accompagnati dall’opportunismo e dal trasformismo, classi dirigenti chiuse alle novità, l’assenza di istituzioni e di soggetti politici moderni (4). Per questo, in più momenti della nostra storia, ha preso piede l’ “illusione” di poter colmare il nostro ritardo politico ( e civile) o con le scorciatoie ribelliste o con quelle illuministiche, aristocratiche, elitarie. Potremmo dire che quasi fino ai nostri giorni ci si è illusi circa la possibilità di un successo di un processo riformista solo dall’alto,per così dire di un <<riformismo per forza>> – come recita perfino nel titolo un libro molto considerato dalla sinistra (5) – praticato da un ristretto ceto di governo illuminato, convinto << di incarnare una razionalità superiore da far valere contro tutti gli irrazionalismi della società italiana >> (6).
Il PCI sin dalla nascita, grazie soprattutto al pensiero di Antonio Gramsci, ha cercato non di applicare una dottrina, ma di operare su un organismo storico concreto pervaso da peculiarità inedite. Così sintetizza efficacemente Cerroni : << In Italia, la storia ha generato una situazione letteralmente inversa a quella di molti grandi Stati nazionali europei moderni: una società civile precoce, articolata, molto differenziata e variegata per tradizioni e cultura di fronte ad uno Stato unitario costruito assai tardi, male e senza diretto concorso del popolo; una società che per secoli ha vissuto sotto regimi politici differenti e spesso stranieri senza mai riuscire a unificarsi neppure nella cultura e nella lingua e uno Stato nazionale imposto dall’alto con una operazione di diplomazia europea gestita da una monarchia di tradizioni straniere. In queste condizioni è stato sempre operante un contrasto profondo e diffuso tra la società civile e il sistema politico, fra le forze sociali e culturali e il meccanismo statuale >>. E conclude:<< Non vi è prova migliore di ciò del fatto che lo Stato monarchico dei Savoia ha diretto un paese vivacissimo e bisognoso di unificazione senza la partecipazione e anzi con l’aperta opposizione delle due principali forza sociali e politiche dell’Italia: il mondo cattolico e il movimento operaio socialista >> (7).
3. – Questa citazione, lunga ma necessaria, rende evidente come, in un paese in cui nessuno aveva avuto la possibilità di credere nella democrazia, la pratica riformista di un inserimento positivo nel sistema dato non poteva attecchire. Non ci credevano i cattolici, né i liberali e nemmeno i socialisti.
Il cattolicesimo italiano ha ostacolato con vigore i sia pur timidi tentativi di secolarizzazione che lo Stato unitario, nella sua fase iniziale, ha cercato di portare avanti. Mentre negli altri paesi europei da tempo il contrasto fra potere temporale e potere spirituale era stato risolto con l’affermazione del primato dell’autorità laica, in Italia, in pieno diciannovesimo secolo, la Chiesa non rinunciava al suo primato.
Nel 1874 Pio IX affossava ogni barlume di liberalismo vietando ai cattolici col Non expedit di esercitare il diritto di voto per ubbidire all’imperativo << né eletti né elettori >> in quanto l’alternativa era soltanto << o liberale o cattolico, o cattolico o liberale >>.Ancora nel 1885 la chiusura all’affermazione delle libertà moderne è totale. L’enciclica Immortale Dei, sulla costituzione degli Stati, non esita a condannare in blocco tutto ciò che di nuovo si era messo in movimento dalla Riforma in poi. Politica e pensiero moderni sono considerati sbagliati e pericolosi. È detto chiaramente: << Il funesto e deplorevole spirito di novità suscitatosi nel secolo decimosesto, prese da prima a sconvolgere la religione, passò poi naturalmente da questa al campo filosofico, e quindi in tutti gli ordini dello Stato. Da questa sorgente scaturirono le massime delle eccessive libertà moderne >>.
