Quando chiesi di andare in polveriera era novembre, il 21 ottobre 1982 mi ero laureato e mancavano una sessantina di giorni al congedo.
“Ma chi te lo fa fare…”
“Ti mancano due mesi… puoi stare tranquillo in ufficio.”
“Ma perché ti devi accollare sta rogna della polveriera, ora che stai per finire?”
“Ora che stai finendo sono più i giorni che passi fuori che dentro la fureria…hai fatto proprio carriera…”
Questo ed altro mi dicevano i miei genitori e i miei commilitoni. Era vero, nel momento in cui avrei potuto attendere serenamente la fine del servizio militare lavorando in ufficio, non mancava occasione perché mi assentassi: se non erano le lezioni di teoria ai nuovi mortaisti e specialisti al tiro, erano le giornate del reclutamento oppure qualche altro impegno che mi portava fuori dalla caserma.
C’era più di un motivo che mi spingeva ad andare in polveriera.
Il primo, quello di provare nuove esperienze. Dimostrare che potevo affrontare qualsiasi difficoltà.
Ero passato dalle paure dei campi invernali alla consapevolezza delle mie possibilità e ciò mi inebriava.
I pericoli però c’erano e non solo perché si trattava di un deposito di esplosivi, ma anche per eventuali colpi di mano della criminalità organizzata o del terrorismo. Eravamo nella coda degli “anni di piombo”.
Un altro motivo, più personale, era che non sopportavo più il nuovo comandante di compagnia.
Il capitano Lombardi, nonostante i comportamenti iracondi nei confronti dei subalterni, aveva dimostrato di essere un ufficiale preparato nella conoscenza dei mortai e dei regolamenti. Un uomo deciso, che raramente colpiva alle spalle.
Dopo un periodo di comando provvisorio, assegnato al sottotenente Villani, subentrò il sottotenente Caula.
Era stato comandante della mia compagnia, a San Rocco Castagnaretta, nei pressi di Cuneo, con il grado di tenente e non mi aveva convinto a causa di un comportamento poco pratico e molto burocratico.
Lo rividi a Boves con il grado di sottotenente.
“Lo hanno degradato?” Chiedemmo noi di gennaio.
“No. Ha fatto un passo indietro per poter avere un più rapido avanzamento di carriera in futuro”. Rispose più di una volta lo Sten. Villani, ormai prossimo al congedo.
Quando il nuovo comandante giunse a Boves non riscosse molta simpatia, soprattutto fra i più vecchi, per la sua poca simpatia e per la tendenza ad applicare un grossolano “divide et impera” fra i subalterni.
Tendeva a metterci gli uni contro gli altri, favorendo la contrapposizione fra chi aveva operato a lungo con il capitano Lombardi e i nuovi arrivati.
Prediligeva i nuovi, facendo intendere che una presa di campo precisa avrebbe comportato vantaggi non indifferenti, a cominciare dalle licenze.
Se avesse potuto avrebbe fatto piazza pulita degli anziani presenti negli uffici, ma non gli conveniva, meglio far crescere i nuovi arrivati. Però questo non gli impediva” di cercare il pelo nell’uovo” per screditare o ridimensionare il lavoro altrui.
Un tardo pomeriggio, ero solo in ufficio, si presentò, seguito da quasi tutti gli ufficiali della 106, chiedendo non ricordo quale documento.
Non si trovava, ma io ero sicuro che ci fosse. Bisognava solo cercarlo. Il mio dubbio era che fosse stato o protocollato erroneamente o posto in un fascicolo non suo, per cui, anche se con un po’ di rabbia e di angoscia, cercavo, certo che sarebbe saltato fuori.
Il comandante Caula invece era convinto che non ci fosse e già formulava qualche giudizio acido e pregustava il momento in cui avrebbe messo in discussione la mia nota efficienza.
Il documento saltò fuori e io glielo sventolai soddisfatto.
“Mannaggia chi t’muorte, l’hai trovato finalmente.” Disse fra l’ironico e il piccato.
