La rifondazione impossibile

Auguriamoci che finisca presto questo rito della rifondazione con cui l’oligarchia del Pd cerca di esorcizzare la sua fine. Non si è mai visto che i responsabili di una morte annunciata si trasformino negli artefici della rinascita. Né il miracolo si potrebbe compiere con l’ennesimo cambio di testata, conservando la stessa redazione. No. Qualunque attore politico possa risorgere da queste ceneri, avrà lo stesso peccato originale: una organizzazione decrepita e l’assenza di un leader forte. Due handicap che, da vent’anni, condannano all’autodafé gli eredi di Pci e Dc.

L’immagine che agli opinionisti, e a gran parte del ceto politico, piace rappresentare di un partito è un aggregato più o meno ampio di persone al servizio di una visione del mondo e con al seguito elettorale alcune fasce di popolazione. Un po’ più a destra, a sinistra, o al centro. E più ecologia, o più operai, o più giovani. In mezzo, a fare da intermediari, una classe di professionisti, più o meno smart e disinteressati. Balle. Questa fotografia – ammesso che abbia mai funzionato – è stata spazzata via più di mezzo secolo fa. Quando i partiti – tutti i partiti – son diventati pigliatutto, acchiappando voti un po’ dovunque. Favoriti anche dal fatto che, a dispetto della filosofia della storia, le classi s’erano disintegrate. E per raggiungere questa melassa di votanti sono nate macchine del consenso che acceleravano o rallentavano a seconda del leader al timone, e della sua abilità a utilizzare i canali di comunicazione da cui dipende quel poco di vita associata che ancora ci rimane.

Questa grande trasformazione ha stravolto tutti i vecchi partiti, ne ha fatti nascere molti nuovi di zecca, con un mutamento genetico di linguaggi, protagonisti, regole. Tutti, tranne uno: il Pd. Qualche anno fa fui invitato a presentare una ricerca su questo partito in un blasonato ateneo milanese, alla presenza di centinaia di studenti. Con un sussulto di imbarazzo scoprii che i dati erano di oltre dieci anni prima. Me la cavai con una battuta: «lo studio è di grande attualità, in un decennio non è cambiato niente». E niente è cambiato dopo. Con l’unica aggravante che pensare di cambiare pelle non è un più un’illusione. È un inganno. Se il Pd – come ha scritto ieri Polito sul Corriere – è ridotto a «una confederazione di potentati, correnti, gruppi di pressione, cacicchi locali, ognuno interessato alla propria fortuna più che a quella comune», chi e come potrebbe mai innescare una così radicale palingenesi?

L’ultimo ad averci provato è stato Renzi, e – a suo merito – adoperò il termine appropriato. Ma dal processo di rottamazione è uscito rottamato lui stesso. Zingaretti ha generosamente tentato di mascherare il ginepraio di veleni che aveva ereditato. Agli esordi della sua avventura, aveva addirittura provato a innestare qualche germoglio di aria nuova. Poi gli è piombato addosso il governo, e che governo! Tra alleanze indigeste e ingestibili emergenze, ogni proposito di innovazione organizzativa è naufragato. La piazza grande del cambiamento è diventata i mille vicoli del potere, e il leader dal sorriso amico si è ritrovato ostaggio dei fratelli coltelli. L’ultimo servizio a una causa in cui tanti, come lui, hanno creduto è stato di decretarne il funerale. Con un post alla Achille Lauro, ha detto al proprio partito che era nudo.

Ora, gli esegeti del politically correct sono intenti a disputare se un leader abbia il diritto di vergognarsi. Ci si può commuovere o indignarsi a Sanremo, e in mondovisione. Ma sul teatrino della politica bisogna restare zitti e buoni. Se ancora ci fosse stato nel Pd quel briciolo di dignità che, ai suoi vertici, manca ormai da troppi anni, dopo l’uscita del suo segretario sarebbe sceso un assordante silenzio. Un sentimento compunto della storia, una grande storia che si chiude. Invece hanno immediatamente cominciato ad agitarsi, regolamento alla mano, per mettersi d’accordo sul reggente. Il grande Totò si chiederebbe dove pensano di andare a finire.

di MAURO CALISE.

(“Il Mattino”, 8 marzo 2021).

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