Lo stesso Leone XIII, ritenuto un innovatore tanto da essere chiamato << Padre dei Lavoratori >>, pur rendendosi conto dell’impossibilità di una forzata restaurazione, non rinunciò al principio del diritto della Chiesa di Roma al potere temporale e ad adoperarsi per una pesante interferenza dell’autorità religiosa nello svolgimento della vita pubblica del Paese. La stessa Rerum Novarum (1891) appare tutt’altro che la <<grande svolta>> in senso “ liberale” di cui si è sempre parlato. In essa l’imporsi della questione sociale è visto come un rischio e non come un problema da risolvere: << Stabiliscasi – è scritto – dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile>>. Nemico della democrazia e della sua “ illusione” – quella della possibilità di un riscatto dal basso delle masse subalterne – , nell’enciclica Graves de communi Leone XIII sosteneva, in opposizione alla democrazia sociale, << portata a tanta malvagità da non tenere in alcun conto l’ordine soprannaturale cercando esclusivamente i beni corporali e terreni >>, e contro gli stessi movimenti politici dei cattolici liberali, l’ “ ammissibilità” solo di una democrazia cristiana, di una democrazia che << deve avere necessariamente per sua base i principi della fede >>. Da tutto ciò, conclude Norberto Bobbio, vale a dire proprio dall’avversione della Chiesa alla democrazia, al liberalismo e al socialismo, è possibile capire << quanto sia stato difficile il processo di trasformazione della società italiana >> (8).
Anche il liberalismo italiano ha avuto una profonda vocazione antidemocratica e non ha mancato di assecondare tutte le tentazioni autoritarie, come abbiamo potuto vedere persino con Croce. Ermetico ad ogni spinta riformatrice, nella sua Storia del liberalismo europeo (1925), Guido De Ruggiero ne sottolinea l'<< importanza modesta >>, la << scarsa originalità>> e il deficit di << intimo vigore >> (9) nel panorama europeo. Tutto il nostro liberalismo si è caratterizzato per il suo conservatorismo e per l’assenza nella sua elaborazione di una qualsiasi risposta e apertura ai problemi posti dalla società di massa. Esso si è dimostrato assolutamente impreparato a governare la nuova fase politica apertasi con l’ingresso sulla scena di nuovi protagonisti sociali e delle loro organizzazioni. Mentre in molti paesi europei il termine liberale significava apertura alla democrazie e alle istanze del movimento socialista e socialdemocratico, in Italia esso si chiudeva tanto alla democrazia quanto a quelle istanze. Nella fase storica in cui certezza della legge, primato del diritto, equilibrio dei poteri, Stato democratico rappresentativo diventavano valori irrinunciabili della civiltà occidentale, il massimo esponente del liberalismo italiano, il “ filosofo della libertà”, allertava contro << gli untuosi democratici >> e contro la << mala gramigna >> del socialismo. Per lui la distinzione fra liberalismo e democrazia doveva essere netta perché << altrimenti concepivano individuo, eguaglianza, sovranità, popolo i democratici e altrimenti i liberali >> ( 10). Sul “Corriere Italiano “ del 1° febbraio 1924 scriveva che considerava << un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia >>, e, sempre nel ’24, votava la fiducia al governo Mussolini proprio perché il << cuore >> del fascismo << è l’amore per la patria italiana, è il sentimento della salvezza d’essa e perciò dello Stato italiano >>.
E quello di Benedetto Croce nona va considerato il caso di un intellettuale liberale autorevole ma isolato. Vittorio Emanuele Orlando, politico oltre che intellettuale, vecchio liberale già presidente del Consiglio dal 1917 al 1919 e rappresentante dell’Italia alla Conferenza di pace di Parigi, padre del diritto pubblico italiano, così scrive a Mussolini capo del governo fascista . << Eccellenza, nel momento attuale, ogni italiano deve essere presente per servire. Se l’opera mia, nella pura forma del servizio, potesse essere utile, voglia l’Eccellenza vostra disporre >> (11). Il liberalismo italiano era soprattutto esaltazione dell’ordine e dell’autorità, lontananza dalla difesa dei diritti individuali e delle prerogative del soggetto, pretesa della difesa di quell’unità sociale ritenuta << scossa dalla lunga consuetudine della ideologia socialistica >> ( B. Croce).
