RSA, Rigogliosi Smarmittati Anziani, ovvero piccola sociologia del Centauro

Lo confesso: come tutti coloro che abitano da generazioni in questa città e per di più figlia di un motociclista, che adorava la sua Guzzi 500 rosso fiammante, amo il Raduno Internazionale dei Centauri.

Quand’ero bambina, mio padre mi portava in moto alla sfilata, ben imbottita con fogli di giornale messi sotto la maglia, come allora, nell’era precedente K-way e giacche a vento estive, si usava. E prima, quando ancora non sapevo reggermi a lui, da piccolina, ogni anno mi aveva accompagnato ad ammirare la sfilata all’angolo tra via Savona e corso Borsalino, dove mi issava sulle spalle e mi descriveva ciò che vedevamo. Ho imparato cos’è una bandiera a 3 anni, vedendo quelle che svettavano alla testa di ogni gruppo nazionale. E quando, anni dopo, mi imbattei in quel celeberrimo brano dei Promessi Sposi, nel quale Manzoni narra il passaggio dei Lanzichenecchi – “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo.” – ne fui affascinata, perché mi parve di riascoltare la voce di mio padre, che elencava “passano gli Spagnoli, passano gli Svizzeri, passano gli Svedesi e poi i Britannici e i Francesi… e i Canadesi… Passano i Bavaresi e là gli altri Tedeschi…”

Già, arrivavano a quel tempo da tutte le parti del mondo, non soltanto dall’Europa. Ed era la celebrazione della pace tra i popoli, ritrovata dopo due sanguinose guerre mondiali. Tale era il vero, altissimo significato del Raduno, voluto dagli organizzatori di allora, che avevano ben presente il valore di un incontro tra nazioni diverse e fino a pochi anni prima nemiche, unite finalmente dal gioioso ritrovarsi insieme in una festa di tutti.

Ancora negli anni Settanta del Novecento, il Raduno era affollatissimo di Centauri provenienti da ogni parte d’Europa. In genere, si accampavano nei giardini della stazione, come qui li chiamiamo e parcheggiavano le loro motociclette nelle stradicciole tra i prati, o in viale della Repubblica, che quei giardini taglia in due parti; ed era piacevole trascorrere le serate del venerdì e del sabato precedenti la sfilata a passeggiare, per osservare le motociclette o, noi ragazze, i motociclisti, tutti giovani e (quasi) tutti aitanti e fascinosi.

Motociclette potenti, bei motociclisti, la pace ritrovata, l’armonia tra i popoli, la poeticità della benedizione della Madonnina, dopo la messa domenicale nella chiesa di Castellazzo Bormida: questo era il Raduno e per queste ragioni vi si partecipava.

Il pianeta, la stessa Europa sono ancora insanguinati da guerre feroci, ma il Raduno dei Centauri ha cancellato il suo significato pacifista, immemore dei motivi ideali che ne guidarono la primigenia invenzione e realizzazione. Né ha conservato quel tripudio di colori, di fantasie, di costumi nazionali, di bandiere che ne costituivano l’aspetto più immaginifico.

Osservavo in questi tre giorni l’esiguo numero di Centauri, tutti – tranne poche eccezioni – piuttosto simili: signori italiani, anzi, tutti di questa provincia e poche altre limitrofe, di mezza età e oltre, in genere (chissà perché) di bassa statura e di rigogliose proporzioni, accompagnati da signore di opulente forme, “fiere” nei loro abiti estivi succinti, come recita la pubblicità televisiva di una nota marca di thè freddo; e appollaiati dritti impettiti, a causa delle pance importanti che li sorreggono, su motociclette altrettanto agée, di scarsa altezza, di bassa cilindrata e (chissà perché, di nuovo) smarmittate, a fingere – credo – potenze e velocità immaginarie.

Scomparsi gli avvenenti centauri nordici, scomparsi i giovani, tranne i giovanetti di periferia, che sgommano sulle loro motorette 50cc e marmitta sconosciuta e si impennano in mezzo alle automobili, rischiando di porre fine precocemente al loro rumoroso esistere in questo mondo. E non oso pensare alla preoccupazione delle loro madri.

Scomparse o quasi le magnifiche motociclette scintillanti di grande cilindrata, che affascinarono mio padre e me e poi mio figlio.

Scomparsi – ma non è una novità – i vigili urbani, che negli anni Settanta fermavano in circonvallazione i teppisti sui motorini smarmittati, con grande gaudio di chi aveva sperato, incautamente fino a quel momento, di poter dormire.

E scomparsi gli ecologisti nostrani, pronti a invocare piste ciclabili, restringimenti delle carreggiate, fioriere improbabili a chiudere la strada meno trafficata del centro, ma che – oh, sorpresa – in questi tre giorni non si strappano i capelli per le polveri sottili e i carburanti fossili. Mistero che una Piccola sociologia del politico locale potrebbe, forse, tentare di risolvere.

Non scomparsi, invece, il puzzo dell’inquinamento provocato dai motori a scoppio e il rumore sordo e continuo che ieri notte ha afflitto la città fino alle 4 del mattino, mentre numerosi sciagurati correvano, con le loro motorette, a velocità elevatissima in circonvallazione e sulla strada che porta dalla città verso la Fraschetta.

Sì, come tutti gli abitanti di questa città, amo il Raduno dei Centauri. Quello vero, però, non questa grottesca copia immiserita, fatta quasi soltanto di anziani locali, in cerca per un fugace attimo di emozioni giovanili in sella a motorette da – consentitemelo – boomer sulla via del tramonto.

Dunque, meglio coniugare il verbo al passato: amavo il Raduno dei centauri. Mezzo secolo fa.

Patrizia Nosengo

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