“Il documento c’era- risposi- solo che era stato collocato in un altro fascicolo di protocollo…e comunque non si bestemmiano i morti, specie quelli degli altri.”
Scese il gelo fra i presenti. Il comandante prese il documento, bofonchiò qualcosa e uscì seguito dagli altri ufficiali.
Il sottotenente Mattiazzi, con lo sguardo, mi fece capire che avevo colpito duro…molto duro. Ma era stato più forte di me, avrei accettato un giudizio acido, una punizione, ma non un’offesa ai morti, soprattutto ai miei.
Con il comandante eravamo quasi coetanei, fra l’altro studiava architettura, ma ciò non lo rendeva più disponibile verso quei soldati laureati o prossimi alla laurea, come il sottoscritto.
Non era ben disposto a concedere licenze a laureandi o a laureati che dovevano sostenere l’esame di abilitazione ad una professione. Nel mio caso si comportò in modo maligno.
Fu rubato un paio di pantavento ad un nostro commilitone e poiché non si trovavano né il colpevole, né i pantaloni, il comandante decise di sospendere tutte le licenze: “Anche la sua, così non si laurea.” Disse con un ghigno di soddisfazione.
Obiettai qualcosa, ma rispose che non se ne sarebbe parlato finché non fossero saltati fuori almeno i pantavento.
“Denunciate il ladro e verranno ripristinate le licenze.”
Era una parola…non solo non si conosceva il nome del ladro, forse non era neppure della 106, ma ben pochi si sarebbero inchinati a quel metodo ricattatorio, che mascherava anche una certa mancanza di autorevolezza.
“Anche se sapessi chi ha rubato non lo direi certamente a lui.”
“Ma con chi crede di avere a che fare? Con dei venduti?”
“E’ furbo lui…”
E intanto si cercava di trovare una soluzione al problema.
Ad Alessandria, mio padre, dopo aver appreso la notizia, non dormì la notte.
Quante volte mi aveva rimbrottato e quante mi aveva rincuorato. Aveva sempre cercato di non esasperarmi per evitare che commettessi qualche brutta azione. Aveva sopportato le mie lamentele sul nonnismo, aveva accettato che manovre militari e intoppi burocratici avessero fatto slittare la data della mia discussione di laurea, ma non poteva tollerare, lui ex combattente, ex prigioniero di guerra, nonché sottufficiale in pensione della penitenziaria, che il furto di un paio di pantaloni e un comandante poco autorevole facessero saltare la mia seduta di laurea.
La mattina dopo, si alzò di buon mattino, uscì e girò per tutta Alessandria con lo scopo di trovare ascolto …e lo trovò.
Nel frattempo, nella caserma “Cerutti”, a Boves, avevamo recuperato un paio di pantavento, fondo di magazzino, e grazie a questi avevamo fatto passare il furto per uno smarrimento con relativo ritrovamento.
Ma mentre tutto sembrava tornare alla normalità, con l’annullamento del provvedimento di sospensione delle licenze, ecco piombare come un falco il maggiore Berardi, vicecomandante del battaglione “Saluzzo”.
Le lamentele di mio padre erano giunte fino al comando di Borgo San Dalmazzo e l’alto ufficiale aveva voluto vederci chiaro.
Tutto fu chiarito ma ciò non impedì al maggiore di fare un appunto neanche troppo velato al nostro comandante sulla gestione della disciplina.
Finalmente il 19 ottobre parii alla volta di Alessandria, per gli ultimi preparativi prima della discussione di laurea, che si sarebbe tenuta il 21.
Finalmente: dottore in Lettere. Non mi sembrava vero. Il 14 gennaio 1982 ero partito con il timore di vedermi sfuggire fra le mani quell’appuntamento importante della mia via e ritornavo a Boves il 22 ottobre dello stesso anno carico di speranze e aspettative.
Giunto in caserma, la trovai praticamente deserta, la mia compagnia era partita alla volta di Prazzo, per la scuola tiri con i mortai.
