La partenza (Storie di vita militare)

La mattina del 14 gennaio 1982 mi svegliai senza alcuna voglia di parlare. Il giorno della partenza per il servizio di leva era giunto e io lo accoglievo sconsolato, con un crampo allo stomaco. Avevo il cuore gonfio di angoscia: la tesi di laurea era ancora da concludere e avevo rotto i rapporti con quasi tutti gli amici.

Consumai di mala voglia l’abbondante colazione preparata da mia madre in vista di una giornata lunga, incerta e faticosa. E mentre mangiavo annuivo quasi con fastidio alle raccomandazioni di mio padre: “Metti tutte le tue cose nell’armadietto e chiudilo con il lucchetto.”

“Hai i lucchetti ?”

“Una parte dei soldi sono nel taschino dello slip?”

“Attento ai soldati più vecchi. Quando perdono qualcosa si rivalgono sugli ultimi arrivati.”

“Metti l’uniforme sotto il materasso e il cuscino, in modo che non ti portino via niente e che tutto sia ben stirato.”

Dopo aver mangiato e sistemato ogni cosa in valigia, indossai sciarpa e giaccone, diedi ancora uno sguardo alla mia camera e, dopo aver raccomandato a papà la mia collezione di monete, uscii accompagnato dai miei genitori.

Salimmo in auto e allontanandoci da via Rivolta,44, diedi ancora uno sguardo a quel cortile dove avevo scorrazzato da bambino per tante estati.

Facemmo tappa da mia sorella. Mentre mio nipote, di quasi sei anni, mi metteva in mano un soldatino di metallo come portafortuna, scoppiai a piangere. Fu un pianto breve ma intenso, accompagnato da quello di mamma, papà e sorella.

Fu un momento. Ci ricomponemmo. Mesti, insieme a sorella e nipote, uscimmo, scendemmo le scale, salimmo in auto e partimmo alla volta della stazione.

Vi giungemmo poco dopo. Entrammo. Nell’atrio c’era molto movimento. Quante volte, frequentando l’università, avevo atteso la partenza per Genova, ma quel giorno era diverso.

“Cuneo, andata senza ritorno.” Dissi al bigliettaio. Successivamente mio padre mi rinfacciò quella frase, accusandomi di essere stato melodrammatico, ma era vero, era una partenza momentaneamente senza ritorno.

Andammo di fretta al binario. Il treno era già lì. Salii frettolosamente, a momenti quasi senza salutare.

Velocemente guadagnai il corridoio e uno scompartimento, dove vi entrai, sistemando la valigia e sedendomi nell’unico posto libero.

Vidi i miei sulla banchina che mi dicevano qualcosa facendo dei cenni. Non mi sforzai di capire, annuii con la testa e continuai così finché il treno non si mise in movimento. Allora feci un saluto, senza più guardare fuori dal finestrino.

Nonostante il vagone fosse affollato, non un viso noto, né una persona disposta a chiacchierare, come accadeva invece sui treni ai tempi dell’università. Solo ad Asti capii che i due ragazzi di fronte a me erano nella mia stessa situazione. Mentre scendevano li guardai con un moto di invidia, almeno loro erano in due, io ero solo. Solo con i miei pensieri e le mie paure.

Giungemmo a Porta Nuova, a metà del viaggio. Mi recai nell’atrio per leggere da quale binario sarebbe partito il locale per Cuneo. Ritornai quindi sui miei passi, ma non faticai ad arrivare al binario, perché quasi senza accorgermene mi ritrovai in mezzo ad una fiumana di ragazzi diretta verso lo stesso treno.

Giunto al binario, mentre camminavo cercando uno sportello meno affollato, qualcuno mi chiese: “Scusi è questo il treno per Cuneo?”

Era un ragazzo molto giovane.

“Certo. – risposi- Vai al CAR?”

“Sì.”

“Anch’io. Di dove sei?”

“Della provincia di Varese.”

“Possiamo fare il viaggio insieme.” Proposi quasi con gioia.

“Certo.” Rispose, senza aggiungere altro. Non era di molte parole.

