Il numero palindromo del 22.02.2022 verrà ricordato nei libri di Storia come un nuovo “missils crise” proprio come quello di Cuba nel 1961. Una data storica perchè riporta le lancette dell’orologio indietro di trent’anni e apre la strada ad ogni tipo di revanchismo, La sera prima, come è noto, Vladimir Putin, presidente plenipotenziario della Russia, non solo ha certificato l’intenzione di sostenere/coprire/aiutare in tutti i modi possibili le due regioni autoproclamatesi indipendenti di Luhansk e Donetsk, ma ha rimesso in discussione tutto il processo di desovietizzazione che, dopo il 1991, ha interessato molti territori ex URSS. Gli accenni sono andati all’intera Ukraina (definita “parte complementare della stessa Russia”) , alle repubbliche baltiche e a quelle caucasico-asiatiche. Quasi come se ci fosse un manifesto intento di ricostruire ciò che la Storia e l’Economia hanno decretato come “passed”. Ora, con l’entrata di carri armati, camion e, probabilmente, posizionamento di elicotteri e aerei nei due territori di Lugansk e Donetsk, la situazione assume aspetti del tutto nuovi e pericolosissimi. Probabilmente i “peacekeapers”, così sono definiti, inviati da Mosca si fermeranno ai confini regionali delle due neo-repubbliche, spostando di fatto il confine con l’Ukraina di qualche centinaio di chilometri. A quel punto bisognerà vedere quale sarà la risposta.
Per ora si registra solo una gran confusione. Gli Stati Uniti, nonostante l’allarme ripetutamente lanciato riguardo ad una “penetrazione” russa in territorio ukraino, ricevono risposte contraddittorie dagli alleati di sempre. Contrasti confermati anche nei ritardi riguardanti le operazioni di supporto più semplici. Ad esempio, secondo l’agenzia Reuter , fonti diplomatiche europee (non meglio definite) hanno comunicato che non sono state approntate a dovere le interferenze informatiche suggerite dall’intelligence americana, così come non sono state concordate nel dettaglio caratteristiche e contenuti del “pacchetto di sanzioni”. Dovrebbero scattare già entro il 24 febbraio ma, al momento, non se ne vedono i tratti definiti. Data per scontata l’acquiescenza britannica, canadese, australiana e di tutto l’ex Commonwealth sulla “risposta americana”, comunque, attesa nei prossimi giorni, resta da definire il rapporto con alcune altre Nazioni chiave, tra queste la Germania, l’Austria e la stessa Italia. La dipendenza energetica e il legame sancito dagli stretti rapporti economici con la Russia (e anche con l’Ukraina) consigliano a questi Paesi cautela e, in sostanza, il rilancio dell’azione diplomatica.
Si sta verificando un corto circuito soprattutto su un aspetto. Si tratta dell’ iperfocalizzazione (così viene definita dagli analisti americani) dell’attacco frontale con invasione su più lati del confine ukraino, che ha messo in secondo piano la considerazione di altri scenari possibili. Cosa a cui il Pentagono, evidentemente, non ha pensato. La “mossa” dell’appoggio alle autoproclamate repubbliche dell’Ukraina orientale, motivata dalla maggioranza di abitanti russofoni e, sembra, più vicini al sistema russo che a quello ukraino, ha scompaginato le carte a molti. Di qui i tentativi ripetuti di circoscrivere la crisi, con la Svezia (sempre fonte Reuter), che chiede un passo indietro a tutti i belligeranti, alla ricerca di soluzioni plausibili. Anche Stati notoriamente nazionalisti e molto attenti al percorso di uscita dal passato comunista come Ungheria e Polonia si dimostrano tiepidi e non hanno difficoltà a motivare questa loro alterità con una frase ricorrente: “Ci muoveremo quando lo riterremo necessario e quando la pressione russa sull’Ukraina sarà evidente e continuata”. D’altra parte un funzionario del Governo statunitense (sic) ha comunicato alla stampa in un veloce briefing che le risposte (con sanzioni annesse) non possono essere rese pubbliche per evitare che la Russia si attrezzi per eventuali contromosse. La Casa Bianca è stata, pertanto, costretta a chiarire la definizione statunitense di “invasione” come attraversamento di truppe militari riconoscibili in più punti oltre il confine, dopo che il presidente Joe Biden ha detto ai giornalisti che una “piccola incursione” potrebbe comportare un costo inferiore.
Il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan, stavolta “Reuter” è stata pià precisa, il 18 febbraio ha detto ai giornalisti che Biden credeva che, affinché le sanzioni fossero efficaci, dovessero essere imposte solo dopo “movimenti chiari ed interni” all’Ucraina, non in anticipo. Una giovane cronista del Washington Post ha controbattuto “Certo, comprensibile…ma questi contatti fra gli apparati di Governo e gli Stati stranieri sono stati definiti? Ci sono le sanzioni pronte?”. Al che Sullivan ha risposto con un freddo “no comment”. Ma in cosa consistono effettivamente le nuove sanzioni e chi le vuole veramente?