Non passarono due giorni e la raggiunsi per la mia ultima esercitazione: fu un momento quasi commovente.
Tornati a Boves, ricominciò la vita di tutti i giorni, con le vessazioni quotidiane del nostro comandante. L’unico modo era allontanarmi e l’occasione fu il servizio in polveriera assegnato alla 106° compagnia.
Il deposito era a Fontanelle, una frazione di Boves. Quando vi giungemmo, comandati dal sottotenente Venturella, facemmo subito un giro di ricognizione, per prendere confidenza con l’impianto.
Il deposito era isolato dall’abitato, i depositi erano circondati da alti muri di terra e distanti fra loro. Una vegetazione abbastanza folta impediva la visuale dall’esterno e permetteva alle guardie, in caso di attacco, di mimetizzarsi al meglio.
Il tutto era circondato da un alto muro di filo spinato, intervallato da altane.
Il sottufficiale responsabile dell’impianto, durante la nostra prima ispezione, rivolgendosi ad Allena e a me, i due capiposto, disse queste parole:
“State in guardia, ragazzi. Qui ci sono 100 miliardi di lire di munizioni ed esplosivo, se succede qualcosa la colpa verrà scaricata su di voi.”
“Perché?” Chiedemmo fra il preoccupato e il meravigliato.
“Perché in Italia la responsabilità è inversamente proporzionale: dall’alto viene scaricata verso il basso. Non è mai responsabilità di chi comanda. Voi e le guardie siete gli ultimi della scala gerarchica.
I superiori, io compreso, diranno di aver dato ordini e direttive che sono stati disattesi…e voi ce l’avrete in quel posto…avete capito?”
Avevamo capito. Avevamo capito fin troppo bene: tanto per cambiare una rogna. Ma ormai ero lì e non potevo più tornare indietro.
Il passaggio delle consegne si concluse frettolosamente in quella fredda ed umida giornata di novembre, i fucilieri della 21° avevano fretta di lasciarci la patata bollente e di tornare a Dronero.
Quando anche il sergente maggiore se ne andò, a bordo della sua 126 blu di servizio, rimanemmo solo noi della 106, unica compagnia una femmina di pastore tedesco, addestrata ad abbaiare a tutti coloro che non indossavano l’uniforme, unica eccezione il maresciallo in pensione che l’accudiva.
Faceva una certa piacevole impressione essere seguiti nei propri spostamenti da quel cane. Personalmente con il cane al mio fianco mi sentivo protetto.
Iniziammo i turni di guardia. Le sentinelle avevano diritto a due ore di libera uscita ogni quattro giorni, i capiposto a due ore ogni due giorni. Ma intorno non c’era molto, una volta consumato un caffè nell’unico bar ed acquistati giornali e pile nell’ edicola tabaccheria, si aveva ancora il tempo di fare un giro, camminando sul ciglio della statale, prima di tornare alla base.
Qualche volta fermavamo un ACL della “Cerutti” per scambiare due parole con l’autista e il capomacchina e sapere le ultime novità della caserma. Ma non sempre succedeva, alcuni dei nostri autisti quando ci vedevano lungo la strada, suonavano il clacson, lanciavano qualche battuta volgare e proseguivano facendo rombare i motori, inseguiti dalle nostre imprecazioni.
Spesso non uscivo, rimanendo nella baracca di servizio e giocando a dama o guardando la televisione. Nella sala di ritrovo avevamo un vecchio televisore con un solo canale, vedevamo quello… rassegnati… ma almeno non bisticciavamo.
Ogni tanto chiedevo in prestito a Delfino il suo walkman e la cassetta con le canzoni di Battiato, “La voce del padrone”. Disteso sulla mia branda, ascoltavo per ore, affascinato, “Cuccurucucù”, “Bandiera bianca”, “Centro di gravità permanente” e le altre canzoni della raccolta.