Ma l’unità sociale “ scossa” dalla ideologia socialista era solo la conseguenza inevitabile di una reazione del movimento operaio all’autoritarismo gretto e al classismo marcato della Stato italiano sempre chiuso alle istanze dei lavoratori. Da qui l’assenza nel socialismo italiano di un reale e concreto riformismo. Ha ragione Salvadori quando dice che la sinistra italiana è stata caratterizzata << da un tenace antistatalismo che alimentava un’ideologia massimalista >> (12). Perfino Turati, nel 1891, dichiarava che << lo Stato attuale, difensore e complice naturale dei privilegi delle dominanti borghesie dalle quali riceve essenzialmente l’essere e l’impronta, diventa inevitabilmente il nemico delle classi diseredate, a cui contende la libertà, la giustizia e l’istruzione e delle quali si fa il persecutore ogni volta che esse tentano di emanciparsi >>. Lo Stato diventa così non lo “ strumento” per governare, ma il nemico da abbattere con ogni mezzo. Lo stesso forte movimento del cosiddetto “ socialismo municipale” punta alla conquista delle amministrazioni comunali non per rivendicare maggiore autonomia locale, ma per usare i comuni contro lo Stato, per delegittimare lo Stato: il potere comunale contro il potere statale non per mitigare il centralismo di quest’ultimo, non per ragioni amministrative, ma per ragioni essenzialmente politiche. Il “ socialismo municipale” considerava il comune non un’articolazione dello Stato, ma l’organizzazione sociale anteriore e contrapposta allo Stato. Gaetano Salvemini, nel 1897, sosteneva che bisognava servirsi dei comuni << come di buone posizioni per lottare col potere centrale>> e per << tenerci pronti a ricevere gli assalti del governo centrale e rispondere ad essi energicamente con altri assalti >> (13).
Occorre tenere sempre presente che l’ “anomalia” del socialismo italiano, vale a dire la sua impotenza riformista, è la diretta conseguenza dell’anomalia della storia d’Italia. Come abbiamo già ricordato, sono sempre mancate in Italia le condizioni di fondo che in molti altri paesi europei hanno reso possibile la presenza di un forte movimento socialdemocratico riformatore. Si è trattato di una assenza decisiva che ha reso poi il riformismo socialista italiano, sul piano politico concreto, quella piccola cosa, o quella cosa inesistente, che ha quasi sempre scambiato << il “disincanto” della scelta riformista col realismo praticone del sottogoverno >> ( Angelo Bolaffi).
4. – L’Italia del PCI che nasce è, dunque, “ un paese senza” : senza riforme e senza rivoluzione; senza liberalismo democratico e senza cattolicesimo moderno; disunito, lacerato, debole, autoritario. È per questo, per l’eredità storica ricevuta, per la peculiarità del nostro essere comunità, per la fragilità della nostra tenuta civile che il PCI assume come propria, unica strategia rivoluzionaria la ricerca dell’unità del paese: l’unità come il vero obiettivo rivoluzionario senza il quale nessuna altra conquista, né politica, né sociale, né civile, sarebbe stata possibile. Bisognava fare, insomma, ciò che nell’intera storia d’Italia nessuno era stato in grado di fare.
Fare la rivoluzione significava per il PCI incrociare la storia d’Italia e misurare la sue capacità di cambiamento proprio sui grandi problemi che la storia ci consegnava. Esso asseconda pienamente la fondamentale indicazione metodologica di Antonio Gramsci. Il quale così ritiene debba essere cercato il senso dell’esistenza di un partito “ rivoluzionario”: << Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? Come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe, in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere più vasta e comprensiva>>. Continua, precisando: << Si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porre in risalto un aspetto caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà pesato più o meno nella determinazione della storia di un paese >>. E conclude:<< Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando a ogni cosa l’importanza che ha nel quadro generale, poserà l’accento soprattutto sull’efficienza reale>> (14).
