La decisione di sospendere il reddito di cittadinanza a oltre centocinquantamila famiglie non arriva certo inaspettata. Faceva parte integrante del programma elettorale del centrodestra e – giusta o sbagliata che sia – si sapeva che era in cantiere. Però, il modo e la congiuntura non aiutano. L’sms con cui è stata inviata la comunicazione e le condizioni atmosferiche avverse – al culmine di una stagione torrida ancor più insopportabile per chi vive nell’indigenza – rischiano di fare da detonatore al malcontento, e di arroventare le piazze. Soprattutto al Sud, dove il reddito era – ed è – concentrato, e dove più diffuse sono le sacche di povertà.
Al punto cui si è arrivati, sembra difficile trovare spazi di mediazione. E, per la prima volta dall’insediamento del nuovo esecutivo, è probabile che il muro contro muro si sposti dalle aule parlamentari alle manifestazioni di strada. Per giunta, proprio in un momento in cui i politici si apprestano ad andare in vacanza, e la capacità di vigilare – su entrambi i fronti – è minore. A peggiorare la situazione, il termometro dell’economia sembra tornato a volgere al rosso. I dati sono ballerini, a seconda delle fonti e dei settori. Ma se fino a qualche giorno fa sembrava che il paese riuscisse a cavarsela meglio di molti partner europei, le notizie di questi giorni indicano che le prospettive di crescita restano preoccupanti. E non offrono molti margini di intervento per temperare con altri provvedimenti il buco nei bilanci familiari privati del vecchio reddito di cittadinanza.
Né ci si può certo aspettare che siano gli enti locali a colmare la richiesta di assistenza dei ceti più bisognosi. Già da diversi anni, le casse di comuni e regioni si sono andate svuotando per la stretta finanziaria centralistica che ha colpito il cuore del welfare, a cominciare dalla sanità pubblica. Il processo di privatizzazione strisciante di gran parte delle prestazioni mediche – in primis quelle ospedaliere – sta modificando alla radice la percezione della malattia. Come le statistiche e i reportage televisivi impietosamente denunciano, ci sono intere aree del paese dove le lunghissime liste di attesa equivalgono a una condanna del paziente. A meno che non disponga dei mezzi per ricorrere alle strutture private.
Visto in una prospettiva più ampia, il problema che è di fronte al paese va ben al di là dello scontro contingente che, nelle prossime settimane, infiammerà la scena politica. Come ha scritto ieri Scotto di Luzio su questo giornale, la filosofia che ha ispirato il reddito di cittadinanza si è guardata bene dall’affrontare alle radici il nodo del progressivo smantellamento del welfare. Alimentando, al contrario, l’illusione che l’intervento dello stato possa ridursi a una monetizzazione delle prestazioni, con l’assistenza pubblica trasformata in un bancomat parcellizzato.
Certo, come misura tampone ha prodotto alcuni benefici. Ma ha finito con il distogliere ancora di più l’attenzione dal vuoto che si sta approfondendo nel rapporto tra i cittadini e lo Stato. Il rafforzarsi della democrazia, nell’arco di tutto il Novecento, è stato scandito e guidato dalle riforme sociali che i partiti hanno introdotto – e fatto funzionare – nei principali settori che regolano il benessere della popolazione: l’educazione, la sanità, le pensioni. Su tutti e tre questi fronti la politica sta facendo vistosi passi indietro. La sinistra sembra avere smarrito la bussola che, per oltre un secolo, aveva fatto del welfare la sua bandiera. La destra, dopo un breve periodo in cui l’illusione liberista pareva avere offerto una alternativa, appare priva di una visione che possa affrontare la spirale delle diseguaglianze che aumentano a vista d’occhio. Per quello che si comincia a intravedere, il problema della cittadinanza non è che rimanga senza reddito. Ma senza Stato.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 31 luglio 2023).
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