Mi affascinavano le musiche, il modo di cantare ma soprattutto i riferimenti eruditi frequenti nei testi (“Il senso del possesso che fu pre -alessandrino”, “Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi alla corte degli imperatori della dinastia Ming”).
Mi facevano volare fuori da lì, in un mondo ideale, dove regnavano cultura, libertà e gentilezza.
“La voce del padrone “è stata la colonna sonora del mio servizio militare, in particolare di quello in polveriera. Affiancata da “Japanese boy” e “Un’estate al mare”, leitmotiv del primo mese di naja e dei campi estivi in Sicilia.
Quella sera della seconda decade di novembre, dopo essere smontato dal servizio e aver consumato il rancio, decisi di mettermi subito in branda. Mi rasai, come ormai facevo ogni sera da dieci mesi a quella parte, indossai il pigiama e mi misi sotto le coperte.
Dopo una breve chiacchierata con il mio vicino di letto, mi addormentai.
Dormii profondamente e sognai. Sognai di aggirarmi liberamente per la polveriera in pigiama. Mi chiedevo come fosse possibile ciò, ma era piacevole e divertente. Mi aggiravo fra depositi munizioni, altane e baracche senza ostacoli. Però volevo tornare a letto, per riposare: la sera successiva dovevo riprendere il servizio di capoposto.
Mi rimisi in branda, ma nel frattempo ecco avvicinarsi Allena, l’altro caporalmaggiore.
“Guarda che ho ancora tempo per dormire- gli dissi- torna più tardi.” Ma lui mi fissava.
“E’ ancora presto. Fammi dormire…” Ma lui continuava a fissarmi.
Ero in branda, quasi imbarazzato:” Ma perché mi fissava così, senza dir niente? Mah.”
Intanto cominciavo ad essere in una fase di dormiveglia, vedevo veramente Allena, ma non capivo.
“Alzati, Egidio” – mi disse con tono brusco- Dai, alzati e vestiti…devi uscire con la guardia: c’è un allarme.”
A quella parola mi svegliai di colpo e con angoscia. Mi guardai intorno, la camerata brulicava di soldati in assetto di guerra, mentre i miei compagni si erano già vestiti o stavano finendo di equipaggiarsi.
Ero in ritardo! Mi alzai di scatto, in pochi minuti mi vestii e intanto guardavo quei soldati in assetto di guerra. Erano fucilieri della 23°, ne riconobbi qualcuno, armati di fucile automatico (il FAL) e con le giberne piene di caricatori.
Ero pronto.
“Venturella vi aspetta fuori.” Mi disse con tono grave Allena.
Raccolsi tutti quelli che non erano in servizio e insieme, seguiti dai fucilieri, uscimmo nello spiazzo antistante, dove ci attendeva lo Sten. Venturella.
“Lapenta – quasi balbettando per la tensione- è arrivata una soffiata su un possibile attacco terroristico. Voi sapete cosa fare. Vi piazzerete nei posti prestabiliti e sarete appoggiati dai fucilieri.”
Era tutto chiaro, la presenza del rinforzo della 23 faceva pensare ad un qualcosa di sicuro e anche di una certa dimensione. Non era la prima volta che l’esercito subiva un attacco terroristico, per lo meno questa volta eravamo pronti.
” Avremo a disposizione più caricatori, rispetto ai due di ordinanza?” Chiesi, certo di una risposta affermativa.
“No, avrete i soliti due.”
“Ma in caso di conflitto a fuoco prolungato, con 16 colpi noi che facciamo?”
“Sarete di supporto ai fucilieri, loro sono ben forniti di munizioni e possono sostenere un conflitto a fuoco prolungato.”
Questa risposta mi lasciò senza parole. Scossi la testa. Lo Sten. fece una smorfia di solidarietà, ma quella era la situazione.
Ritirammo i due caricatori da otto colpi e, seguiti dai fucilieri e accompagnati dal sergente maggiore responsabile, ci avviammo verso la polveriera vera e propria. Nella fredda notte senza luna, erano quasi le due, si sentivano solo i nostri passi sul sentiero ghiaioso.
