“Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione Europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite.” Così dichiarava il 17 febbraio il nuovo Presidente del Consiglio, Mario Draghi, al Senato della Repubblica.
Che le Nazioni Unite siano un ancoraggio storico è forse solo una immagine retorica: l’Italia nel 2019 aveva votato contro la risoluzione dell’Assemblea generale ONU che invitava ad aderire al trattato di abolizione delle armi atomiche, trattato entrato in vigore un po’ in sordina il 22 gennaio scorso, quando almeno 50 stati, ultimo l’Honduras, hanno ratificato la firma.
Nessun Paese con l’atomica l’ha firmato, e solo 6 in Europa, sebbene l’orologio dell’Apocalisse, un segnatempo simbolico, inventato da un gruppo di scienziati per indicare a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, ci avverta che siamo a 100 secondi dalla fine.
Siamo molto preoccupati per la destinazione dei rifiuti nucleari in qualche località italiana, ma siamo consapevoli che ad Aviano ci sono ancora 40 bombe atomiche?
Certamente questo governo è convintamente atlantista: il giornalista Antonio Mazzeo in un incontro del 24 febbraio, curato dalla Rete per la pace e il disarmo, affermava che in quegli stessi giorni si erano riuniti i Ministri della Difesa dei Paesi NATO e mentre le truppe statunitensi intendevano lasciare l’Iraq ( Biden ha sospeso la decisione), l’Italia era pronta ad assumere il comando delle forze NATO in quella regione. Inoltre la NATO formalizzava la piena operatività a Sigonella del nuovo sistema di intelligence con cinque droni, un sistema di controllo fra i più costosi della storia dell’Alleanza Atlantica. Non solo, al largo delle coste siciliane era in corso una importante esercitazione aeronavale di guerra ai sottomarini, sempre NATO, nella quale l’Italia forniva centri di comando, di controllo, le strutture logistiche a Catania, Augusta, Sigonella: questo sta ad indicare che l’Italia ha un ruolo centrale nella Alleanza Atlantica, confermato anche dal moltiplicarsi di basi sul suolo italiano, strategiche per le operazioni nel Mediterraneo, in Africa e nel Medioriente. Oltre all’acquisto di armi: annosa, ma non conclusa, è la vicenda degli f-35. Iniziata nel lontano 2002, prevedeva 13,5 miliardi di euro per 131 bombardieri dalla capacità nucleare, con una linea di assemblaggio a Cameri. Anche il nostro vescovo Charrier in qualità di presidente della Pastorale del lavoro di Pax Christi si era pronunciato contro. Complice la crisi economica e una visibile campagna pacifista che contestava l’acquisizione, il numero di aerei da 131 passa a 90. Il programma Joint Strike Fighter, quello degli f-35, continua ad accumulare problematiche tecniche e ritardi di produzione tanto che lo stesso Pentagono, a fine 2020, mette “in pausa indefinita” la produzione degli aerei . Pur diminuendo il numero dei cacciabombardieri i costi sono lievitati e l’Osservatorio Mil€x sulle spese militari italiane prevede un totale di 18, 2 miliardi con tutti gli oneri accessori.
Anche in quest’epoca di pandemia, non accenna a diminuire il bilancio del Ministero della Difesa che passa da 22 miliardi e 940 milioni a 24 miliardi e 540 milioni. Francesco Vignarca, fondatore dell’Osservatorio Mil€x, parla anche dei fondi di investimento pluriennali, partiti nel 2016 e che arriveranno al 2034, di complessivi 144 miliardi: al Ministero della Salute sono stati assegnati 2,14 miliardi, alla Difesa 36,7 mld e di questi quasi 24 solo per nuove armi.
E a chi vanno queste nuove armi? La legge del 9 luglio 1990, n. 185 stabilisce le norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento che sono soggetti ad autorizzazioni e controlli dello Stato. Legge che vieta il commercio con Paesi in conflitto armato o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Ebbene in questi trent’anni la legge è stata molto spesso aggirata e oggi il 56% dei sistemi è esportato in Paesi fuori dalla UE e dalla NATO, Paesi come Kuwait, Arabia Saudita,Emirati Arabi. Dal 25 gennaio 2016, data della scomparsa di Regeni, abbiamo esportato armi in Egitto per un valore di almeno 955 milioni di euro, fregata Al-Galala esclusa. Unico successo, davvero storico, è stato la revoca della licenza di esportazione di bombe e missili prodotte in Sardegna, utilizzati dall’Arabia Saudita in Yemen, da parte del Parlamento dell’ultimo governo Conte, certamente anche grazie alle pressioni della società civile che si è appellata al rispetto della legge 185.
Ma torniamo alle spese belliche: dal 2017 è stato istituito il Fondo Europeo della Difesa che chiede ad ogni stato UE risorse economiche, quasi otto miliardi complessivi, che non vengono sottratte, ma aggiunte ai bilanci militari nazionali pur non avendo ancora l’Unione una visione strategica in politica estera.
E’ sempre necessario ricordare che queste risorse che provocano distruzione e instabilità in tante zone del mondo meglio sarebbero utilizzate in sanità (qualcosa la pandemia ci dovrebbe insegnare), istruzione, cultura, battaglie incisive contro i cambiamenti climatici, interventi a favore dei 17 obiettivi che le Nazioni Unite, il nostro storico ancoraggio, intendono raggiungere entro il 2030.
A proposito di cambiamenti climatici, il 23 febbraio scorso la pubblicazione di una ricerca commissionata dal Left Group del Parlamento Europeo, formato da Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica, a due associazioni che da anni si occupano di rischi e i danni ambientali causati dalle attività militari, ha messo in evidenza come una crescente militarizzazione produca maggiori rischi per la pace e per l’ambiente.
Il report di 52 pagine contiene molti dati interessanti sia sulle spese militari di singoli stati (tra cui l’Italia), sia sulle emissioni di gas con effetto serra di alcune tra le aziende europee più attive nella produzione di armamenti: le attività belliche e tutte le tappe che le precedono e le seguono, dall’estrazione di materie prime, alla produzione di armamenti, alle esercitazioni , fino allo smaltimento, spesso molto inquinante, di residui bellici, producono una carbonfootprint, una impronta invisibile, ma molto pesante, perché produce una quantità notevole di gas serra, quelli incriminati per i cambiamenti del clima.
Una seria transizione ecologica, fiore all’occhiello del nuovo governo, passa anche attraverso una drastica riduzione delle spese belliche, ma dubitiamo che il ministro preposto, già Responsabile Tecnologie e Innovazione della società del settore difesa e aerospazio Leonardo, prenda in considerazione questa scelta.
Eppure anche per noi è “l’amore per l’Italia” come conclude il Presidente Draghi nella sua dichiarazione programmatica.
Per “Associazione per la pace e la nonviolenza” co-portavoce Nicoletta Vogogna
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