Salimmo sul vagone seguiti da due giovani della provincia di Como, che continuarono a parlare di arti marziali e di antico Giappone per tutta la durata del viaggio.

Noi li guardavamo e sorridevamo. Intanto facemmo amicizia

Era un ragazzo di appena 19 anni, diplomato da poco. Rispetto a me, ventiseienne e più loquace, sembrava un bambino.

Era timido, ma anche molto positivo: di fronte alle mie lamentele sul fatto di affrontare la naja senza essermi ancora laureato, mi rispose con voce sommessa:” E va bene. Fa lo stesso.”

Cercai di rispondergli che non era lo stesso, ma lasciai perdere.

“Speriamo di stare nella stessa compagnia. – Replicai, invece- ma sarà difficile.”

“Già.” Rispose senza aggiungere altro.

E così fu. Lo persi di vista appena scesi dalla carrozza. Eravamo tanti. Ci mescolammo. Ci confondemmo. Gli amici, per rimanere insieme, stavano stretti fra loro oppure si chiamavano a distanza. Gli altri ora andavano avanti, ora venivano superati da quelli dietro. C’era una gran confusione. Ero disorientato. Avrei voluto mantenere il contatto ma non vi riuscii. Fui spinto dalla calca verso le scale che collegavano il binario al primo piano, dove c’erano la biglietteria e la sala d’attesa.

Salii le scale quasi spinto dagli altri e mi trovai fuori dalla stazione.

Davanti a noi c’era una fila di autocarri militari, uno a fianco all’altro, in attesa di caricare le reclute.

Alcuni graduati ci vennero incontro, urlandoci di salire sui cassoni.

Salii su uno di quei camion. Presi posto accanto ad altri, continuando a controllare, per tutto il tempo del percorso dalla stazione alla caserma, la valigia e ciò che portavo con me, nel timore di furti.

Ma era un timore infondato. I miei compagni erano quasi tutti spaesati come me e con la mente presa da pensieri diversi da quello di rubare le cose altrui.

Un ragazzo di Cannobio, biondo e ben vestito, esordì dicendo: “Al CAR non si sta male. I problemi li avremo al corpo di destinazione, con i vecchi sempre pronti a farti lavorare, anche al loro posto.”

I vecchi, i soldati anziani, tormento di noi reclute. A quelle parole alcuni annuirono, altri confermarono apertamente, per sentito dire da chi aveva già fatto la naja.

“Cerchiamo di rimanere insieme- continuò quello di Cannobio- così ci facciamo compagnia in caserma e in libera uscita.”

“La libera uscita per ora possiamo scordarcela” disse con tono grave e a bassa voce un altro.

Ma il ragazzo di Cannobio non demorse: “La prima volta che usciamo, aspettiamoci davanti alla caserma. Il primo che esce attende gli altri.

Io risposi affermativamente, ma senza convinzione. Intanto continuavo a guardare le vie di Cuneo e poi le case e i giardini della strada che ci conduceva fuori dalla città.

Quanti pensieri ronzavano nella mia mente:” Cosa sarebbe accaduto in quell’anno? Sarei riuscito a laurearmi? E dopo?” ebbi un groppo alla gola.

Quando il pesante cancello di ferro della caserma “Ignazio Vian”, a San Rocco Castagnaretta, si chiuse dietro di noi il nostro compagno di Cannobio, fra il serio e il faceto disse: “Un anno di clausura.”

Mi rattristai.

Gli autocarri si fermarono nel grande piazzale delle adunate.

Nei secondi precedenti la nostra discesa ci guardammo con espressioni miste di sbigottimento, meraviglia e curiosità.

Cominciammo a scendere. Eravamo spaesati. Io con la mia valigia ben stretta mi guardai intorno: neve ovunque, tanta e a cumuli. Un biancore e un gelo che spegnevano ogni vitalità.

Un sottotenente, più o meno della mia età, con un atteggiamento a metà fra baldanzoso e presuntuoso, venne verso di noi, invitandoci ad avvicinarci ad una costruzione bassa, nei pressi della quale c’erano già tante altre reclute in attesa con valigie e zaini. “Per fare un po’ di conoscenza.” E detto ciò si allontanò scomparendo dalla nostra vista.