Il sergente maggiore ed io camminavamo fianco a fianco.
“Mi raccomando, rimanete nei posti assegnati.”
“In caso di conflitto a fuoco, cosa dobbiamo fare? – chiesi con un che di angoscia- Possiamo dar man forte alle postazioni attaccate?”
“State dove siete… rimanete ai vostri posti. Potrebbero esserci attacchi diversivi. Attendete gli ordini e ricordate che sono allertati i Carabinieri. Tocca a loro intervenire dall’esterno.”
“Possiamo…”
“Guagliò qua la cosa è seria. Attenetevi agli ordini che riceverete via radio.”
Non dissi più nulla.
Giungemmo davanti al cancello. La guardia sull’altana, informata del nostro arrivo, ci fece un cenno. Il sottufficiale lo aprì, ci fece entrare, dopo di che lo chiuse alle nostre spalle.
Iniziammo il giro, collocando i rinforzi sulle altane e nei punti stabiliti. L’ultima a piazzarsi fu la nostra squadra, su una sommità nei pressi dell’entrata e di fronte all’altana, eravamo quattro, due della 106 e due della 23. Tutta l’operazione avvenne nel massimo silenzio, nessuno aveva voglia di parlare.
Prima di andarsene il sergente mi rivolse queste parole: “Mi raccomando, ora sei tu il responsabile. Non fare cazzate. Attieniti agli ordini.”
Annuii senza parlare. Quando lo vidi superare il cancello, chiuderlo e poi sparire lungo il viale, nell’oscurità della notte, ebbi un groppo alla gola. In quel momento capii di essere solo e di avere la responsabilità non solo della mia persona ma di tutti i ragazzi che erano nel perimetro del deposito. Ebbi paura, ma mi feci forza comunicando con la base.
Presi la radio e mi misi in contatto con lo sten Venturella.
“Pronto, signor tenente, sono Lapenta. Qui tutto a posto. i ragazzi si sono appostati e ora stanno in attesa. Passo.”
“Lapenta, da questo momento saremo in silenzio radio. E ’un modo per evitare di dare segnali o riferimenti agli assalitori. E ’necessario un silenzio assoluto anche fra voi. Mi raccomando. Passo.”
“In caso di necessità possiamo comunicare con la base? Passo.”
“Certo, per qualsiasi problema potete mettervi in contatto con noi. E con questo passo e chiudo.”
Chiusa la comunicazione a Delfino:
“Senza far troppo rumore fai il giro delle postazioni e di’ loro di mantenere il massimo silenzio. E ’per motivi di sicurezza.” Delfino si allontanò senza neanche rispondermi.
Tornò dal giro non molto tempo dopo.
“Tutto a posto?”
“A posto.” rispose senza proferire altro
Nel mio intimo ero preoccupato. Alcuni di quei ragazzi non prendevano sul serio tante cose e temevo che potessero comportarsi con leggerezza anche in quel frangente.
Da quando era iniziata l’operazione era ormai passata più di un’ora. Cominciammo l’attesa. Eravamo pancia a terra, a contatto con la terra dura e fredda. Il silenzio era assoluto, rotto soltanto qua e là dal fruscio di qualche animale notturno.
Era una notte fredda ed umida. Noi eravamo acquattati e il diretto contatto con il terreno ci faceva sentire ancora di più il freddo.
All’inizio non ci lamentammo, pensando ad un attacco imminente. Ma più passava il tempo e più sentivamo il gelo penetrarci nelle ossa e non avevamo nulla con cui scaldarci. Eravamo usciti in fretta dall’area servizi e nessuno aveva pensato di fornirci teli mimetici e qualche bevanda calda.
Dalla nostra posizione osservavamo lo spazio, illuminato a giorno, fra il cancello e l’altana. Ma lo sguardo andava oltre, nelle zone d’ombra laterali, con l’intento di individuare una qualche figura o un bagliore che ci permettessero di localizzare il punto d’assalto. Niente, tutto tranquillo e silenzioso… troppo silenzioso.