Il “mitico” radicamento del PCI non è altro, appunto, che questo rapporto stretto con la storia del paese. Per settant’anni storia del PCI e storia d’Italia si incrociano e la storia dell’uno condiziona fortemente la storia dell’altra, e viceversa. La rivoluzione a cui pensa il PCI è di riuscire dove tutti gli altri hanno fallito: costruire uno Stato davvero unitario e un paese davvero unito. In questo fallimento, laici e cattolici hanno accumulato enormi responsabilità storiche: i laici per il loro sostanziale disprezzo per le masse, i cattolici per il condizionamento determinante della Chiesa di Roma, avendo questa sempre operato con la logica e per interessi di potenza temporale permanentemente in concorrenza con le altre potenze temporali. Scrive Gramsci:<< I laici hanno fallito il loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza normale del popolo-nazione…: proprio non aver saputo elaborare un moderno “ umanesimo” capace di diffondersi fino agli strati più rozzi ed incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati ad un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta >>. E aggiunge subito: << Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo >> (15).
Il PCI cercava di modellarsi come uno strumento per questa inedita operazione storica: unire dove gli altri hanno diviso. L’unità diventa il suo assillo, la sua stella polare, anche se non poche volte offuscata – bisogna dire – da una ideologia ambigua che però non ha mai fatto deviare la sua azione concreta. Non a caso Gramsci chiama il suo quotidiano, fondato nel 1924 e fino al 1991 organo ufficiale del PCI, “ l’ Unità”. L’ unità era la via necessaria e, dunque, davvero rivoluzionaria, per combattere il fascismo. Sulla divisione tra le grandi forze sociali e politiche, il regime fascista aveva costruito la sua forza e il suo dominio, – se vogliamo – anche la sua egemonia dopo la conquista di buona parte delle masse cattoliche con i “ Patti Lateranensi” ( che valsero a Mussolini la definizione papale di “nonno della Provvidenza”). Sull’unità nazionale popolare, la lotta antifascista doveva fondare la sua azione.
Proprio nella lunga lotta antifascista il principio dell’unità si consolida, riuscendo a mettere da parte ogni divisione ideologica di fronte alla necessità di liberare l’Italia dalla dittatura. Nelle scelte concrete il PCI seppe offrire l’esempio più convincente di come occorresse sempre commisurare l’ideologia sulle vitali necessità nazionali. Sotto il fascismo il suo obiettivo primario è stato quello di costruire il più ampio spazio politico unitario << che doveva accomunare tutti coloro che alla tirannide fascista volevano sostituire il regime della democrazia politica >>. Tale sforzo trovò pratica attuazione nella lotta clandestina contro fascisti e tedeschi, nei Comitati di liberazione nazionale (CLN) << attorno a cui si batterono le formazioni partigiane socialiste, comuniste, cattoliche, i grandi partiti popolari, le rinate organizzazioni sindacali >> (16).
5. – Questa politica è continuata anche dopo, a livello governativo, fino al 1947, sostenuta dalla realistica convinzione che nessuna forza politica sarebbe stata in grado da sola di sconfiggere il fascismo e di rinnovare l’Italia. Pur tra resistenze e punti di vista radicalmente diversi, infatti, – e nonostante l’approvazione di un ordine del giorno proposto dal democristiano Giovanni Gronchi, nel quale si diceva che la guerra di Liberazione non poteva essere condotta << sotto l’egida dell’attuale governo costituito dal re e da Badoglio>> – all’indomani della caduta di Mussolini e del suo governo, il PCI con Togliatti riusciva ugualmente a ottenere il sostegno al primo governo Badoglio, facendovi entrare come commissario e vice commissario il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. L’unità necessaria per cacciare i tedeschi era infatti prioritaria rispetto a qualsiasi altra questione di principio e, per questo, bisognava << stringersi attorno al governo Badoglio >> e rinviare ogni divergenza alla fine della guerra. Di lì a poco sarà poi Togliatti, con Benedetto Croce in rappresentanza dei liberali, a far parte del secondo governo Badoglio.
