Le matrioske di Franceschini

A 40 anni dalla morte di Aldo Moro siamo ancora fermi, forse ‘impantanati’, in questo paese e in ognuna delle famiglie politiche ancora oggi presenti in esso, oggi come allora, alla pura  difesa della verità che è più comoda alla coscienza, alla quiete dell’ anima.

E’ impossibile , a parere di chi scrive, ricostruire una verità se essa non è intesa come ricerca, come continua tensione verso la comprensione di un evento storico. La verità non può mai essere, per contro, statica, definita una volta per tutte, priva di dubbi e granitica. Il dubbio corrode ed è fastidioso da gestire, solleva il dormiente da un riposo tranquillo, è il rimosso che torna a tormentarci nella notte. Eppure è la ricerca, la tensione e il dubbio, che dobbiamo coltivare se vogliamo realmente l’ approssimarsi più profondo alla verità. Senza verità non c’è conciliazione, superamento di una fase storica che il paese vorrebbe lasciarsi alle spalle.

Non vi sono, dunque, ‘commissioni politiche’  e verità altrettanto ‘politiche’ che possano sgombrare il campo nostro dai fantasmi inquieti del passato, come sostenuto dall’ onorevole Lavagno, membro nella passata legislatura della seconda commissione Moro. Promuovere fantasiosi tavoli, magari con vago sapore esoterico, per vaste conciliazioni storiche, significherebbe soltanto spartire con pazienza la torta della verità dicibile, al fine di dare ad ognuno la fetta che spera di meritare. Non sarà questa grande seduta ‘spiritica’, in attesa che un piattino muova a comporre la parola ‘fine’, a liberarci dagli spettri che non sappiamo far altro che evocare.

Ciò che ci appare indicibile e mostruoso va affrontato con lucida determinazione. Chi scaccia fantasmi il giorno è paradossalmente destinato ad evocarli nella notte.

La lettura della vicenda del sequestro e dell’ omicidio di Aldo Moro è dominata, malgrado tutte le cose nuove che in 40 anni si sono scoperte e accertate, ancora da due coppie concettuali: da un lato il dilemma trattativa – fermezza che avrebbe spinto le BR ad uccidere l’ ostaggio, Presidente della DC allora; dall’ altro la contrapposizione invincibile fra dimensione nazionale e internazionale, per cui la vicenda del rapimento ‘Moro’ sarebbe solo ed esclusivamente dramma locale, scadente poi, nei toni farseschi della commedia all’ italiana. In più, queste antiche chiavi di lettura del sequestro sono aggravate dal dibattito inesaurito sulla inautenticità delle carte di Moro; i brigatisti avrebbero, si dice nel senso comune che ormai va per la maggiore, avendo fatto esercizio della ‘ eticità dei carcerieri’, tutelato il buon nome del prigioniero e dei suoi scritti. A dimostrazione di ciò, ancora oggi su giornali quali ‘Il Manifesto’, per non dire di tutti i quotidiani nazionali maggiori, è quella indicata sopra la lettura prevalente, non scalfita dalle testimonianze e dalla massa dei documenti ormai a disposizione e dal riesame di quelli un tempo lasciati ad un ‘prudente’ oblio.

La morale della storia, tirate le somme, sarebbe questa: sequestro di un politico importante da parte di rivoluzionari – terroristi dotati di morale integerrima, lo stato poi evita di trattare perchè in realtà non interessato alla vita del sequestrato, infine, BR indotte, da uno stato crudele e inetto, ad uccidere il rapito contro i loro stessi obiettivi iniziali. Si tratta, in realtà, di una ricostruzione che non corrisponde ai documenti storici conosciuti, e che combacia paradossalmente, agli scopi della propaganda che le BR implementano proprio nei 55 giorni, e che, attraverso queste narrazioni benevole provenienti da più parti, si propaga indisturbata fino ai nostri giorni. Come è stato possibile questo? Ritengo sia stata la sconfitta dello stato , che doveva dalla prigionia trarre l’ ostaggio vivo, a spingere questo al silenzio, barattando una verità posticcia e di comodo col nemico ormai vinto. Nemico, il quale, ha di fatto il dominio del racconto di quell’ omicidio politico. Un paradosso inacettabile; Moro è nella sostanza ancora nelle loro mani, sequestrato nella verità non detta sui quei giorni, mani degli attempati assassini di 40 anni fa.

Se non sbaglio, l’ abbandono della esperienza armata da parte di Curcio, Moretti e Balzerani avviene nell’ 88 con una intervista concessa al TG Rai, data al giornalista Ennio Remondino.  Fu in quella occasione che Alberto Franceschini scrisse a Mario Moretti una epistola, letta pubblicamente da Giuliano Ferrara alla fine di un suo speciale sul ‘Caso Moro’. Franceschini chiedeva al vecchio compagno delle BR, di essere coerente con le dichiarazioni svolte durante i processi sul caso Moro. Allora Moretti sosteneva che ‘quella non era la verità, ma solo una ricostruzione di comodo, che essa era la verità dello stato’. Ma nella intervista al TG1 Moretti affermava ‘ Sul sequestro Moro non c’è più nulla da scoprire, tutto è già scritto negli atti giudiziari’. Franceschini chiede al capo dell’ organizzazione di allora, il conto di questo; ‘in questi tre anni trascorsi dal processo per il sequestro è accaduto qualcosa che ti ha fatto cambiare idea, portandoti a confermare quella che tu stesso definisti la verità di stato’. In tale lettera, inoltre, si può leggere nell’ ultimo capoverso, ‘ Spesso ho la sgradevole sensazione che la nostra vicenda assomigli alle matrioske, quelle bambolette di legno infilate una nell’ altra che, sviti e sviti, e non arrivi mai a trovare l’ ultima’.

Affinchè la verità non sia inafferrabile come le matrioske di Alberto Franceschini adoperiamoci per un vero distacco dalle nostre storie politiche che vogliamo ancora oggi difendere, e cerchiamo la verità nella oggettività dei fatti e nella più rigorosa analisi delle vicende e dei documenti storici.

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