Ci avvicinammo alla bassa costruzione e rimanemmo là per parecchio tempo, senza che qualcuno chiamasse per farci entrare o ci dicesse qualcosa.

Uscivano gruppi di reclute accompagnati da un graduato o da un soldato, ma non entrava nessuno. Eravamo tanti, non si vedeva niente. Capii che era il mio turno quando finalmente riuscii ad avvicinarmi alla porta. Qui un soldato sgarbatamente mi ordinò di entrare e finalmente mi presentai ad uno dei tavoli, dove uno scrivano registrò i miei dati: cognome, nome data di nascita, residenza e così via. Erano iniziate le operazioni di reclutamento.

Uscii da quell’edificio con un gruppetto di altre reclute. Tutti diretti alla sede della nostra compagnia, la X.

Era ormai sera, faceva freddo, c’era neve ovunque e nessuno di noi aveva voglia di parlare.

Giungemmo davanti ad una casermetta, dopo una breve sosta, per serrare le file, vi entrammo.

“Aspettate qui.” Ordinò il caporale che ci aveva accompagnato, allontanandosi.

Dentro c’erano già molti ragazzi. Capii che avremmo fatto altra attesa, guardai l’orologio: erano già le sette di sera.

Fra tutti notai un ragazzo di Genova: “Belin quanto tempo ti fanno aspettare.” Disse.

“Sei già passato?” Gli chiesi timidamente.

“Sì. Adesso devo aspettare e poi potrò andare a mangiare qualcosa.”

“Non so ce la farò.” Risposi, adocchiando nel frattempo un telefono a gettoni. Era lì. Lo fissai a lungo. Nessuno si avvicinava. Pensai che fosse guasto.

Eravamo tanti e in precedenza avevo udito alcuni ragazzi lamentarsi per non essere riusciti a comunicare con le famiglie fino a quel momento.

Se l’apparecchio era funzionante, perché nessuno lo utilizzava? Era forse vietato?

Mentre mi ponevo queste domande, gli si avvicinò una recluta, inserì i gettoni e compose un numero: “Pronto sono io. Sì, sì sto bene. Non so quando mi sistemeranno in camerata. Ci sentiamo domani. Ciao.”

Terminata la telefonata e posizionato il ricevitore, si avvicinò un altro ragazzo e poi tanti altri ancora.

Imprecai dentro di me per non aver approfittato della situazione. Avevo i gettoni ma ormai gli utenti erano tanti, dovevo aspettare.

Avevo promesso ai miei che mi sarei fatto sentire non appena ne avessi avuto la possibilità, raccomandandogli però di non avere fretta e di non preoccuparsi più di tanto, considerata la particolarità della giornata.

Erano ormai le otto di sera, c’era il telefono, ma c’erano tante reclute prima di me e poi dovevo ancora essere chiamato per la registrazione.

Finalmente, in un momento di stasi, ruppi gli indugi. Mi avvicinai guardingo al telefono e sempre guardingo composi il numero di casa. Squillò. Rispose mia madre.

“Egidio! Come stai? Arturo! E’Egidio!

Come stai?”

“Sto bene, mamma. Sono ancora in attesa. Conosco solo il numero della compagnia.

Telefono per farvi stare tranquilli. E da questa mattina che non ci sentiamo.”

“Stai tranquillo. Sotto le armi è così.” Rispose la mamma.

La sua risposta mi stupì. Sembrava calma. Quante volte per molto meno l’avevo vista o sentita preoccupata. Stavolta era diverso. La cosa mi rassicurò un po’.

“Passami papà…”

“Pronto!” rispose quasi con baldanza.

“Come stai? Hai mangiato?”

“Ancora no. Devono registrarmi. So solo che mi hanno assegnato alla X compagnia.”

“Va bene. Va bene. Sta’ tranquillo, però cerca di mangiare.”

“E come faccio, non so neppure dove andare.”

Come mi irritava mio padre quando, trovandomi di fronte a qualche difficoltà, mi chiedeva se avessi mangiato.