Un’altra tappa fondamentale nella politica di unità sarà la “svolta di Salerno” e la formazione del governo Bonomi in cui entreranno tutti i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale ( il PCI sarà rappresentato dallo stesso Togliatti e il partito socialista da Saragat). Per il capo del PCI, l’esigenza di tenere unito il paese in un momento di grave crisi statuale e sociale, richiedeva un’intesa non solo tra tutti i partiti antifascisti, ma anche con i monarchici. << Sceglie chiaramente questa unità per ricostruire insieme la democrazia in Italia, disposto perfino a realizzarla sotto la monarchia. Lungo questo percorso Togliatti diventerà uno degli uomini chiave del processo costituente che porterà alla nascita della repubblica >> (17). Con la “ svolta di Salerno” Togliatti abbandona la pregiudiziale antimonarchica per favorire – appunto – il processo di coesione del paese e delinea la trasformazione del partito comunista da partito di quadri, modellato fino a quel momento dalle necessità della vita clandestina, in partito democratico di massa col compito immediato di tenere insieme tutte le forze antifasciste per cacciare i tedeschi e, in prospettiva, con quello di inserire moltitudini diseredate ed arretrate nella vita democratica.
C’è in questa operazione la consapevolezza politica del ruolo centrale del partito in quanto tale: del comune destino tra sistema di partiti e democrazia, del partito come strumento essenziale di una democrazia organizzata e solida, dell’essenzialità del suo compito come elemento di coesione della società a prescindere dalla presenza nel governo “ tecnico” del paese. D’altra parte, la peculiarità della sua storia dal secondo dopoguerra costituisce la conferma proprio della validità di tale consapevolezza. Infatti, pur stando permanentemente all’opposizione ( ad eccezione del breve periodo nel primo governo De Gasperi), è, con il partito della Democrazia Cristiana, il principale protagonista della costruzione dell’Italia democratica e della elaborazione della Carta costituzionale, riuscendo a dimostrare nei fatti che una grande forza politica nazionale può esse “classe dirigente” senza essere “ classe dominante”.
Pur non essendo compito facile, dato il momento storico, il PCI comprese che per costruire la democrazia occorreva necessariamente saper mettere da parte ogni spirito di rivalsa e ogni partigianeria, saper, per così dire, accogliere anche frange che si erano riconosciute nella dittatura fascista. In coerenza con ciò, di notevole significato ( da qualcuno definito “memorabile”) fu l’amnistia di Togliatti da ministro di grazia e giustizia del primo governo De Gasperi. Alla epurazione radicale auspicata da una parte della sinistra, alla sostituzione con figure antifasciste dei dirigenti dell’esercito e della polizia, alla << espropriazione degli espropriatori >> per una << autentica rivoluzione nazionale >>, come si espresse Pietro Nenni, il PCI antepose la scelta della concordia e della pacificazione nazionale. Altro esempio dello spirito di unità nazionale veniva fornito dal PCI con la discussione ( molto accesa, fino alla frattura con i socialisti e i laici) e l’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione che recepiva in toto, senza alcuna modifica, i Patti Lateranensi, vale a dire il concordato tra Stato e Chiesa firmato nel ’29 da Mussolini e da monsignor Gasparri, segretario di Stato del Vaticano. Il valore strategico, generale, di quel voto favorevole era per il PCI quello di portare il confronto con i cattolici sui temi politici ed evitare il terreno sterile e inutilmente divisivo del contrasto religioso. Del resto, il PCI riteneva di muoversi anche in questa circostanza con coerenza dal momento che già dal 1945 il suo statuto prevedeva che l’adesione al partito fosse libera da ogni pregiudiziale ideologica e legata solo al programma politico.
6. – Bisogna dire che per questa questione del rapporto con i cattolici il PCI si muoveva su un terreno già ampiamente dissodato. Sin dall’inizio della sua storia comprende che la collaborazione tra movimento operaio e mondo cattolico è fondamentale per il paese. Le radici e l’elaborazione più compiuta di ciò si trovano in Gramsci. Già nel “ primo” Gramsci, infatti, come documenta, tra gli altri, Pier Giorgio Zunino ( opportunamente segnalato anche da Pendinelli e Sorgi), fin dai tempi del “ Grido del Popolo” viene condannato << l’anticlericalismo stupido, diseducativo intellettualmente e politicamente >>. Aggiunge Zunino:<< L’esperienza ordinovista non risultò minimamente impacciata da alcun residuo di settarismo antireligioso >> (18).
