Verrebbe da dire “facciamo parlare i fatti” e per un articolo in periodo di emergenza, perchè in questo siamo, viene a pennello il lucido intervento di Leonello Tronti (1), appena pubblicato/divulgato tramite l’ “Associazione Labour” che qui riportiamo nella sua forma completa. Ci spiega perchè stiamo rosolando sulla graticola, ci ricorda che nel 2007/2008 si era già capita l’antifona ma in molti non hanno voluto “capire”. Ci riporta indietro al periodo del boom economico, di un’Italia diversa e positiva, poi agli anni Settanta della “crisi petrolifera” della prima “non vittoria” dell’esercito israeliano contro gli arabi nello “Yom Kippur” del 1973, giù giù fino ai nostri giorni. Tutto prende una luce diversa e molti dubbi o “impressioni ” vengono chiarite. Si comprende meglio l’indebolimento voluto del Movimento Sindacale tra la fine dei Settanta e il Duemila, la trasformazione del lavoro, cambiando caratteristiche e funzioni di fabbriche e luoghi di produzione >/ assemblamento. Qualcuno se ne era accorto (viene citato William Phillips e il suo del 1958) così come molti altri pensatori/economisti che, però, vennero (e sono) mantenuti lontano dalle leve che contano. Fra le eccezioni …Mario Draghi che, secondo l’analisi di Tronti ben cosciente della situazione, è stato probabilmente sviato da un’azione più incisiva e organica da una coalizione di Governo contradditoria e rissosa. Il titolo originale è “Inflazione, disoccupazione e politica monetaria: concertazione e resistenza”. E, come già segnalato, “parla da solo”…
…
L’inflazione è tornata. A giugno, nell’Eurozona la crescita annua dei prezzi al consumo (indice Ipca) è stata dell’8,6 per cento, l’inflazione “di fondo” (al netto dei beni energetici e degli alimentari freschi), che più si avvicina al dato al netto delle importazioni, del 3,7 per cento e quella dell’energia del 41,9 per cento. Ma in Italia, se i prezzi al consumo sono cresciuti “solo” dell’8,5 per cento, l’inflazione “di fondo” è stata del 3,8 per cento e il prezzo dell’energia è cresciuto del 48,7 per cento, lanciando avvisaglie di accelerazioni future, quando tutte le altre merci avranno assorbito l’aumento dei beni energetici. Come sempre, la scure dell’inflazione colpisce soprattutto i più poveri: i disoccupati, i “semioccupati” (che non riescono a lavorare
nemmeno sette mesi l’anno), i lavoratori con contratti part-time involontari e soprattutto quelli (più della metà) che non riescono a rinnovare i contratti scaduti (in media da due anni e mezzo) e i pensionati che non hanno strumenti per contrastare la perdita di potere d’acquisto. Le famiglie in povertà assoluta, che nel 2005
erano il 3,6% del totale, già nel 2021 sono più che raddoppiate (7,5%) e sono destinate a crescere ulteriormente.
All’inflazione si accompagna il rallentamento del prodotto. Le previsioni europee indicano che, sostenuta dal consistente effetto di trascinamento dell’ottimo risultato del 2021, quest’anno l’Italia dovrebbe crescere del 2,9 per cento e l’Eurozona rallentare al 2,6 per cento. C’è ancora riserbo a parlare apertamente di stagflazione, la condizione dell’economia più avversa agli strati deboli della popolazione. Ma il rischio è ormai presente: i prezzi corrono a velocità che non si vedevano dagli anni ’80, ben oltre il doppio dell’obiettivo di inflazione che, peraltro, la Banca centrale europea ha allentato un anno fa, fissandolo “al due per cento sul medio termine” e “in maniera simmetrica”, ovvero con la possibilità di accettare temporanee deviazioni in più o in meno rispetto al target centrale del due per cento, in uno spettro dallo zero al quattro per cento.
