Riflettendo su Moro

La figura di Aldo Moro, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua scomparsa, suscita ancora intensi dibattiti su una eredità umana e politica che ai più appare controversa. In particolare, soffermandosi doverosamente col pensiero in vicinanza della data fatidica del nove maggio, quando nella primavera del 1978 fu ritrovato il corpo esanime del leader democristiano all’interno di una Renault rossa, Marco Follini prima e Piero Ignazi dopo, sulle colonne del quotidiano ‘Domani’, hanno ricordato la figura del cattolico pugliese con accenti tutt’altro che scontati e rituali.

Marco Follini si è concentrato sui luoghi comuni con cui ormai si sfigura e non si ricostruisce con l’onestà del vero storico il significato principale della vicenda politica di Aldo Moro. Aldo Moro, anche quest’anno nei rituali ricordi della vicenda del suo rapimento e della sua morte, è descritto come il vero gestore del ‘Compromesso storico’, come se fosse ‘una sorte di Berlinguer democristiano’, è indicato come il politico che portava al governo i comunisti, e, inoltre, gli si imputa di essere ‘l’architetto di un grande disegno ‘consociativo’ che avrebbe dovuto accomunare ‘i partiti della Resistenza nei secoli dei secoli ( o quasi)’. Follini sfata, con precisione riferita ai fatti storici incontrovertibili, molti luoghi comuni sopra riportati.

Moro, infatti, non può essere descritto come il protagonista del compromesso storico, ma semmai è il politico della terza fase della repubblica italiana, dopo la prima caratterizzata dal centrismo degasperiano e la seconda imperniata sul centrosinistra allargato ai socialisti. Lo statista di Maglie sente scorrere nelle vene della vita sociale italiana un flusso nuovo che lo costringe a pensare ad un approccio diverso e ad un modularsi inedito dei rapporti fra le forze politiche e fra esse e le istituzioni. E’ così che egli immagina una ‘terza fase’ della repubblica caratterizzata da un contrapporsi libero di due diversi schieramenti, egualmente legittimati, imperniati da un lato sulla forza cattolica e dall’altro dalla permanenza dell’insediamento popolare del PCI.