Per il PCI, nessun rinnovamento del paese sarebbe stato possibile senza il confronto e la collaborazione fra movimento socialista e movimento cattolico. Quando Togliatti torna in Italia, nel 1944, riparte proprio dalle posizioni gramsciane e con la “ svolta di Salerno” pone all’ordine del giorno anche la questione politica del rapporto con i cattolici. Con la proposta, poi, del “ compromesso storico” di Enrico Berlinguer tale questione raggiunge il suo punto più alto, la sua compiutezza politica e teorica. Pur essendoci una indubbia continuità fra la linea unitaria di Togliatti e quella di Berlinguer, il “ compromesso storico” costituisce comunque un salto di qualità nella strategia “rivoluzionaria”, di cambiamento della società, del PCI. Non si tratta per nulla, infatti, (come molti hanno sostenuto e continuano a sostenere) di una strategia difensiva, per rimediare alla fragilità politica, economica, sociale del paese, ma, come scrive Cerroni, di << una strategia di attacco al capitalismo italiano >>. A differenza di Togliatti, Berlinguer non ha ormai bisogno di rassicurare sulla democraticità del PCI, avendolo fatto ampiamente, e con clamore globale, rompendo col Cremlino e dichiarando la democrazia “ valore universale”, per cui può lanciare la sfida di cambiare il sistema capitalistico proprio rispettando scrupolosamente regole e valori del metodo democratico e il pluralismo politico. L’unica condizione che il “ compromesso storico” pone è che le forze politiche in competizione ritengano necessario davvero rinnovare la società e lo Stato. In una intervista, Berlinguer così spiega:<< Noi siamo certi che l’Italia è un paese che ha bisogno di grandi trasformazioni sociali, economiche, politiche… E’ impossibile cominciare a condurre avanti queste trasformazioni senza l’accordo delle grandi forze sociali e politiche (comunisti, socialisti, cattolici, laici). Questa corresponsabilità storica non vincola necessariamente tutti a partecipare alla maggioranza e al governo. Sono possibili, di volta in volta, formule politiche, coalizioni di governo e maggioranze diverse. Purché rimangano quella comune responsabilità, quella solidarietà nazionale, quello sforzo di comprensione reciproca e soprattutto l’impegno comune di trasformare il paese. Questo è il compromesso storico >> (19).
Accettato tale “ compromesso”, la democrazia consente poi “ tutto” a chi ha più filo per tessere: di lavorare per mantenere e migliorare il sistema dato, oppure per una prospettiva socialista con il consenso di tutti i lavoratori, democristiani e cattolici compresi. Berlinguer è pienamente consapevole delle potenzialità e della duplice natura della democrazia: da un lato, di quella di sistema delle regole e del metodo per garantire l’uguaglianza formale dei cittadini ; dall’altro, di quella di universo ricco di valori umani che spingono verso un regime sociale di eguaglianza materiale. Il PCI di Berlinguer, insomma, ritiene che la democrazia “lavori” per il socialismo, specialmente in Italia grazie ad una Costituzione repubblicana tra le più avanzate al mondo. Si tratta, come si può ben capire, di un approdo di enorme portata, di una via al socialismo fino allora mai esplorata ma di grande forza e realismo, che Berlinguer indica all’intero movimento socialista internazionale e su cui rompe irreversibilmente con l’URSS nel 1976 quando, nel già citato XXV Congresso, pronuncia queste parole:<< Pensiamo che in Italia si possa e si debba costruire la società socialista col contributo di forze politiche, organizzazioni, partiti diversi, e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico >>.
