Fassino e la rivoluzione democratica del PCI

Il libro di Piero Fassino sul Pci (“Dalla rivoluzione alla democrazia. Il cammino del Partito comunista italiano 1921-1991”), edito da Donzelli, stimola a riflessioni e valutazioni critiche soprattutto a partire dagli ultimi capitoli (dal ventiduesimo in poi). Il resto, infatti, appare solo una rapida, diligente, didascalica, utile ricostruzione della storia di quel partito dalla nascita nel 1921 alla “morte” nel 1991. Diciamo subito che nella valutazione del conflitto novecentesco apertosi nel movimento socialista tra progetto di cambiamento e compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro l’autore è disposto a concedere al primo assai poco. Vi è nel libro una specie di filosofia della storia, la convinzione dell’esistenza di un finalismo storico che porta ineluttabilmente verso il riformismo socialdemocratico e il “ rimprovero” costante al PCI di non aver voluto mai ammettere – pur essendolo nella prassi concreta – di essere un partito riformista. Eppure per l’autore il cammino che linearmente il Pci ha compiuto è stato quello dell’abbandono della impossibile rivoluzione socialista e dell’approdo non problematico verso il sistema politico–sociale dell’Occidente. Niente è detto, però, nemmeno per accenni, sulla faticosa, originale, creativa ricerca compiuta dal Pci di Gramsci ( ma anche di Togliatti e Berlinguer). Nemmeno per ipotesi è ammesso che se Lenin ha fatto la “ rivoluzione contro il ‘Capitale’ ”, Gramsci abbia fatto – come effettivamente ha fatto – una rivoluzione teorica contro il “ Capitale”, contro Lenin e, anche, contro Bernstein. Identificandolo con la rivoluzione violenta, Fassino ritiene il socialismo incompatibile con la democrazia e, per questo, il Pci – approdato già con Togliatti al riformismo -, mantenendo l’evocazione di un orizzonte socialista, vivrà il fatto di riconoscersi nei valori della democrazia come una anomalia.

Si tratta di uno strabismo culturale e politico dovuto alla convinzione, presente soprattutto nella generazione di dirigenti successiva a Berlinguer, che la democrazia politica si identifichi indissolubilmente col capitalismo e rinunci ad ogni proposito di socializzazione dei rapporti economici. Insomma, perFassino, al movimento operaio non resterebbe, da sempre, altro da fare che limitarsi ad applicare teoria e prassi del riformismo socialdemocratico. Per questo segnala, con una certa meraviglia, come una inspiegabile anomalia, che perfino in Berlinguer permanga, invece, ancora un  pregiudizio nei confronti della socialdemocrazia, a cui si addebita di voler “migliorare la società e non cambiarla” e che il PCI – anziché ad un certo punto “ rassegnarsi – in tutta la sua storia abbia scommesso sulla realizzabilità di una “ terza via” tra socialdemocrazie e comunismo, coniugando democrazia e trasformazione socialista della società.
Lo stesso titolo del libro – “ Dalla rivoluzione alla democrazia” – appare un po’ fuorviante. È proprio Fassino a dirci che la scelta democratica il Pci la matura assai presto, già nella Resistenza, e poi nella “ svolta di Salerno”, nella edificazione della Repubblica, nella costruzione del “ partito nuovo”, nella strategia della “ democrazia progressiva”. Ma se è così, c’è da chiedersi: allora, quando il Pci sarebbe stato concretamente rivoluzionario, insurrezionalista? Quando avrebbe potuto organizzare la rivoluzione se già nel ’24, dopo l’uccisione di Matteotti, c’è la fascistizzazione piena dello Stato? Quando, come partito organizzato, gli era impedito di esistere? Quando tutti i suoi dirigenti erano in carcere, al confino, in clandestinità, in esilio? La verità è che il Pci, come partito organizzato, non è mai stato rivoluzionario nel senso tradizionale: è stato un partito democratico peculiare, originale, ricco di elaborazione storico-teorica, che ha visto proprio nella democrazia la via per un profondo mutamento della società in senso socialista. E non è stato nemmeno un partito riformista secondo i canoni “ ufficiali”, anche perché in Italia non vi erano le condizioni per la presenza di un moderno partito riformista. Tanto è vero che nemmeno il Psi, nonostante molti luoghi comuni, è stato un partito riformista secondo i canoni del riformismo socialista europeo. Per esempio, nel suo congresso che precede la nascita del partito comunista, la componente turatiana risulta solo terza per voti, dopo i massimalisti e dopo i comunisti.
Nenni e De Martino non hanno mai rinunciato alla prospettiva di una società socialista. De Martino nel 1956 scrive:<< Anche noi, come i comunisti, miriamo ad abbattere il capitalismo e a creare, sulle rovine del vecchio sistema, l’economia e la società socialista >>. Lo stesso Bettino Craxi, divenuto segretario del partito nel 1976, solo nel 1981 si dichiarerà (anche per
convenienza politica immediata) riformista. Nel congresso del Psi di Torino del 1978, nel documento finale, l’”alternativa socialista” viene fondata proprio su una aspra critica delle socialdemocrazie europee per il loro riformismo debole: perchè in esse sono prevalse le tendenze ed esaurire la propria visione del socialismo negli spazi di libertà e nei margini di redistribuzione della ricchezza aperti dall’assetto capitalistico.
C’è in Fassino (e nella generazione “ orfana” di Berlinguer) scarsa consapevolezza dell’effettivo spessore della politica del Pci e della sua originalità. E così l’assenza di un Pci con un forte orizzonte critico lo porta di conseguenza ad una lettura riduttiva, di scarso livello analitico, delle varie proposte strategiche del partito. Del “compromesso storico” coglie solo il carattere di “ accordo” con la Dc e non, invece, anche quello di “ sfida” sul terreno di quei valori umani che, per la sua intrinseca natura, il capitalismo non può tutelare e garantire e in nome dei quali va combattuto. E dell’ “ eurocomunismo” coglie semplicemente l’idea – già sostanzialmente accettata- dell’assunzione dai partiti comunisti dell’Europa Occidentale di una politica pienamente democratica e non anche quella dell’implicito obbligo storico del movimento operaio di diventare l’erede, il custode della grande tradizione culturale e civile europea per rilanciarla ed arricchirla.
Fassino spiega la fine del Pci come una necessità storica dovuta alla caduta del Muro e al crollo del sistema sovietico e la svolta di Occhetto come la soluzione migliore per consentire alla sinistra di tenersi al passo con i tempi.
Ma appare più vicino alla realtà il fatto che il gruppo di giovani dirigenti post- Berlinguer, non riuscendo a rinnovare il grande patrimonio politico-culturale ereditato, abbia preferito ripiegare su un indeterminato, e meno impegnativo, “nuovo inizio” per accedere all’agognata “stanza dei bottoni”.
Questi “eredi”, convinti della superfluità del socialismo e della superiorità storica del capitalismo, nel giro di qualche lustro riusciranno nell’impresa di eliminare quasi del tutto la sinistra dalla scena politica del nostro paese.

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