Per certi aspetti, Moro, risulta un conseguente continuatore della politica giolittiana di inserimento delle masse nella vita dello stato. Ma quello stato non era più l’organo ristretto e gerarchico di stampo liberale, ma era per Moro, giovane costituente fra il 46’ e il 48’, una nuova repubblica che si fondava sulla precedenza del dato fondante della inviolabilità della persona umana, ente portante dell’intera costruzione umana e politica. E’ su questo dato di fondo che si deve inquadrare il presunto anticomunismo del leader democristiano; unico assunto contenuto nell’intervento di Follini su cui mi sentirei di dissentire. Moro non fu anticomunista in sensi stretto, poiché tale formulazione lo confonderebbe a posizioni comuni con una destra conservatrice che era a lui del tutto aliena, come Follini stesso riconosce. In un convegno del 1967, sul ruolo in politica dei cattolici, svoltosi a Lucca, come ricordato nel volume di Corrado Guerzoni ‘Aldo Moro’ edito da Sellerio, l’allora presidente del consiglio afferma significativamente ‘ che i cattolici democratici hanno assicurato il dialogo politico in Italia in collegamento con tutti e senza esclusioni’, e aggiungeva ‘ Infatti anche nei momenti più duri del nostro contrasto politico con le forze totalitarie, noi abbiamo parlato non da totalitari che si difendono, ma da democratici che vogliono vincere facendo crescere la società democratica’. Il senso di una opposizione al comunismo è chiara, ma diretta a sottolineare una alternatività ad esso piuttosto che una contrapposizione irriducibile che non seleziona i mezzi per combattere questo male. Analogamente vi è un rifiuto in Moro, costante e puntuale, di ogni cedimento a qualsiasi alleanza con i fascisti e i monarchici. Per il politico proveniente dalla Fuci era impensabile che la DC diventasse l’asse portante di un blocco d’ordine in funzione anticomunista, coinvolgente forze di destra fino a spingersi a includere l’MSI di Almirante. Per Moro la Democrazia Cristiana doveva continuare a difendere il fragile equilibrio della repubblica nata dalla resistenza, nata cioè in un processo così travagliato e non di rado influenzato dal quadro internazionale dominato questo dai ferrei schemi della ‘Guerra fredda’. E questo fragile equilibrio, caratteristico di una ‘democrazia difficile’, poteva essere garantito solo se progressivamente masse sempre più ingenti venivano portate a collaborare con lo stato e il suo governo, e se gradualmente venivano allargate significativamente gli effetti di un benessere e di uno sviluppo economico a le classi sociali subalterne. Dunque, per Moro era da evitarsi ogni scivolata a destra, ogni chiusura al processo storico che gli appariva irreversibile dell’ingresso delle masse nella vita democratica dello stato, partecipando queste con coscienza e libertà, allo sviluppo economico generale e alla positiva evoluzione della vita politica repubblicana. Questa lenta evoluzione dei processi sociali e politici verso sinistra, che per Moro traduceva il significato della espressione degasperiana della DC ‘come centro che guarda a sinistra’, connoterà per sempre il nucleo più forte di tutta la concezione politica del professore di diritto prestato alla militanza di partito. E’ così che si spiegano i rancori socialisti e della sinistra nei confronti di Aldo Moro, accusato di saper incantare le forze del movimento operaio chiamate a collaborazioni democratiche che però non giungono mai a garantire svolte politiche e sociali veramente incisive. Dall’altra parte vi è l’ostilità, addirittura l’odio, contro lo statista di Maglie, da parte delle destre, anche quelle interne democristiane, che vedono in lui un cripto-comunista, il democristiano che spezza ogni volta la trama di chi vorrebbe spostare gli equilibri del paese a destra e buttare a mare una volta per tutte il testo costituzionale nato dalla resistenza. La destra interna ed esterna alla DC, è stata, a partire dalla metà degni anni sessanta, ( si pensi, per inciso, alla segreteria di Flaminio Piccoli o di Arnaldo Forlani), anche tecnocratica e presidenzialista, già protesa a sbarazzarsi del ruolo dei partiti e tesa a promuovere governi dei tecnici capaci e dell’uomo forte al comando. Contro questo modo di intendere la politica come esercizio caratterizzato da una delega plebiscitaria agli uomini capaci, apparentemente lontani dalle beghe sociali di partito, Moro scriverà sempre parole significative di rifiuto e critica di tale impostazione, giungendo a vergare annotazioni inequivoche pure nel memoriale steso nei 55 giorni di prigionia.

In sostanza, Aldo Moro, al sottoscritto, appare come l’uomo politico, dopo De Gasperi, più importante nel primo trentennio della repubblica. Lo statista pugliese si trovò a controllare, per ciò che consentirono i suoi incarichi e il suo potere e il suo prestigio, il delicato equilibrio fra il fronte di destra e il fronte sinistro dello schieramento sociale del paese. La sua opera fu sempre tesa ad impedire lo scontro aperto fra i due settori in cui era divisa la politica italiana nel dopoguerra, dinamica che si aggravò con il procedere della ‘Guerra fredda’. In Aldo Moro prevaleva la necessità di incontrarsi con le masse popolari della sinistra includendole nel gioco democratico, senza per questo alterare gli schieramenti internazionali e senza far perdere il consenso conservatore di alcune porzioni dell’elettorato democristiano impedendo a questi di rafforzare la egemonia dei monarchici e dei missini, sempre speranzosi di trascinare la DC sul terreno del ‘Blocco d’ordine’. E’ da questa difficile alchimia politica che originano le lentezze e i freni che il programma riformatore e l’azione del centrosinistra subiranno già nei primi anni sessanta, e Moro stesso, va detto con chiarezza, pagò l’opera di svuotamento delle riforme attuata sistematicamente dai dorotei con l’isolamento nel partito dopo il 68’. Tuttavia, tutta la sua opera politica va vista nell’ottica di uno sforzo continuo nell’impedire lo scivolamento a destra del quadro politico, nell’evitare avventure golpiste, nel rifiutare modernizzazioni tecnocratiche che sono in ultima istanza populiste. Il fallimento del progetto moroteo di apertura a sinistra ci consegna l’Italia di oggi, perennemente fuori sincrono rispetto al proprio dettato costituzionale e sempre più povera di virtù civili, subalterna verso l’esterno e sempre più rinchiusa nella solitaria alterigia di sciocche ambizioni regionali. Pur nella problematicità e contraddittorietà evidente, il tempo democratico di Moro ci manca e di lui non ci resta che la sua ombra ammonitrice.

Alessandria  29-05-2021

Filippo Orlando

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*