Freddo e tensione mi facevano tremare. Mi rivolsi a Delfino:
“Secondo te, da dove attaccheranno?”
“Non certo dalla porta centrale – rispose quasi sussurrando- da qualche punto più nascosto e buio, magari alle nostre spalle.”
“Ma se attaccassero la porta centrale, come ci regoliamo? Abbiamo 16 colpi, non possiamo sprecarli.”
“Già – rispose con una smorfia- meno male che ci sono i fucilieri, loro hanno i FAL e più caricatori da 30 colpi. Sono abituati a sparare, non c’è addestramento in cui non sparino qualche decina di colpi. Noi con i Garand possiamo fare poco. D’altronde siamo bravi con i mortai.” E sorrise.
“E ’vero, nelle tre scuole tiri abbiamo sparato più di 300 bombe di mortaio. Non è poco. – poi, rivolgendomi ai due fucilieri- ragazzi, facciamo così, in caso di conflitto a fuoco, sparate voi, ma senza strafare, per economizzare i colpi.
Noi vi appoggiamo e spariamo solo se il bersaglio è certo, abbiamo poche cartucce.”
I due annuirono, ma Delfino mi gelò:
“E se rimanessimo senza munizioni? Che facciamo? Non possiamo mica arrenderci.”
“Hai ragione- risposi con una certa titubanza- non possiamo arrenderci…anche perché non so mica se ci salveremmo…inastiamo la baionetta e andiamo all’arma bianca… che dite?”
“Eh… andiamo all’arma bianca… ci ucciderebbero lo stesso.”
“Già.” Sussurrai, senza aggiungere altro e pensando al peggio.
Il tempo passava, erano le quattro, e non si vedeva anima viva, ma faceva sempre più freddo.
“Se ci avessero dato almeno i teli tenda, ci saremmo riparati un po’.” Mormorò Delfino.
“Magari con un po’ di vin brulè.” Aggiunsi, scaldandomi al solo pensiero di poterlo sorseggiare.
“Nicolosi, hai fatto i campi in Sicilia?” Chiese un fuciliere all’altro.
“Sì, non c’ero mai stato.”
“Ti è piaciuta?”
E la conversazione continuò con un tono di voce sempre più alto, tanto che dovetti invitarli a parlare a bassa voce.
Continuarono la loro conversazione sommessamente, penso più per stare svegli e combattere il freddo che per soddisfare una qualche curiosità geografica.
Li ascoltavo, più per distrarre la mente che per interesse, mentre lo sguardo era fisso verso le zone d’ombra attorno all’entrata della polveriera.
Ad un tratto, Delfino li zittì, facendomi notare strani rumori alle nostre spalle.
Tendemmo tutti le orecchie, erano dei passi, molto leggeri.
“Sono dietro di noi!” Sussurrò allarmato Delfino.
“Diamogli addosso- e poi, sempre sussurrando, ai fucilieri- voi due copriteci. Se va male…sparate!”
Ci avventammo con il primo che stava emergendo dal buio. Fu un attimo. Quello imprecò.
Lo riconoscemmo, era Cometto, seguito bellamente da uno dello scaglione di maggio.
“Che cazzo fate! – urlammo – Ma vi rendete conto che potevamo ammazzarvi!
Perché avete abbandonato il vostro posto?”
“Per sgranchirci le gambe. – rispose seraficamente Cometto-Volevamo vedere come stavano gli altri.”
“Ma vi rendete conto che siamo in allerta? Potevamo ammazzarvi!” Urlai, visibilmente alterato.
“Tanto non viene nessuno. Sono le quattro passate.” Rispose Cometto senza scomporsi.
Quando faceva così mi mandava in bestia. Non tolleravo le leggerezze in generale. Non le ho mai tollerate neanche nella vita civile. E ’il mio carattere e non è detto che sia giusto così.
