La recente pubblicazione del libro di Ilaria Pavan Le conseguenze economiche delle leggi razziali per i tipi de il Mulino ci consente di riaprire un capitolo di storia che solo negli ultima 15 anni ha ricevuto l’attenzione che meritava.
Nel febbraio del 1939 il neo costituito Ente di gestione e liquidazione immobiliare, poi chiamato EGELI, aveva valutato l’ammontare del patrimonio immobiliare italiano in mano agli ebrei di circa un trentesimo ( 10 miliardi di cui espropriabili 2,5 miliardi come quota eccedente) dell’intero valore sul territorio nazionale. Per soddisfare le esigenze di raccolta, vendita e credito accorsero e si offrirono spontaneamente le principali banche italiane e anche la Federazione delle Casse di risparmio. La valutazione del valore delle patrimonio immobiliare era però errato e figlio del pregiudizio sulla ricchezza “giudaica”. In realtà la quota eccedente si rivelò solo di 726 milioni costringendo le banche a rivedere i loro piani di sviluppo e gestione delle ricchezze confiscate agli ebrei italiani e stranieri.
Il carburante della macchina della confisca, o meglio furto, ai danni di cittadini italiani di origini ebraiche fu che erano ormai dei “morti in licenza” secondo la definizione dello studioso polacco Emanuel Ringelblum , storico e archivista del Ghetto di Varsavia. La convinzione che i proprietari dei beni che si acquisivano, prima o poi, periranno, forniva una cornice di feroce legittimità alla avidità collettiva degli “ariani”. Il fenomeno è ben conosciuto in tutta l’Europa occupata e in alcuni casi riapre costantemente una ferita nazionale. E’ il caso dei saccheggi susseguenti al pogrom del villaggio polacco di Jedwabne.
La Svizzera divenne per molti fuggitivi il luogo della salvezza, la meta a cui arrivare tra rischi e ricatti economici. Comunque le autorità elvetiche si fecero rimborsare le spese sostenute per l’assistenza ricevuta, utilizzando il conto costituito dai beni depositati una volta raggiunta la frontiera.
Anche il ripristino dei diritti patrimoniali fu un processo lungo e travagliato. Oltre alle incrostazioni del linguaggio burocratico che rimaneva come fastidioso ritornello, c’era da valutare il problema dei beni venduti a terzi dagli organismi di gestione delle confische. I decreti relativi al ritorno dei beni sostenevano l’annullamento degli atti della confisca e delle vendita, ma fatta salva la situazione in cui l’’acquisto fatto da terzi fosse stato compiuto in buona fede. In questo caso, difficilissimo da giudicare, il possesso del bene era da considerarsi legittimo. Il percorso di reintegrazione dei beni fu molto complesso e vario nelle sue articolazioni locali tanto che solo nel 1967 l’EGELI dichiarò concluso il suo compito. La tragica ironia era che fino al 1958 l’EGELI richiese alle persone che chiedevano di rientrare in possesso dei propri beni, il rimorso delle spese di gestione dei beni stessi. Solo nel 1958 la Ragioneria di Stato cancellava per ovvie ragioni etiche l’obbligo del rimborso da parte dei danneggiati per la gestione dei loro beni sequestrati.
Per quanto riguarda Alessandria possiamo solo ricordare che la sede piemontese e ligure dell’EGELI elencava 5 immobili urbani ed un solo rustico e che durante la spedizione punitiva degli squadristi nella sinagoga di Via Milano furono saccheggiati e sparirono tutti i beni mobili della comunità.
Ormai mi sembra arrivato il momento di indagare più a fondo sul fenomeno delle conseguenze economiche delle leggi razziali anche in provincia di Alessandria e mostrare che gli italiani erano forse “brava gente”, ma che una parte di loro non si tirò indietro nell’approfittare economicamente della persecuzione razziale.
Cesare Manganelli
L’immagine di copertina è tratta da: archivio storico intesa sanpaolofondo egeli
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