Per le autorità responsabili del governo dell’economia, la situazione non è nuova. La stagflazione globale degli anni ’70, originata dagli shock di prezzo del petrolio e delle materie prime conseguenti alla Guerra del Kippur (1973) e poi alla Rivoluzione islamica iraniana (1978-79), fu controllata grazie all’abbinamento di politiche monetarie restrittive da un lato e politiche di indebolimento dello stato sociale e del sindacato dall’altro. Se le cause della crisi erano internazionali, i rimedi furono però soprattutto interni. La politica monetaria venne elevata al rango di strumento cardine per assicurare un tasso di crescita non inflazionistico.
In estrema sintesi, questa scelta si basava sull’ipotesi che il tasso di interesse regolasse gli investimenti e questi ultimi regolassero la disoccupazione, che a sua volta regolava i salari e i consumi – e quindi l’inflazione –, secondo la relazione messa in luce da William Phillips nel 1958.
In una situazione inflazionistica, un aumento del tasso di interesse avrebbe reso alle imprese più difficile e più costoso l’accesso al credito e, quindi, la possibilità di investire e sostenere la crescita. Il rallentamento del prodotto avrebbe alimentato la disoccupazione, che a sua volta, avrebbe allentato la pressione della domanda delle famiglie e ulteriormente frenato l’attività economica, i salari e, infine, i prezzi. Il principale colpevole della stagflazione veniva quindi implicitamente individuato nell’obiettivo politico keynesiano della piena occupazione perseguito dalle economie sviluppate nel “glorioso trentennio” postbellico.
Avendo ormai portato i mercati del lavoro dei paesi industriali avanzati ad una condizione di “mercato del venditore”
(squilibrato a favore del lavoro), quell’obiettivo economico e sociale ostacolava il contenimento dei salari e della domanda necessario ad “accomodare” gli shock di prezzo dell’energia e delle materie prime originati dai mercati globali.
L’obiettivo della piena occupazione veniva così abbandonato e sostituito dall’assai più prudente NAIRU (non accelerating inflation rate of unemployment): il tasso di disoccupazione “naturale” in quanto abbastanza elevato da impedire – nelle condizioni date per ciascuna economia – l’aumento dell’inflazione. Ma la lotta alla stagflazione condotta attraverso l’utilizzo combinato di politiche monetarie restrittive e perseguimento del NAIRU otterrà risultati inferiori alle attese.
Se nella seconda metà degli anni ’90, nei paesi Ocse l’inflazione
è finalmente sotto controllo (intorno al 2 per cento), la disoccupazione scenderà sotto il 6 per cento soltanto un decennio dopo, poco prima della crisi finanziaria internazionale (che in tre anni la riporterà all’8,5 per cento). E la crescita economica, che tra il 1960 e il 1973 era stata in media del 5,1% l’anno, nel successivo
periodo 1973-1997 comunque si dimezzerà al 2,8 per cento l’anno e non accennerà più a riprendersi.
Se la combinazione di politiche monetarie restrittive, liberismo, compressione dello stato sociale e disoccupazione di equilibrio che ha guidato la lotta alla stagflazione dopo il 1973 è servita a frenare
l’inflazione, il suo più recente allentamento (quando i rischi di stagflazione sembravano ormai superati) non ha mostrato, però, di riuscire a far riprendere la crescita. I tassi nominali a breve termine sono scesi addirittura a livelli prossimi allo zero, ma lo “zero lower bound” non si è dimostrato capace di stimolare né i consumi né gli investimenti reali, e ha invece favorito una preferenza per la liquidità e per il risparmio che, per gli economisti neoliberisti, va imputata ad aspettative razionali non abbastanza attraenti e, per quelli keynesiani, alla debolezza degli istinti imprenditoriali e delle prospettive di profitto, e comunque alla predilezione per investimenti finanziari. Ma se non funziona la manovra monetaria non funziona più nemmeno il NAIRU, dato che la vecchia relazione stabile tra inflazione e disoccupazione non trova più riscontro. La risposta dell’inflazione a un aumento o a una riduzione del tasso di disoccupazione tende ad affievolirsi fino a diventare statisticamente indistinguibile da zero. In altre parole, l’inflazione non sembra più
reagire alle condizioni del mercato del lavoro e la curva di Phillips si mostra sostanzialmente piatta.