7. – Ciò che è possibile per l’Italia Berlinguer ritiene che sia possibile anche per gli altri paesi dell’Europa occidentale. Egli, infatti, non ha mai considerato fatale arrendersi all’idea che per l’Europa – e per l’Italia – l’unico modello praticabile sia quello del socialismo riformista. Sa bene che in Occidente il movimento socialista ha perso la partita col regime liberale e il confronto con le classi dominanti proprio sul terreno della democrazia e della competizione per il consenso. << Non a caso proprio il suffragio universale ha messo in crisi il socialismo contemporaneo spaccandolo in due: un’ala lo ha respinto radicalmente quasi intimidita dal confronto, un’altra vi è stata dominata e svuotata di ogni contenuto rinnovatore >> (20).
Dunque, è la sfida sul terreno democratico e dell’egemonia culturale che il movimento socialista deve saper vincere per tenere aperta la prospettiva della trasformazione sociale. Per Berlinguer e il suo PCI la contrapposizione con Mosca, esplicita, radicale, costituisce un passo importante di questa strategia. L’altro, ugualmente importante, è quello di dare alla prospettiva politica dell’eurocomunismo connotati anche culturali, di una prospettiva di civiltà, così come aveva indicato Gramsci: l’Europa che trasmette al socialismo la sua grande cultura e la grande cultura europea che trova nel movimento operaio il soggetto politico capace di preservarla e di rilanciarla.
L’eurocomunismo è, perciò, una parola d’ordine che fa riferimento a ben altro che alla ricerca di un comunismo riformato, come riduttivamente da non pochi è stato detto. Per Berlinguer la società del futuro non può essere governata né dalla logica di un mercato libero da ogni vincolo, né, tanto meno, dalla incredibile mitologia del “ socialismo reale”. Occorre, invece, per lui, contrapporre ad un neoconservatorismo che si affida agli spontanei meccanismi mercantili, un nuovo pensiero forte della sinistra che sappia ridare centralità alla politica e al sapere. L’eurocomunismo non ha, perciò, niente a che fare con la riproposizione di un tranquillizzante dogmatismo ideologico, ma è la forza capace di far leva sulla grande tradizione politica, culturale, civile dell’Europa per cercare di dare soluzione ai problemi inediti del mondo moderno.
Questo livello alto di elaborazione si interrompe però bruscamente. Non con la caduta del Muro, ma con la morte improvvisa di Berlinguer. Con la sua scomparsa, infatti, il PCI subisce un vero e proprio collasso culturale. I suoi successori si rivelano inadatti a portare avanti una eredità tanto impegnativa e “ raffinata”. Impoveriti dall’assenza della figura prestigiosa di Berlinguer non riescono a trovare gli elementi culturali prima che politici per una ricostruzione, per il rilancio del partito, e ripiegano nell’alea, nell’indeterminatezza di un “ nuovo inizio” che si rivela essere semplicemente la ricerca della via più spedita per andare al governo. Viene perduto il senso della storia di un partito che pur essendo stato per decenni sempre fuori dal governo “ tecnico” del paese, è riuscito ugualmente ad essere protagonista e determinante nelle conquiste sociali ed economiche del movimento dei lavoratori. La politica di un grande partito viene ridotta ad arido “ governismo”.
Ormai disarmati culturalmente, la successiva caduta del Muro e del sistema sovietico viene letta dagli eredi di Berlinguer come la prova madre dell’invincibilità e della superiorità storica del sistema capitalistico e come obbligo, perciò, non di contrastarlo ma di assecondarlo per farne emergere i caratteri “positivi”. Già nel 1991 << per la prima volta si provò a formulare un programma elettorale e di governo rispettoso delle compatibilità economiche, consapevole dei problemi reali dell’economia italiana. In sostanza, una svolta decisa che per la tradizione comunista rappresentava una vera discontinuità>> (21). per la prima volta la sinistra che viene dal PCI mette a punto un programma dichiaratamente neoliberista, che andava a lesionare fortemente la funzione del pubblico ( nell’ << occupazione, la sanità, la contrattazione, il pubblico impiego, le privatizzazioni >> ) ( V. Visco).