Li feci tornare al loro posto. loro obbedirono, ma mugugnando. Addirittura uno dei due si lamentò dei nostri modi bruschi.
In quel momento non so cosa gli avrei fatto. Erano le quattro del mattino, faceva freddo ed eravamo sempre più nervosi, ad ogni scricchiolio di ramo, ad ogni fruscio puntavamo le armi, sempre con il timore di fare qualche tragico errore.
Eravamo ormai appostati pancia a terra, all’addiaccio, da alcune ore e pensavamo con invidia ai nostri compagni asserragliati, al caldo, nell’area servizi.
Uno dei due fucilieri tirò fuori una tavoletta di cioccolato e cominciò a sgranocchiarla con l’illusione di scaldarsi.
Se avessimo mangiato qualcosa forse il tempo sarebbe trascorso più in fretta.
“Se almeno avessimo i teli tenda per coprirci.” Sospirò Delfino.
“Eh…sarebbe buono.” – Rispose uno dei due fucilieri- magari con qualcosa di caldo da bere.”
A quel punto, ruppi gli indugi e mi misi in contatto con il sottotenente Venturella, chiedendogli teli tenda e bevande calde, eravamo troppo intirizziti e questo non ci avrebbe aiutato in caso di scontro a fuoco.
L’ufficiale promise ed effettivamente, dopo una mezza oretta, vedemmo giungere l’inconfondibile 126 del sergente maggiore, che, dopo essere entrata nell’area della polveriera, fece il giro delle varie postazioni distribuendo teli tenda e the caldo. Ci sentimmo rinascere. Finalmente potevamo attendere il nemico non più distesi sulla nuda terra. Il tempo intanto trascorreva e noi eravamo sempre lì, in attesa, al buio e nel silenzio assoluto a sussultare ad ogni fruscio.
Delfino mi fece notare che il silenzio era diventato totale, non si udiva più neanche lo scricchiolio di una fronda spezzata da qualche animale notturno. Era una sensazione angosciante.
“Forse qualcuno si è addormentato.” Disse Delfino fra il serio e lo scherzoso.
“Speriamo di no- risposi- fa’ una cosa: fai un giro e accertati che siano tutti svegli…sta’ attento.”
Delfino mi sorrise come per dire” stai tranquillo” e si allontanò.
Quando tornò, disse solo:” Tutto a posto.”
“Dormivano?”
“Qualcuno.” Rispose con un sorrisetto ironico.
Sospirai. Nel frattempo anche uno dei fucilieri si era appisolato.
Lo lasciammo dormire.
“Tanto se sparano sente.”
“Sicuro.”
Sospirai di nuovo.
Passarono le ore, faceva sempre più freddo, eravamo sempre più intorpiditi e ad ogni fruscio reagivamo sempre più lentamente.
“Vorranno mica prenderci per sfinimento- pensai- maledetti…assassini”. E la mia mente andò al tragico fatto di Salerno.
Neanche un pallido sole del mattino però ci scaldò. E noi eravamo sempre là, ormai convinti che non sarebbe accaduto alcunché.
Vennero le dieci. Ci guardammo in faccia, eravamo sfatti dal freddo, dalla tensione e dalla fame. Quanto sarebbe durata quella storia? Avremmo proseguito per tutta la giornata? In quelle condizioni come avremmo reagito ad un attacco improvviso? Ma a quell’ora ci sarebbe stato un attacco?
Alle undici, il sottotenente Venturella ci comunicò il cessato allarme. Dopo poco giunse l’immancabile 126 blu del sergente maggiore. Questo scese dall’auto, aprì il cancello, lo richiuse alle sue spalle e si diresse verso la nostra postazione.
Insieme facemmo il giro per riunire la formazione. Quando fummo tutti insieme lasciammo la polveriera, tornata ad essere vigilata solo dagli uomini sulle altane, e ci incamminammo verso la base, lentamente, assonnati, intirizziti, affamati e alcuni anche …delusi…
Egidio Lapenta
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