In questa situazione, da qualche anno alcuni economisti tra i più influenti del mondo, quali Larry Summers, Olivier Blanchard e Mario Draghi, hanno segnalato la necessità di un nuovo paradigma. L’inefficacia dei tassi a livello zero e del NAIRU hanno sospinto le banche centrali in una nuova fase di incerta “grande transizione”
fuori dall’ortodossia monetarista, che rimanda ad un nuovo protagonismo economico dello Stato e delle politiche pubbliche. In Europa la transizione si è avviata, con qualche difficoltà, con il Piano Next Generation EU, destinato a reagire alla pandemia da coronavirus e a riqualificare l’economia europea. Dunque, già prima dei gravi problemi di offerta, dei colli di bottiglia nelle catene globali di approvvigionamento, dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’attuale fiammata inflazionistica internazionale.
Ma la coscienza del superamento del vecchio modello monetarista e la sua sostituzione con uno nuovo e più adeguato tarda a propagarsi, anche per le pesanti implicazioni internazionali che la sua adozione
richiederebbe. In questa situazione, il rischio è che i banchieri centrali rifiutino di abbandonare il modello tradizionale e, nel tentativo di ripristinare la loro credibilità, procedano a ripetuti quanto inefficaci aumenti dei tassi di interesse, fino a quando le economie sviluppate non vadano in territorio negativo e la disoccupazione non sia spinta al punto da gettarle in una vera e propria recessione.
Le banche centrali potrebbero dimostrarsi pronte a sacrificare la crescita (per quanto anemica), l’occupazione e il reddito dei lavoratori per proteggere gli altri redditi. L’austerità monetaria, come già indicava con icastica chiarezza Ezio Tarantelli, non è altro che “la corda del boia”.
Il punto è che se già nel 1973 le cause dell’inflazione non erano interne, non consistevano in un eccesso di domanda a fronte di una situazione di pieno impiego della capacità produttiva, a maggior ragione oggi la nuova politica di disinflazione e sviluppo va concepita riferendosi ad un’inflazione esogena, che non dipende dalla vicinanza al pieno impiego delle singole economie, bensì dalla loro progressiva dipendenza dai mercati globali: mercati che sono assai meno liberi di quel che si crede, essendo anzi governati da oligopoli e
monopoli. Ne è esempio lampante il paradosso del mercato dei combustibili fossili che, nell’aspettativa di una riduzione della domanda conseguente alle politiche di transizione energetica, ha visto una riduzione della produzione e un forte rialzo i prezzi. E quello dei microchip o dei container non fa differenza. L’inflazione
attuale non dipende in alcun modo dai salari; soprattutto in Italia dove, come ci ha da poco ricordato l’Ocse, il potere d’acquisto delle retribuzioni è fermo da trent’anni. Non è inflazione da domanda ma da offerta internazionale; e dipende dal fatto che il mercato globale è ben lontano da un equilibrio di concorrenza. Le strozzature delle catene di approvvigionamento dipendono da condizioni sulle quali le economie occidentali non hanno praticamente alcun controllo.
La politica monetaria standard di restrizione della domanda e dei prezzi, dunque, non domerà in tempi brevi l’ondata inflazionistica attuale. Quanto più dureranno i problemi sul fronte dell’offerta, tanto maggiore sarà il rischio che essi possano causare effetti secondari rilevanti e un’inflazione generalizzata a tutti i paesi
sviluppati. E con l’aumento delle aspettative di inflazione, il ritorno a politiche monetarie restrittive potrebbe essere più rapido del previsto, come segnala la Banca Centrale Europea con il recente aumento di 50 punti base di tutti i tassi (il primo rialzo dall’aprile 2011), aggravando le condizioni sociali e pregiudicando la ripresa
economica.
È questa la ragione per cui oggi, a maggior ragione dopo la sfiducia al governo Draghi, è quanto mai opportuno che il Sindacato riproponga unitariamente e a gran voce alle imprese, al Governo (che probabilmente rimarrà in carica per gli affari correnti fino a nuove elezioni), e in particolar modo a partiti e Parlamento, l’urgenza di una nuova concertazione sociale dell’inflazione: di una nuova “inflazione programmata”. L’Italia ha domato l’inflazione degli anni ’70 grazie all’intuizione di Ezio Tarantelli che il valore della moneta è un bene pubblico prodotto in modo congiunto – ma non coordinato – da parte dello Stato (attraverso il fisco e l’offerta di moneta della banca centrale), delle imprese (attraverso la fissazione dei prezzi) e dei lavoratori (attraverso la contrattazione dei salari); ma lo si può e deve governare, soprattutto in presenza di shock esogeni, condividendo obiettivi di disinflazione e di crescita e mettendo in atto comportamenti coordinati e coerenti con essi.