Attualmente, tra i falchi ci sono l’Olanda, i Paesi baltici e gli Stati dell’Est (Ungheria esclusa), mentre altri – come Italia, la Germania, la Svezia (e anche la Francia) che da tempo si giocano il ruolo di mediatori – sono schierati su una linea più prudente. La tesi prevalente, al momento, è quella delle maggiori capitali europee: cioè che le sanzioni scattino solo in caso di invasione vera e propria da parte delle truppe russe. Eventuali attacchi cyber o disordini potrebbero invece innescare sanzioni più «proporzionate».
Tra le misure al vaglio ci sono le sanzioni individuali destinate a colpire l‘inner circle di Putin. A lavorare su questo punto è soprattutto l’amministrazione Biden: saranno sanzioni economiche e divieti di circolazione in Ue e in Usa. Nella lista nera, tra familiari, oligarchi e personalità vicine a Putin, potrebbe finire anche Alina Kabaeva, oro olimpico nel 2004. Ci sarà di sicuro una forte pressione su fondi bancari e pacchetti finanziari. Dovrebbe essere certo che le sanzioni colpiranno le singole banche russe come la Sberbank o la para-statale Vtb. Sembra esclusa, per ora, la cacciata della Russia dallo Swift, il sistema di pagamenti internazionali. Una simile sanzione metterebbe a rischio la restituzione, da parte dei russi, di miliardi di dollari che gli europei hanno dato in prestito. A opporsi a questa soluzione è soprattutto la Germania. Per quanto riguarda le sanzioni commerciali, si sta lavorando allo stop del trasferimento di tecnologie verso le industrie russe. Sono inclusi i settori dell’intelligenza artificiale, della computazione quantistica, quello dell’aviazione civile o dell’aerospazio. Lo stop all’export potrebbe comunque riguardare anche videogiochi, tablet e smartphone. In questa parte delle “possibili sanzioni” gioca un ruolo cruciale il vicino competitor di sempre: il Giappone. Che, per la cronaca, si è subito allineato ai Paesi occidentali nella difficile opera di pressione pesante, ma non di guerra aperta, che sta caratterizzando tutto il fronte di sostegno ai giusti (è corretto ricordarlo) diritti dell’Ukraina. Il punto più difficile su cui trovare un accordo è quello dell’energia: si potrebbe valutare lo stop alle nuove esplorazioni di gas (o ai finanziamenti per queste attività) da parte delle compagnie occidentali, ma anche l’interruzione del trasferimento di tecnologie per l’industria energetica russa. Si tratta di un terreno decisamente scivoloso, che avrebbe un impatto molto forte su diversi paesi. A rischio non c’è solo la prosecuzione dei lavori per il gasdotto Nord Stream 2 che unirà Russia e Germania, ma anche il futuro di altre aziende. Ad esempio, la britannica Bp possiede il 20% della compagnia petrolifera russa Rosneft, e la Shell ha affiancato l’americana Exxon nell’esplorazione di gas e petrolio a largo dell’isola di Sachalin. Con la Turchia di Erdogan che preme per una alternativa a sud, con la collaborazione dell’Azerbaijan turcofono, Cipro e Israele. Sempre e comunque in funzione antirussa. Vero è che con Xi Jin Pin si è trattato di dare sbocco al gas russo verso oriente, ma la costruzione di migliaia di chilometri di gasdoti in sicurezza non è cosa da poco.
Quindi, oltre al rischio specifico di alimentare una guerra fratricida tipo Yugoslavia, ma con armi ben più pericolose, vi è tutto lo scenario di contorno che vede grossi interessi commerciali in ballo. L’Inghilterra sganciata dalla Unione Europea in questo, come in molti altri casi, si sta dimostrando un grave problema. Una Europa con Stati in confusione e a traino di repubbliche nazionaliste con rivincite da compiere, non è esattamente nelle linee prospettate dai fondatori o anche solo da chi è arrivato con difficoltà alla moneta unica. L’Europa, a ben vedere, è la vera sconfitta in questa fase acuta della crisi. Non ha interessi economici convergenti e comuni rispetto agli Stati “in agitazione”, non ha un esercito vero, forte e unificato che le possa permettere di proporsi come mediatore, non ha nemmeno una risposta univoca con i suoi ministeri degli Esteri. E forse l’obiettivo vero della crisi era proprio quello. Negli anni Novanta dello scorso secolo a dettar legge in territorio ex Yugoslavo furono i Tedeschi di Kohl, che si portarono dietro un po’ di Europa. Ora sembra che questa funzione di traino la Germania non la voglia proprio. Sta nel suo cantuccio, cerca di mantenere il suo collegamento diretto – via gas – con la Russia e non vuole essere coinvolta. Ma questa Europa a pezzi è destinata alla disintegrazione e, anche questo, forse, è nei disegni di qualcuno.
…
L’immagine in copertina è di Jose’ Luis Borges.
Commenta per primo