Ora lo capisco. Per chi come lui aveva patito la fame in gioventù, anche a causa della guerra, affrontare una difficoltà a pancia piena era un giusto inizio.

Ma io ero vissuto diversamente. I miei problemi erano altri. A cominciare da quella benedetta tesi di laurea, che a quel punto non avrei concluso tanto presto.

Che sfortuna, proprio quando avevo ingranato con il suo svolgimento ero stato costretto a partire per il servizio di leva.

L’avrei conclusa presto? O sarebbe trascorso tanto tempo prima che vedesse la luce? E nel frattempo cosa avrei fatto? E se mi fosse accaduto qualcosa durante il servizio? Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno fosse tornato cambiato dalla naja o non fosse tornato affatto.

Forse vedevo troppo nero…

“Va’ a mangiare qualcosa…”

“Sì, sì, vedrò. Se non mi sentite nei prossimi giorni, non preoccupatevi, tanto sono qui in caserma.”

“Va bene.”

“Adesso chiudo. Ci sono altri che devono telefonare.”

“Ciao! Sta’ attento!” Quasi mi gridarono a tempo i miei dall’altro capo del filo.

Posai il ricevitore con un groppo alla gola. Non c’era nessuno dietro di me, avrei potuto parlare ancora ma non me la sentivo. Mi venne un senso di rimorso, ma passò presto. Fui chiamato dal contiguo ufficio arruolamento. Entrai e fui interrogato sulle mie generalità e competenze, quindi invitato ad uscire, ad andare a mangiare e poi a fare ritorno là, per essere accompagnato con altre reclute prima al casermaggio e poi alle camerate, dove mi avrebbero assegnato una branda.

Tornai nell’atrio. Era ancora lunga, ero stanco, infreddolito e anche affamato. Ormai erano le nove di sera passate e di solito, a casa mia, a quell’ora avevo già cenato da un po’, ma la situazione era cambiata e dovevo abituarmi al nuovo. Ogni tanto stringevo nella tasca la chiave del lucchetto con il quale avevo chiuso la mia valigia.

Stringevo la chiave, agganciata ad una catenella, per controllare di averla e per sentire vicina la mia famiglia. In quella giornata strinsi tante volte quella chiave.

Ero deciso a rimanere nell’atrio, ma alcuni ragazzi, più giovani di me e amici fra loro, mi convinsero a seguirli alla mensa.

Li seguii. Giunti alla mensa, rimasi colpito da questo grande ambiente, simile più ad un hangar che a un luogo di ristoro. La sala era quasi deserta, molto illuminata e appeso al soffitto campeggiava un gigantesco cappello alpino di legno. Alcuni altoparlanti trasmettevano musiche militari e canti alpini.

Ebbi la sensazione di stare nell’atrio di una grande stazione ferroviaria a mezzanotte: tanta luce, poca gente e … poco cibo.

Vassoi e contenitori erano quasi vuoti: c’erano ancora della pasta e fagioli molto brodosa, dei sofficini ormai freddi e del tè… niente frutta.

Mentre ero intento a scegliere, i miei compagni, ridendo e scherzando, si allontanarono, lasciandomi solo. Presi alcuni sofficini e del tè. Non li raggiunsi. Rividi invece Briasco, seduto solo ad un tavolo. Mi avvicinai a lui e mi sedetti di fronte, stava sorbendo quella che avrebbe dovuto essere pasta e fagioli.

“Fa schifo ma almeno è calda.” Mi disse con la sua nitida inflessione genovese.

“Ho preso questi- dissi indicandogli i sofficini- ma ho anche del tè.”

“E’ meglio la pasta e fagioli, fa schifo, ma almeno scalda un po’.”

“Chissà per quanto ne avremo ancora.” Aggiunsi.

“Andremo avanti fino a notte fonda… con questo freddo poi.”

“Fa proprio freddo- dissi- non è Genova.”

“E’ un’altra cosa” Rispose con un po’ di malinconia.

Mangiai in fretta (come il mio solito) per tornare alla casermetta della X compagnia.

“Sta’ qui. C’è tempo, almeno stai al caldo.”