Oggi, nelle mutate condizioni internazionali (globalizzazione, rottura dell’equilibrio multipolare, ripresa dei conflitti), bisogna correggere il quadro con un’ancor maggiore ruolo degli shock esogeni. Se con la BCE si può cercare un qualche coordinamento i cui termini, ovviamente, non potranno che essere definiti nell’ambito trilaterale dell’Unione Europea (Commissione, Consiglio e Parlamento), con il mercato globale, e in particolare sulle conseguenze della pandemia e del conflitto russo-ucraino, i margini di coordinamento sono pressoché nulli. Questo, però, non è un buon motivo per ricadere in politiche di restrizione monetaria e “disoccupazione programmata”, che non farebbero che peggiorare le condizioni sociali e abbattere
ulteriormente le prospettive di ripresa. Al contrario. Il forte impatto delle condizioni internazionali dell’offerta richiede a governo e parti sociali un coordinamento più stretto ed efficace su obiettivi sociali ed economici sostenibili: un coordinamento “di resistenza”, che assicuri un percorso condiviso e incentrato su obiettivi di autosufficienza, a livello tanto nazionale quanto europeo.
…
.1. Professore a contratto di Economia e politica del lavoro. Università degli Studi di Roma 3. Condirettore di “Economia & lavoro”, rivista di politica economica, sociologia e relazioni industriali della Fondazione Giacomo Brodolini. Membro del Centro Interuniversitario di Ricerca “Ezio Tarantelli” (CIRET) presso la Facoltà di Economia della Sapienza Università di Roma. Membro del Consiglio didattico scientifico e Docente di Economia del lavoro del Master in Diritto del lavoro e della previdenza sociale (DLPS) dell’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Giurisprudenza.
(e…profilo internazionale): “Born in Rome 1950; studied economic history at Milan State University and economics at Pennsylvania State University. Since 1999, senior researcher at Istat, the Italian National Statistical Institute; since 2000, head of the Service for Short-Term Business Statistics on Employment and Wages. He teaches advanced courses in Labour Economics and Industrial Relations at Roma Tre University, Faculty of Economics; has held courses at LUISS-Guido Carli University in Rome, La Sapienza Rome University, G. D’Annunzio University. He has been President of the Italian Labour Economists’ Association (Aiel), and Secretary General of the Giacomo Brodolini Foundation. He acted as assistant to Ezio Tarantelli, in the season of tripartite agreements on inflation curbing. He also acted as a consultant to industrialists’ associations as well as labour unions, and to institutions like the DG Employment of the European Commission, the Italian Chamber of Deputees, the Treasury and the Labour Ministries, the Italian National Council on Economy and Labour (CNEL). Among his publications in English are: “The Italian productivity slow-down: the role of the bargaining model”, 2010; “The July Protocol and economic growth: The missed chance”, 2006; “Notes on the France/ILO dialogue on the social dimension of globalisation”, 2006; “The Measurement of Annual Hours of Work”, 2004; “Measuring Atypical Jobs: Levels and Changes”, 2004; “Italian Labour Market and Production System: Structural Features and Main Developments”, 2003; “Fruitful or Fashionable? Can Benchmarking Improve the Employment Performance of National Labour Markets?”, 2002; “Escaping the Stagnancy Trap. Unbalanced Growth and Employment in the Services”, 2002; “Managing Labour Redundancies in Europe”, 1999; “Towards a strategic approach to employability”, 1999; “The Relational Side of Employability: The Italian Case”, 1999; “Benchmarking Employment Performance and Labour Market Policies”, 1998; “Labour Market Studies: Italy”, 1997.
Specialties: Labour Economics, Labour Statistics, Economics of Industrial Relations”
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