Il dilemma populista

In democrazia, le opinioni si cambiano. Se restassero sempre uguali, non ci sarebbe la possibilità di alternanza. Cambiano opinione gli elettori, a seconda del loro giudizio sul partito che avevano votato. E, infatti, sono svariati milioni quelli che, il 4 di aprile, hanno mollato il Pd per i grillini. E cambiano opinione – in questo caso, si dice linea – i partiti. Tant’è che molti, dentro il vecchio Pd, se ne sono andati accusando la leadership renziana di avere voltato a destra. Quindi, non ci sarebbe niente di scandaloso se Pd e cinquestelle modificassero l’opinione che – le leadership e i loro elettorati – hanno avuto nei mesi – e anni scorsi – gli uni nei confronti degli altri. E certo, il modo migliore per valutare questa eventualità, sarebbe quello di esaminare i possibili punti di convergenza sul programma. Si capisce, quindi, la linea aperturista sui due fronti. A discutere – con serietà – non si perde mai tempo.

Però, al momento, non è questa la chiave per aprire – o chiudere – l’ipotesi di un’alleanza governativa tra i vecchi e i nuovi vincitori. Le ragioni per cui appare – molto – improbabile che si possa arrivare a un qualche accordo, sono altre. Almeno tre. La prima, dirimente, è che Renzi ha ormai da tempo abbandonato le sue aspirazioni egemoniche sul sistema politico italiano. Ha perso la spinta propulsiva che lo aveva portato a smantellare l’oligarchia più tenace d’Europa, e poi a proporre al paese un nuovo stile di premiership. Con risultati, all’inizio, straordinari. Quella carica si è esaurita, infranta contro il muro referendario. Discutere sulle cause, oggi, è inutile. Ciò che conta – nella partita attuale – è che Renzi è apparso incapace di tornare a disegnare il futuro. Si è rintanato nel suo controllo organigrammatico del partito. Rassegnandosi al destino minoritario di un – altro – partito personale. Che sia il Pd, se riesce ancora a gestirlo, o un’operazione macroniana su scala – molto – ridotta, al momento nessuno lo sa. Ma ormai ragiona così. Puntando con il suo quindici – forse, più probabilmente, dieci – per cento a diventare l’ago di una futura bilancia. Primum, vivere. Poi si vedrà.

La seconda ragione che gioca a favore della linea renziana di rifiutare a tutti i costi l’accordo è che i cinquestelle restano, geneticamente, inaffidabili. Hanno cambiato in pochi giorni posizione su tutti i temi più importanti, hanno teorizzato i due forni – e ora dicono che ne chiudono uno. Domani, però, chissà. Insomma, anche a metterci tutta la buona volontà, a firmare un contratto si corre il rischio di trovarselo, il giorno dopo, stracciato. La terza ragione è che il Pd si presenta, a questo appuntamento così importante, acefalo. Non sa cosa vorrebbe fare, e tanto meno come provare a farlo. Cioè, con quale idea innovativa di organizzazione – e comunicazione – pensa di rimettersi in marcia e contrastare le due falangi populiste ben schierate a difesa dei propri elettorati.

Altra cosa se fosse stato capace di metabolizzare la sconfitta, e sedersi unito e a testa alta al confronto con i pentastellati. Forse, è proprio da qui che occorrerebbe ripartire. Mettendo un paletto invalicabile al dibattito interno del Pd che, altrimenti, rischia di schiantarlo del tutto. Tutti i parlamentari dovrebbero accettare che, a decidere, sarà l’organo statutario, l’assemblea. A maggioranza. Vincolante. Per tutti. Non è un nodo da sciogliere con l’ashtag, o con le interviste in solitaria. E tantomeno con le battute in piazza. La discussione deve essere la più plurale possibile. Ma la decisione, una sola. Anche perché – è bene saperlo – questo è soltanto il primo round. Se oggi l’accordo non si fa, non è detto che non si faccia domani. Magari dopo il fallimento di un governo a doppia mandata populista. O – se non ci saranno alternative – dopo le prossime elezioni. È inutile farsi illusioni. In Italia stiamo sperimentando un passaggio che – prima o poi – riguarderà molto probabilmente anche altre democrazie europee. E che ha già sfondato in America. Vale a dire, se e a quali condizioni è giusto lasciare il monopolio dell’esecutivo ai populisti. O se, piuttosto, bisogna prendere atto del fallimento dei vecchi partiti. Assumendosene la responsabilità. Per cercare di recuperare in extremis quel consenso di massa che, ormai, sembra aver preso altre strade.

Chi ha già una risposta pronta, può twittarsela.

(“Il Mattino”, 26 aprile 2018.)

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