“No, vado. Preferisco così.”

Ci salutammo e io tornai sui miei passi.

Rientrando nella casermetta non notai nulla di diverso, altre reclute in attesa e lo stesso silenzio.

Dopo un po’ uscì dall’ufficio reclutamento un caporale con un foglio in mano, lesse una serie di nomi fra cui il mio:” Seguitemi, andremo al casermaggio, vi daranno coperta e lenzuola e poi vi condurrò alla vostra camerata.”

Lo seguimmo. Fuori era buio e faceva molto freddo. Percorremmo alcuni vialetti in mezzo a tanta neve, che rifletteva la debole luce dei rari lampioni.

Arrivammo al casermaggio. Un paio di soldati, svogliati per il fatto di “fare notte”, ci sbrigarono frettolosamente e senza attenzione, sommergendoci di lenzuola, coperte, federe e cuscini.

Uscimmo appesantiti. Facevo fatica a tenere valigia e casermaggio, ma tenni duro in quelle poche centinaia di metri che ci dividevano dalle camerate.

Quando vi entrammo notai un gran vociare e un via vai di reclute, intente a sistemarsi, a preparare la propria branda, a lavarsi nei bagni o anche solo a chiacchierare. Mi sembrò di entrare in un vortice.

Finalmente raggiungemmo la nostra camerata. “Ognuno prenda posto presso una branda- ordinò il graduato- e lo tenga fino alla fine del CAR!”

“E se non mi piacesse una branda?” Chiese uno di noi.

“Potete accordarvi fra voi. Ma poi dovrete tenere quel posto fino alla partenza!” Rispose il graduato.

“Possiamo andare a lavarci?” chiese sempre lo stesso.

“Certo, potete lavarvi, sistemarvi come volete. Ma vi do un consiglio: domani saranno ancora ammessi ritardi e barba e capelli non curati, perché stiamo aspettando ancora gente, ma poi sarà meglio che vi facciate la barba e vi laviate, specie nelle parti intime, la sera per il mattino successivo. Dalla sveglia all’adunata c’è lo spazio di un’ora, e nel frattempo dovrete fare anche colazione.”

“Ma io non faccio colazione al mattino- ribatté sempre lo stesso- e posso usare questo tempo per la pulizia personale.”

Sì, sì… volendo- rispose sarcastico il graduato- ma ricordati che al mattino tutti si precipiteranno ai bagni per lavarsi il viso e fare i loro bisogni e potresti aspettare molto prima di trovare posto. Quindi potresti arrivare tardi all’adunata e …allora sono tutti cazzi tuoi…

Considera poi che ti conviene mangiare, perché al mattino fa freddo e l’addestramento è pesante… potresti trovare lungo.”

“Trovare lungo?”

“Sì, avere difficoltà. Per quanto riguarda la branda, domani potrete farla ancora come volete, ma vi conviene imparare subito a fare il cubo: materasso piegato in tre parti, dentro cuscino e lenzuola, il tutto avvolto dalla coperta.

Ora vi saluto. Mi raccomando, obbedite sempre agli ordini. Nei primi giorni i graduati saranno comprensivi, poi fioccheranno le punizioni.”

Detto questo il caporale uscì, mentre nella camerata alcuni già sistemavano le proprie cose e preparavano la branda per la notte.

In buona parte erano liguri, alcuni dei quali amici o conoscenti fra loro.

Vedendo ciò mi sentii ancora più solo, fino a quel momento non avevo incontrato alcun alessandrino e avevo perso di vista quei pochi con i quali avevo parlato in precedenza.

Le brande erano a castello, quattro per due lati della camerata, per un totale di 16 letti più quello del caporale istruttore.

Occupai la branda inferiore del catello di destra più vicino all’uscita, accanto a quella del caporale istruttore. La prima cosa fu preparare il letto per la notte. Feci in fretta, abituato a rifare il letto della mia camera ogni mattina dopo essermi alzato.

Avrei voluto dormire vestito, ma vedendo gli altri che indossavano il pigiama o una tuta e sistemavano le proprie cose nell’armadietto, feci lo stesso anch’io, per non apparire come lo sprovveduto che non era mai uscito di casa.