La “ sinistra di governo” del 1996 al 2001 attuerà, di fatto, proprio quel programma, operando una vera e propria mutazione genetica della sua cultura. Vi era la convinzione, appunto, che i rimedi da adottare dovessero riguardare soprattutto il modo per dare al neoliberismo maggiore incisività e “ umanità”. Alla base del nuovo “ pensiero” c’era l’idea che i vecchi vincoli “ ideologici” dovessero essere superati perché ormai tra socialismo e modernità il divorzio era consumato definitivamente : << Tutto il vecchio impianto su cui si era costruito il pensiero del socialismo non regge più >>, si diceva. Di fronte alle novità epocali della globalizzazione, dell’economia della conoscenza e dell’immateriale << che tende a invadere non più solo i mercati delle merci, ma i significati e i valori della vita >> il socialismo si rivela ormai un arnese inutile >> (22).
Senza più la possibilità del socialismo, con una sinistra convertita al credo neoliberista, cambia anche la concezione del partito come strumento operativo. Ora, infatti, non deve essere né di sinistra, né socialista, né di classe, ma un soggetto << nuovo capace di fare coalizione, un partito più nazionale >> : un “ partito della nazione”. La presenza di qualche rinvio al pensiero di Antonio Gramsci doveva servire solo a portare fuori strada, a mascherare: a rendere meno evidente proprio il concetto gramsciano del partito che deve diventare nazionale, “ universalizzarsi”, senza perdere la sua natura di classe, la sua “ parzialità”, la sua autonomia culturale e ideale. Con questa idea di partito, ritenuta moderna, post-novecentesca, viene dato l’ultimo colpo alla sopravvivenza di una sinistra capace di un proprio punto di vista autonomo sulla modernità.
Per dirla con un bel pensiero di Michele Prospero, con la generazione dei quadri post-sessantotto muta << il profilo identitario e culturale, la “ vocazione” della leadership politica. Americanismo e nuovismo, gazebo in luogo dei congressi, oltrismo e uccisione dell’idea di partito hanno reciso ogni pensiero politico e quindi accompagnato verso il vuoto. È stato però dolce essere tra i dannati che hanno edificato in Italia il Partito, guidato la guerra partigiana e disegnato la democrazia costituzionale >> ( 23).
Egidio ZACHEO
NOTE
1) U. Cerroni, Crisi del marxismo?, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 113-114.
2) E. Macaluso, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Milano, Feltrinelli, 2014.
3) Cit. in M. Pendinelli, M. Sorgi, Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia, Venezia, Marsilio, 2020, pp. 373, 374 e 199.
4) Cfr. spec. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema, Roma-Bari, Laterza, 2003.
5) N. Rossi, Riformisti per forza. La sinistra italiana tra il 1996 e 2006, Bologna, il Mulino, 2002 .
6) M. Prospero, L’equivoco riformista, San Cesario di Lecce, Manni editori, 2005. 7) U. Cerroni, op. cit., p. 115.
8) N. Bobbio, Profilo ideologico del ‘900, Milano, Garzanti, 1995, p. 44.
9) G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Roma-Bari, Laterza, 1984.
10) B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918, Roma-Bari, Laterza, 1965.
11) Cit, in M. Pendinelli, M Sorgi, op. cit., p. 19.
12) M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Roma-Bari, Laterza, 1999.
13) Per questa citazione e per quella di Turati v. R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, Roma, Donzelli, 1995.
14) A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi,1975, pp.1134-1135.
15) Ivi, pp. 2118-2119.
16) U. Cerroni, op. cit., pp.125 e 117.
17) M. Pendinelli, M. Sorgi, op. cit., p. 133.
18) P. G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), Bologna, il Mulino, 1975, pp. 74-75.
19) Cit, in M. Gotor (a cura di), La passione non è finita, Torino, Einaudi, 2013.
20) U. Cerroni, op. cit., p. 112.
21) V. Visco in M. Salvati (a cura di), Alfredo Reichlin. Una vita, Biblioteca della Enciclopedia Treccani, 2019, p. 189.
22) Ivi, p.215.
23) M. Prospero, E’ stato bello essere tra i dannati, in “ La Parola” – Cesena- dicembre 2020.
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