Dopo aver tirato fuori dalla valigia pigiama, pantofole e il necessario per lavarmi e deposti giaccone e valigia nell’armadietto, chiuso poi con il lucchetto, mi recai in bagno.

Trovai un posto libero per lavarmi i denti e farmi la barba. Ciò che mi colpì fu che quasi tutti i ragazzi che entravano nei bagni salutavano, come se ci conoscessimo da sempre. E io rispondevo, allentando mamo a mano la mia tensione.

I bagni erano veramente tristi: un lungo lavabo, opaco per il calcare e una pulizia mai effettuata fino in fondo, e di fronte le latrine alla turca. L’ambiente era avvolto da un odore di sapone e bagnoschiuma misto a quello di fogna e disinfettante.

Dopo essermi rasato e lavato i denti, uscii salutando tutti. Tornai alla mia camerata, che nel frattempo si era riempita.

Rividi Briasco, che infervorato metteva a posto le sue cose e nel frattempo parlava con un conoscente.

“Belin, non ne potevo più. Un freddo.”

“Tu quando sei arrivato?” Chiese il conoscente.

“Nel pomeriggio. Ieri sera abbiamo fatto tardi. I miei amici hanno voluto festeggiare la partenza.”

“E dove siete andati?”

“Dopo la pizza, siamo andati in giro a fare baldoria. Alla fine mi hanno regalato questa. E ‘ una bottiglietta con sabbia e acqua di mare del porto di Genova.

Belin, così non mi dimentico, qui in mezzo ai lupi.” Ridemmo tutti di gusto e per un attimo mi passò la malinconia.

Feci conoscenza con il mio compagno di branda, Claudio. Subito mi apparve un ragazzo per lo meno strano.

“Egidio, mi fai stare sotto?”

“Perché? Ho occupato il posto prima io.”

“Perché sono più comodo e poi ho paura di cadere.”

“Ma no… – risposi infastidito- è impossibile. La rete è talmente sfondata che sprofondi e semmai sono io che, alzandomi, sbatto la testa contro il tuo sedere.”

“Dai… fammi stare giù.” Mi chiese con tono lamentoso.

Mi commossi, ma tenni duro, pensando che quel sì avrebbe potuto essere il primo di una lunga serie e tutti ne avrebbero approfittato.

“No, scusa, sono arrivato prima.”

“Mi dai una mano a fare la branda?”

Risposi di sì, pensando di placare la sua insistenza. Ma lui continuò, aveva bisogno di aiuto in tutto. Ben presto, preso dalle mie difficoltà, come tutti gli altri, smisi di ascoltare le sue richieste.

Finalmente Claudio cominciò a sistemare le proprie cose da solo e io potei cambiarmi. Indossai il pigiama, sistemai pantaloni, camicia e maglione nell’armadietto, che chiusi nuovamente con il lucchetto, ponendo le scarpe sotto la branda.

Mi infilai sotto la coperta, avevo tanto freddo. Qualcuno augurò la buona notte e quasi tutti noi gli rispondemmo.

Erano le 23,30 quando venne suonato il silenzio.

Pensai a quante volte lo avrei sentito suonare nei 12 mesi successivi. Ma quella notte del 14 gennaio 1982 nelle camerate della X compagnia del Battaglione “Mondovì” di silenzio ce ne fu poco.

Le luci rimasero accese fino a notte fonda. Le reclute continuarono ad arrivare e a sistemarsi, parlando a voce alta. Quindi, per dormire un po’, misi la testa sotto la coperta.

Ad un certo punto udii dei passi pesanti, misi la testa fuori, guardai verso l’entrata della camerata e vidi passare l’ufficiale di picchetto, con l’inconfondibile fascia azzurra, accompagnato da due guardie.

Diedi poi uno sguardo alla branda del caporale istruttore, era vuota.

Chiusi gli occhi e prima di addormentarmi udii ancora la richiesta di uno dei miei compagni: “Possiamo accostare le imposte? Così entra meno freddo.”

Egidio Lapenta

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